6. Vigilia di Edgar

Col grosso solitario al dito mignolo, a dir la verità, Giacomo non mirava soltanto a far colpo sugli amici e tantomeno a suscitare l'ira di Nicolao Cerù. Ben altro era il suo scopo inconfessato, e lo chiudeva bene bene in cuore.

Quel brillante si poteva chiamare specchietto per allodole, anzi, per un'allodola sola. Il maestrino che cominciava ad essere acclamato e considerato, pur continuando a stentare la vita, si era profondamente innamorato di una bellissima signora di Lucca che, separata dal marito, viveva con una sua figliolina di cinque anni che si chiamava Fosca.

Era per dare l'illusione alla signora che le cose gli andavano bene, che quel ragazzone di Giacomo aveva avuto la brillante idea di ricorrere a Rituali. Più tardi seppe che la dolce, buona, cara e indimenticabile signora Elvira, accortasi del trucco, era stata la prima a sorriderne, ed anche si convinse che essa non aveva bisogno di quello scintillìo per volergli un gran bene. Gliene volle poi tanto e per tutta l'esistenza, già prima di diventare la signora Puccini. E per lui fu sempre pronta ad affrontare la felice povertà, a dividerla, a consolarla con uno slancio sì schietto ed alto che può essere citato ad esempio luminoso di fede e di coraggio.

Persino quando i duri anni furono superati, la signora Elvira soleva dire che amava Puccini non perché fosse il cantore di Mimì ma perché era il suo uomo, mandato dal destino. Mimì in quell'epoca era molto lontana e Giacomo trescava con una certa «Tigrana» che gli era piovuta in casa dalle Fiandre, verso il 1900. Eppure il librettista – senza volerlo – l'aveva messo in guardia, ammonendolo in prefazione e in rima: «Guai se alla luce d'amor serena / noi preferiamo la fiamma oscena / che incendia i sensi. Guai se la coppa / che una baccante trista ne porge, / vuotar vogliamo…».

Il musicista, impaziente di creare l'opera nuova, ormai c'era cascato. Qualche volta, è vero, s'accorgeva di affogare le sue limpide melodie in un ginepraio d'astruserie simboliche, ma sperava che l'ala della musica s'elevasse al disopra dell'inverosimile fantasticheria del libretto. Poi, non restava più tempo da perdere: Ricordi sollecitava, i giorni volavano via rapidi e le duecento lire mensili dell'editore stavano per finire prima che fosse finita la partitura.

Puccini, come aveva fatto quella volta per l'olio con la mamma, esita molto e infine decide – ch'era olio anche questo – di scriverne al signor Giulio che lo aveva, attraverso Ferdinando Fontana, sollecitato a venire a Milano:

Carissimo signor Giulio, Fontana l'altro giorno mi comunicò la sua decisione circa la mia venuta a Milano verso i primi del prossimo giugno. Io sarei pronto, e per me sta bene. Ma vorrei dirle un'altra cosa, ma ho poco coraggio… Basta… Dunque, come Ella sa, col giugno finisce la mia pensione. L'opera è a buon punto. Ebbi il libretto in maggio dell'anno passato e ciò può testimoniarlo anche Fontana che venne appunto qui a Lucca per completarlo. In un anno, capirà Ella col suo criterio, è impossibile terminare una opera di tanto rilievo come questa e di tanta difficoltà. Sul più bello delle mie speranze e del mio lavoro mi troverei sulla nuda terra, non avendo io altri mezzi di sussistenza e per di più un fratello da aiutare. Dunque sarei a pregarla di prolungarmi questa pensione, per così poter lavorare con quiete. Le sarei grato se, come dissi, mi levasse di pena con un suo scritto. Perdoni questa noiosa tiritera gettata giù confidenzialmente, alla buona. Per ora sono contento del mio lavoro e voglio sperare che anche Lei, da parte sua, ne resti soddisfatto. Dunque, quando mi vuole mi faccia scrivere. Partirò all'istante.

Michele, preoccupato e perseguitato dal cattivo andamento delle sue lezioni di canto, capisce che è di peso al fratello e non vuole esserlo più. Perciò una bella mattina gli parla schiettamente: «Giacomo, io qui ormai non la sfango. Malgrado la mia tuba imponente, gli allievi van sfumando nella nebbia. Ma ieri in Galleria ho sentito dire che in America del Sud i maestri di musica sono cercati col lanternino e mi sono convinto che quella è la mia terra. Perciò ho deciso di partire. Sai che noi Lucchesi la voglia di emigrare l'abbiamo nel sangue. Siamo dei giramondo venturieri in cerca di ventura… Dunque, addio, e che la sorte ci sorrida propizia ad ambedue sia in questo che in quell'altro mondo. Addio».

Mancano pochi mesi alla prima dell'Edgar alla Scala. L'opera andrà in scena a fine stagione del 1889. Da Le Villi sono passati oramai cinque anni e in quegli anni quanti avvenimenti!

Giacomo non è più solo. È con lui la donna amata. È nato il figlio Antonio. Ma la fortuna non è ancora entrata nel misero appartamento di via Solferino. Verrà con l'Edgar? Il Maestro non si fa molte illusioni. Ha paura del simbolico libretto. Persino di se stesso non si sente sicuro. Ne scrive a Buenos Aires a Michele lontano a cui pare che le cose comincino a andar bene. La lettera è del febbraio:

Io sono ancora in letto di nuovo, ma sto meglio. Ho avuto febbre e dolori. Anche Elvira è a letto con la febbre. È la terza influenza che ci rimpastiamo. Tonio aspetta sempre la cioccolata dal leggendario zio d'America. È birbante senza più. Ora lo vesto di bianco col berretto rosso di peluche. Pare un cardinale degli Ascari. Alla Scala le cose vanno male. I maestri cantori, portati dalla stampa, hanno zuppato i meneghini… Per l'Edgar ho una paura terribile perché mi fanno una guerra accanita tutti. Se trovi lavoro anche per me, dopo l'Edgar, vengo. Ma non a Buenos Aires, nel centro, fra i pelli rosse… Ti manderò l'Edgar, Le Villi e i Crisantemi, composizione per quartetto eseguita con gran successo dal Campanari al Conservatorio ed a Brescia. L'ho scritta in una notte per la morte di Amedeo di Savoia. Le Villi andarono benissimo a Verona e Brescia. Ti manderò i giornali che parlano di me, dopo la prima alla Scala. E tu mandami pure dei bigei. Anche se il cambio sia così disastroso, non importa… Per ora smetto. Vo sotto, perché ho freddo con le braccia fuori. Stasera nevica… Fa economia, cerca di vivere a stecchetto sempre e – almeno tu – fa denari. Io, qua, ho poche speranze…

Purtroppo il suo presentimento è confermato dai risultati: Edgar in complesso non piacque. I giornali avevano un bel dire che

Puccini doveva essere rimasto lusingato assai dalla dimostrazione di simpatia e di stima che gli aveva fatto il pubblico milanese accorrendo a teatro così numeroso il giorno di Pasqua

e che

i timori di qualcuno circa l'umore degli spettatori costretti a chiudersi in teatro subito dopo il pranzo pasquale erano mal fondati.

Era indorar la pillola di cui, subito sotto, la cronaca rivelava l'amaro:

Il primo atto è terminato freddamente e il Puccini ha avuto un'altra chiamata dopo calata la tela. Sarebbe mancanza colpevole però non accennare che nella scena del duello vi sono in orchestra bellezze indiscutibili.

Durante il secondo atto, Puccini è stato pure chiamato al proscenio tre volte; ma il successo complessivo fu molto inferiore a quello del primo atto.

L'analisi dell'opera è tutta un'altalena di applausi e di silenzi. La frase chiara e appassionata di Edgar, «O soave vision», piace, come piace, specie all'ultima strofa, il brindisi di Tigrana. Ma non piace il coro dei soldati. Uno dei momenti di più schietto entusiasmo di tutta la serata si ha al terz'atto, dopo la marcia funebre e la soave melodia di Fidelia: «Addio mio dolce amor». Ma il terzettino che viene dopo l'aria di Tigrana è ascoltato «un po' svogliatamente». Il preludio del quarto atto non ottiene l'effetto che si prevedeva. Il pubblico, indifferente alla prima parte dell'atto, si riscalda alla frase di Fidelia: «Son tua, son tua». Si trova che tutta la scena di Tigrana è una pagina da maestro di polso. Ma l'opera si chiude senza entusiasmo.

Calata la tela, il pubblico ha fatto però una nuova e cordiale dimostrazione al Puccini, chiamandolo al proscenio parecchie volte da solo e quindi insieme al Faccio, direttore d'orchestra e al librettista Fontana.

Ma se la critica, per ciò che riguarda la musica, dà un colpo al cerchio ed uno alla botte, è unanime nelle stangate al libretto cui attribuisce interamente la colpa dell'insuccesso. Alla distanza di otto giorni, sulla Gazzetta Musicale, Giulio Ricordi si schiera nettamente a fianco di Puccini:

La critica milanese – scrive – si scagliò con grande severità contro il libretto, e se fu più mite col musicista riconoscendone tutto l'ingegno, ne accolse però il lavoro in modo tale che, ove il Puccini non avesse fortissima fibra d'artista, potrebbe concludere col dire: cambiamo mestiere. Ma questa severità della critica, talvolta così benigna con gli ingegni mediocri, non deve affatto scoraggiare il giovane maestro. Al contrario. Le discussioni appassionate ed ardenti, i lunghi ripetuti articoli, più demolitori che edificatori, non avvengono e non si scrivono per le opere mediocri, le quali si elogiano talvolta ma cadono sempre per inerzia propria fra l'indifferenza della critica e del pubblico stesso.

Coraggiose parole, che però non riescono ad infondere a Giacomo quel coraggio che ha perduto. L'insuccesso, se non grava sul suo valore, grava assai sulle sue condizioni finanziarie. È scivolato a terra, e tutti si precipitano per dargli addosso. Scrive a Michele pochi giorni dopo:

Il dottor Cerù mi ha intimato di restituirgli i denari che mise fuori per il mio mantenimento a Milano agli studi, con gli interessi fino ad oggi… Dice che con Le Villi ho guadagnato quaranta mila lire. Adesso, per tutta risposta, gli mando il conto dei noli di Ricordi, e vedrà. Sono, invece, solo seimila lire le mie quote. Che differenza!… Non me lo sarei mai aspettato. Ho qui il farmacista che mi secca e bisognerà che paghi il conto, di venticinque lire… Sono nella più gran bolletta. Non so come andare avanti. I mensili di Ricordi seguitano, ma a debito. Non mi bastano e tutti i mesi accumulo pasticci. Poi verrà il pieno e che Dio mi liberi… Trovassi modo di guadagnare, verrei anche dove sei tu. C'è da fare? Pianterei tutto e partirei. Stanotte ho lavorato fino alle tre e dopo ho cenato con un mazzo di cipolle. Io sono pronto, prontissimo, se mi scrivi di venire. Però ci vogliono i quattrini per il viaggio, ti prevengo…

Essendo in questo stato d'animo e finanziario, una mattina è chiamato d'urgenza da Ricordi. Quella chiamata improvvisa lo sgomenta. Dice ad Elvira: «Vedrai che adesso mi sospendono i mensili… Così almeno la rovina sarà completa».

«Non ti crucciare, Giacomo» gli risponde serenamente Elvira. «Se fosse, troveremo il modo di raggiungere Michele in America. Non mi par possibile che il signor Giulio ti abbandoni, dopo quello che ha scritto in tua difesa.»

Ma Puccini si sente gelare di terrore non appena Ricordi comincia il suo discorso: «L'ho mandato a chiamare per comunicarle che ieri abbiamo avuto un'assemblea piuttosto movimentata degli azionisti proprio per cagion sua. Quei signori si sono accaniti contro l'Edgar e contro di me che accusano di favoritismo inutile per via degli anticipi che le sono stati versati… No, non si allarmi… e mi lasci finire… Ad un certo punto m'è saltata la mosca al naso, che, come vede, è piuttosto lungo, ma dritto e ardito come le mie opinioni. E perciò ho dichiarato che se vogliono chiudere la porta a Giacomo Puccini, da quella porta esco anch'io con lui… No… adesso non si commuova… Io mi sono impegnato a rimborsare del mio quello che lei ha avuto ed avrà in seguito, qualora non si riuscisse a vincere. Bisogna dunque che lei ci si metta di punta, che cerchiamo un bel soggetto e un buon poeta, per poter dire con Cialdini, mio amato generale: Sempre avanti Savoia, e basta simboli! Qua la mano e siamo intesi…».

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