7. Marco Praga racconta

È proprio dinanzi a questa piccola scrivania che ero seduto tanti anni fa di fronte a Marco Praga che mi raccontava la vera storia di Manon Lescaut. Lo studio del caro e grande commediografo era allora in via Monforte, nella sua cheta casa che dava sul giardino. E qui, sullo scrittoio, egli aveva lasciato per la mamma adorata la lettera, che ora è sotto vetro, di amore e di fede, poco prima di affrontare il giudizio del pubblico milanese con La moglie ideale. L'ambiente, esattamente ricostruito nel Museo Teatrale della Scala, cui è stato donato dagli eredi, palpita di lui, della sua solitudine, del suo lavoro. E mentre laggiù in teatro Manon e Des Grieux sono subissati di applausi dal pubblico entusiasta, amo chiudermi nella poesia del ricordo, risentire la eco della sua voce, rievocare quel viso segnato e duro di burbero che nascondeva ostinatamente tanta bontà e sì grande sentimento sotto la scorza ruvida.

Era stato infatti quasi con asprezza che, un giorno, incontrandomi, mi aveva investito: «Ho letto nel volume che hai pubblicato su Giulio Ricordi la tua narrazione delle varie vicende del libretto di Manon. Quel che dici non è esatto. Se, quando ti salda, vuoi venire a trovarmi, ti dirò io con precisione come si svolsero le cose».

«Domattina stessa sarò da te.»

«Benissimo. Ti aspetto.»

Mentre Manon e Des Grieux, in questa ennesima e mirabile edizione scaligera dell'opera pucciniana, son travolti dall'onda della loro passione disperata, mi è dolce rievocare quel colloquio nello studio che adesso è diventato una memoria sacra.

Devi dunque sapere – cominciò quella mattina Marco Praga – che in una sera di primavera del 1890 mi trovavo come al solito al Savini a fare la partita con gli amici, quando vidi Puccini entrare e indirizzarsi a me. Disse che doveva parlarmi non appena avessi finito di giocare. Mi accorsi che era impaziente, smisi subito e insieme uscimmo in Galleria. Camminando su e giù, Giacomo immediatamente mi espone che si era deciso di chiedermi la collaborazione per un'idea che da tempo lo assillava. Sono torturato, mi disse, da una tema che non mi lascia pace. Voglio scrivere una Manon Lescaut e tu devi stendermi il libretto. Ti confesso – riprese Marco Praga – che fui molto sorpreso e non capivo perché Puccini si rivolgesse proprio a me che libretti non ne avevo mai scritto, e nemmeno capivo come mai egli fosse tanto attratto da un argomento che già da sei anni era stato messo in musica e bene da Giulio Massenet. Ma le due riserve non lo turbarono affatto. In quanto a Massenet mi dichiarò che egli vedeva in tutt'altra maniera la vicenda creata dall'abate Prévost, e per ciò che riguardava gli scrupoli miei affermò che un autore drammatico della mia tempra – avevo allora rappresentato da poco La moglie ideale – non doveva esitare ad assumersi l'incarico. E tanto disse e con tanto calore di persuasione, che finii con lo accettare a un solo patto, che avrei studiato e composto la trama, ma non i versi, per quanto fossi il figlio di un Poeta. Puccini ne convenne, incaricandomi di scegliere io stesso un collaboratore di mia completa fiducia per versificare. «Benissimo» risposi. «Il Poeta l'ho proprio sottomano: è Domenico Oliva.»

Infatti, Oliva che in quei giorni aveva pubblicato un volume di poesie molto lodate dalla critica, e che m'era fraternamente amico, faceva al caso nostro.

Prima di lasciarmi rientrare nel caffè a continuare la partita, Puccini mi raccomandò di rileggere in quella notte stessa il celebre romanzo, di non preoccuparmi affatto del libretto di Massenet, anzi di dimenticarlo del tutto per non cadere nello stesso taglio scenico. Manon vista da un francese non poteva essere sentita alla stessa maniera da un italiano. Voleva la sua protagonista ardente di passione. Frivola ed avida sì, ma travolta, anche lei, perdutamente, nel torbido gorgo che trascina il suo bel cavaliere. Voleva che gli amanti palpitassero sempre in un'ansia comune di salvezza e redenzione.

In un secondo colloquio, la settimana dopo, esposi a voce al Maestro la trama che avevo in testa. Ne fu contentissimo. Mi sollecitò a metterla dettagliatamente per iscritto. Lo feci. La rivedemmo insieme. Tutto a posto. La passai a Domenico Oliva che cominciò a comporre i versi, con tanto fervore che in pochi giorni il libretto venne finito. Eravamo in estate. La famiglia di Giulio Ricordi villeggiava come al solito a Cernobbio. E si stabilì di recarci tutti là a farne la lettura, dirò così, ufficiale. Il successo fu completo. Tra gli ascoltatori c'era anche Paolo Tosti che dichiarò di non aver mai sentito un libretto più bello, più completo, più efficace. E Giulio Ricordi, anche lui convintissimo, tornò con noi a Milano per stendere il contratto. Puccini, raggiante, col suo libretto in tasca, partì per un paesino vicino a Chiasso, dove aveva affittato tre stanzette, con tutta l'intenzione di lavorare in pace. Ma da allora la pace nostra tramontò per sempre. L'approvazione della trama mia, l'entusiasmo per i versi di Oliva, il pieno consenso di Giulio Ricordi, le parole ammirative di Paolo Tosti dileguarono l'una dopo l'altra annientate dai successivi dubbi pucciniani. Quell'impianto e quella divisione dei quadri, meditandoci sopra tutto solo, non gli piacevano più. Dichiarò che non sentiva il dramma, non riusciva ad essere preso da quella mia visione di Manon. Voleva situazioni più drammatiche e più travolgenti. Voleva un terzo atto di tutt'altro colore, che vagamente aveva in testa lui. Io m'impuntai. Egli si ostinò. Il signor Giulio, pur cercando di conciliare le cose, parteggiava per Puccini. Sicché alla fine, stanco di sedute e discussioni, dichiarai di ritirarmi in buon ordine lasciando Oliva arbitro della situazione, libero di fare e disfare secondo i desideri o i capricci del Maestro. Così il mio terzo atto fu abolito e nacque al suo posto il quadro dell'Havre, con l'albata, l'arrivo di Des Grieux alla prigione di Manon, il vano tentativo della fuga, il risveglio del porto, l'appello delle detenute, l'imbarco.

Ma anche questa soluzione non risolse il libretto. Ad ogni momento il musicista esigeva trasformazioni, mutamenti diversi. Oliva sopportò fin che poté resistere. Poi si stancò anche lui, abbandonò l'impresa. L'editore, vedendo i due primi collaboratori allontanarsi, per salvare la disperata crisi, si rivolse a Giacosa che a sua volta gli propose di interpellare un giovine poeta librettista che si chiamava Luigi Illica. Costui, prima di accettare, volle che tanto io che Oliva firmassimo una dichiarazione di completa rinuncia alla collaborazione, rinuncia che firmammo senza esitare. E da allora – concluse Marco Praga – delle successive vicende di Manon non volli più sentir parlare. Posso dirti soltanto che quando, a cose finite, Ricordi ci chiamò per legittimarne la paternità, nessuno di noi volle assumersela. O tutti i nomi, si disse, o nessuno. E fu deciso l'anonimo. Perciò il libretto di una fra le più acclamate opere italiane ha questa intestazione: «Manon Lescaut, dramma lirico in quattro atti di Giacomo Puccini». Scomparsi tutti; persino quell'abate Prévost, che, a dirla con Dumas, «quando scrisse questa istoria, può darsi in pochi giorni, non avrà certamente mai pensato di lasciare un capolavoro».

Illica, con baldanza giovanile, si buttò a capofitto nel mare tempestoso. Sapeva che Puccini non faceva che scrivere a Ricordi che Manon lo torturava. Ed aveva anche letta questa frase: «Possibile che non si possa più trovare un poeta che sappia fare qualcosa di buono?».

Voleva dimostrargli che quel poeta c'era ed era proprio lui. Ma presto s'accorse che il suo lavoro andava oltre la poesia. Il Maestro aveva già musicato alcune scene che bisognava non toccare. E frugava qua e là fra i manoscritti dei suoi predecessori per cucire, legare, coordinare la vecchia con la nuova versione. Il primo ed il secondo atto furono messi a posto in pochi giorni. L'osso duro era il terzo. Occorreva entrare nel cervello del Maestro, seguirne l'embrionale visione, concretarla. Colloqui lunghi, laboriosi, ardenti, dubbi, incertezze, proposte e controproposte, stesure e capovolgimenti, consigli con Ricordi che cercava di tirare le fila verso un filo dritto e definitivo. E Puccini implacabile e inflessibile nell'imporre – fino da allora, giovanissimo – la propria volontà.

«Mi occorre il vecchio atto» scriveva Illica «per vedere se mi è possibile conservare qualche scena.»

E fra tanto groviglio di ricerche e tentativi, per non perder tempo, il Maestro musicava l'epilogo. Ora Ricordi non tremava più. «Se Manon, musicalmente, muore» diceva ad Illica «l'opera dovrà vivere. Non allarmiamoci dunque e cerchiamo di finir presto il terzo atto.»

E una bella mattina, finalmente, ecco arriva una lettera del poeta:

Il terz'atto è finito e lo sto ricopiando. Vi ho tolta quella prima scena fra Lescaut e l'arciere e vi ho sostituito una rapidissima scenettina fra Des Grieux e Lescaut, che mette a parte il pubblico degli avvenimenti. Il duetto alla finestra del carcere l'ho spezzato con una voce che canta una canzonetta dell'epoca… È il lampionaio che va a spegnere il fanale. Il duetto riprende. Des Grieux convince Manon che la libertà è sicura. Ma un colpo di fucile rimbomba. È l'allarme. Lescaut accorre imprecando: la partita è perduta. Manon dovrà imbarcarsi per le lontane Americhe. Il piazzale è invaso dal popolo. Comincia l'appello delle cortigiane. All'ultimo momento, dopo il tentativo estremo di Des Grieux, prorompe la sua disperata invocazione al capitano. È il finale.

La partenza del tristo naviglio segnava dunque la gioiosa e trionfante entrata in porto della pericolante barca di Manon. Tra i cui poeti s'era persino insinuato Giulio Ricordi stesso. Perché quelle parole di risposta del capitano all'amante piangente: «Ah! popolar le Americhe, giovinotto desiate… Ebben… ebben… sia pur. Via, mozzo, v'affrettate» sono proprio sue.

Le ultime parole di Manon implorano dal cielo l'oblìo delle sue colpe.

Manon muore e l'opera è finita. Ma non finisce l'ovazione del pubblico. L'entusiasmo sale a un livello altissimo. Si grida, si urla, si vuole Puccini.

Così chiudeva la sua critica La Gazzetta Piemontese dopo la prima rappresentazione la sera del primo febbraio 1893 al Regio di Torino.

«È questa l'unica opera mia che non m'abbia mai dato dispiaceri» soleva dire il Maestro rievocandone il varo. Dimenticava che i dispiaceri erano stati tutti per i poeti, vittime della sua incontentabilità. Ma da quel groviglio di collaboratori e di vicende doveva scaturire poco più tardi un grande binomio che ha dato all'arte musicale italiana i mirabili libretti della Bohème, di Tosca e Butterfly, le tre opere pucciniane più rappresentate nel mondo.

Qualche anno dopo, Luigi Illica poteva scrivere a Ricordi queste righe:

L'intervento di Giacosa nella famosa quistione fra me, Praga e Oliva per Manon, diede origine ad una collaborazione che soltanto la morte poté troncare.

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