8. Preludio di Manon Lescaut

Questa bellissima edizione di Manon Lescaut rilegata in marocchino rosso e oro, che sto sfogliando, fu offerta a Giacomo Puccini dall'avvocato Carlo Pasi nel 1890, come risulta dalla data apposta alla breve dedica: «A Giacomo perché possa inspirarsi».

È un'edizione rara, decorata di pochi rami squisiti. Fu stampata a Parigi dai fratelli Glady nel '75 e il romanzo è preceduto da una lettera di Alessandro Dumas, figlio, che comincia così:

Signori, voi credete che possa essere interessante per il pubblico conoscere l'opinione dell'autore della Signora dalle camelie su Manon Lescaut e mi chiedete di aggiungere una prefazione a una nuova e magnifica edizione che state preparando del romanzo dell'abate Prévost. Io accetto con piacere l'onore che mi fate: On a toujours quelque chose à dire sur Manon Lescaut.

Chissà che non sia stata questa affermazione a far crollare in Puccini anche l'ultimo scrupolo e a deciderlo ad accingersi a musicare il soggetto che già, in Francia, aveva musicato e con grande successo Massenet. Su Manon c'è sempre qualche cosa da dire. L'importante era di parlare diversamente, con sentimento opposto, penetrando nell'anima e non sfiorandone la superficie, esaltandone la fatalità travolgente, facendo proprie anche queste parole di Dumas: «Chi non ti ama come Des Grieux fino al delitto e fino al disonore, non può dire di amarti».

Non era certo questa una passione travolgente sentita alla francese. Era un amore profondo e disperato all'italiana.

Ecco dunque la linea da seguire per staccarsi del tutto da quell'altra Manon, qualora Giulio Ricordi avesse approvato la scelta del tema della nuova opera che affermasse Puccini. Non era forse l'editore che gli aveva detto: «Cerchiamo un bel soggetto e un buon poeta?…».

Ora il soggetto c'era ma il buon poeta che sapesse intuire e penetrare i desiderii del Maestro già fatto scaltro dalla amara esperienza dell'Edgar e quindi risoluto a non farsi più ingannare dai simboli, non spuntava all'orizzonte.

Il primo esperimento era andato a vuoto. Ruggero Leoncavallo che in quell'epoca, per sbarcare il lunario, oltre che fare il musicista si adattava a imbastire libretti, col tramite di Giulio Ricordi s'era messo in contatto con Puccini per cavare dal romanzo di Manon la trama dell'opera. Ma la collaborazione ben presto si arenò. Fu allora che Giacomo si rivolse a Marco Praga il quale, a sua volta, si associò per i versi Domenico Oliva. Costui, invece che seguire fedelmente la traccia ideata da Praga, preferì sbizzarrirsi per conto suo, come dimostra questa lettera mandata da Puccini all'editore:

Ho creduto bene inviarle il manoscritto di Oliva acciocché lo legga e si faccia un'idea esatta dei difetti e delle contorsioni che racchiude. Ci sono delle buone cose, ma, per esempio, il quartetto è brutto. Non capisco perché l'Oliva abbia abbandonato la traccia che era così chiara. È buona la prima scena fra Geronte e Lescaut e così la seconda con Manon, salvo qualche accorciatura quando Lescaut va a prendere il vecchio nascosto. Ci sono quelli «a parte» che mi sembrano troppo lunghi. Poi veda il manoscritto dove troverà le mie osservazioni quando Lescaut parla con Des Grieux. La traccia è chiara: eh! caro mio, ci sono tanti mezzi per far denaro quando s'è intelligenti: il gioco, le belle donnine più o meno giovani… Invece, come si vedrà dal libretto, tutto ciò è incerto, contorto, lungo. Poi veda le osservazioni. Non mi piace – perché Renato fa una parte odiosa – quella scomparsa, per preparare i rinfreschi, di Lescaut e Renato. Come Renato arriva al punto di lasciare Manon a disposizione del vecchio!… Si ricorda quanto si è dovuto lottare col Leoncavallo per evitare ciò? E veniamo, dopo molti altri difetti, al quartetto. Com'era grazioso, logico, interessante quello della traccia! Quella entrata di Geronte; poi, quella descrizione della guerra in Polonia di Lescaut per distrarre Des Grieux. Quello scoppiettìo di Geronte e Manon… Poi era meglio che si sedessero a tavola come s'era deciso. Dov'è andato a finire quel piccolo brindisi fatto così bene a proposito?… Insomma tutta quella scena in luogo del quartettino a tavola, che era rapida e succosa, è sostituita da un'altra versione eternamente lunga e retoricamente loquace, a danno della chiarezza e rapidità dello svolgersi della commedia. Va bene, dopo, la partenza di Geronte, cioè l'ultima scena. Insomma io non sono contento affatto affatto e credo che lei sarà del mio parere. L'essersi scostato dalla traccia, in qualche punto è stato di miglioramento, ma in molti altri di peggioramento.

Io all'Oliva scriverò che il manoscritto con alcune osservazioni è presso di lei. Ella a voce, la prego, la scongiuro, esponga il contenuto di questa mia e tutto ciò che crederà logico anche da parte sua. Mi raccomando a lei che è l'unica persona di fiducia e a cui possa confidare tutto ciò che passa per la mia testa, a lei che con tante prove mi ha dimostrato quanta benevolenza e immeritata fiducia nutra per me.

Era un parlare chiaro, da uomo che voleva quel che voleva per andare sul sicuro prima di mettersi a musicare il libretto. Ma il risultato portò a lunghe discussioni, a nuove impuntature del Maestro da un lato, dei due librettisti dall'altro.

In definitiva, tutti i punti incriminati dalla lettera sparirono. Nessuno ha mai sentito poi parlare della scena dei rinfreschi, o della guerra in Polonia di Lescaut o del quartetto a tavola con relativo brindisi. Ma, allora, le battaglie e i contrasti si inasprirono talmente che, per primo il Praga, per secondo l'Oliva, convinti che lavorare con Puccini era rinunciare alla pace, declinarono l'incarico che successivamente assunse Luigi Illica.

Giacomo, imperturbabile e irremovibile, scriveva alla sorella Dide:

Sono intorno a Manon Lescaut, ma mi fa disperare il libretto che ho dovuto far rifare. Anche adesso non si trova più un poeta che ti faccia qualche cosa di buono.

E subito aggiungeva:

Vedeste Mascagni che successo! Era qui ieri, anzi fu a pranzo da me.

Era il giugno del '90. La sera del 17 del mese precedente, inatteso, incredibile, sbalorditivo il successo di Cavalleria rusticana al Costanzi aveva di colpo innalzato ai sette cieli il nome di Mascagni.

Ma Pietro, durante quel fraterno simposio col compagno di studi, ostentava di non essersi per nulla montato la fantasia. Era semplice, cordiale, affettuosamente espansivo. Livorno e Lucca dovevano camminare a braccetto, e loro due, toscanissimi, diventare i successori di Verdi.

«Sì» diceva all'amico in pieni guai con i suoi librettisti il giovanissimo trionfatore. «Sì, mi sono incontrato a Roma con la signora Fortuna, che a Cerignola, mentre dirigevo la banda, non riuscivo a vedere. È stata gentilissima. E sai quel che mi ha detto?»

«No… Che cosa?»

«Che desidera di conoscerti prestissimo. M'ha detto che ti aspetta con l'infida Manon e che l'ora della gloria, Dio bonino, suonerà anche per te.»

I due ragazzi l'avevano sognata insieme quell'ora sospirata, sui duri banchi del Conservatorio, o mangiando pochetto, l'uno accanto all'altro in un angolo nascosto della fiaschetteria toscana dell'«Aida»… dove una sera subito dopo Le Villi, Giacomo aveva sbalordito gli avventori squattrinati pagando l'arretrato dei pasti con quel primo bigliettone da mille avuto da Ricordi. Oppure passeggiando a notte alta per la deserta Galleria, ubriachi di progetti proiettati nel futuro.

Adesso finalmente e sempre insieme, sbucavano dall'oscurità ricchissimi di genio e di certezza.

Aver pronto il libretto definitivo, trovare a buon mercato un posticino in campagna e là chiudersi in pace a lavorare, senza nessun contatto se non quello con un pianoforte, era l'ardente desiderio di Puccini che sentiva in sé più che mai la impazienza di vincere, dopo quell'ultimo incontro con Mascagni vittorioso.

“Ai primi di luglio vado in campagna in Svizzera” scriveva alla sorella Dide.

“Ti scriverò l'indirizzo perché ancora non so dove andrò, avendo due o tre case in vista, e non mi sono ancora deciso.”

Quel due o tre case in vista nella libera Elvezia, sapeva un poco di spacconeria, o per lo meno aveva un che di imponente. Ma, nella stessa lettera, tutto questo crollava alla distanza di pochissime righe: “Cerù che fa? Gli scrissi circa l'affare della restituzione mantenimento mio quell'anno a Milano e interessi. Gli dissi che per ora mi era impossibile. Colla bella fortuna che ho è assai se tiro avanti. Informati, ma alla larga, per sapere cosa dice.”

*

La scelta fra le case consisteva nel loro prezzo d'affitto. E perciò il viaggio si ridusse a varcare il confine di Chiasso e salire qualche chilometro più su nel paesino di Vacallo. E la casa fissata consisteva in tre camere l'una sopra l'altra: a terreno la cucina, al primo piano la stanza matrimoniale e al secondo la cameretta dei due piccoli, Fosca e Antonio, con una branda in parte per la donna di servizio e custode dei bimbi. La stanza da letto serviva anche da studio, dato che là era stato collocato un pianoforte noleggiato a Chiasso.

«Mio Dio, non è gran che» disse Giacomo facendo alla signora Elvira la presentazione della villa. «Ma almeno qui ci potrò lavorare in santa pace.»

«E senza amici e seccatori che vengano a disturbarti.»

Ma una grande sorpresa aspettava i villeggianti all'indomani della sera dell'arrivo: aprendo le finestre all'aria pura del mattino essi videro appeso alla finestra della casa di fronte un grandissimo pagliaccio variopinto.

«O che vuol dire?»

«Un pagliaccio?… Perché?»

La spiegazione la portò la servetta ch'era corsa a informarsi. La finestra di fronte apparteneva a un tale ch'era arrivato da Milano la settimana precedente e che si chiamava col nome di due bestie messe insieme: Leon-Cavallo.

Il primo librettista di Manon aveva infine scelto la sua vera strada. S'era ideato e composto un libretto per conto suo, I pagliacci, e aveva cominciato a musicarlo. Saputo che Puccini veniva a lavorare là, dirimpetto a lui, per dirgli il titolo dell'opera e dargli scherzosamente il benvenuto, era ricorso a quel simbolico sistema.

«Adesso gli rispondo!» esclamò Puccini, che già era a conoscenza dei progetti del collega.

E infatti, stese a terra un grande asciugamano, vi dipinse nel centro, col nerofumo, una manona enorme, e a sua volta lo appese con due chiodi al davanzale: più Manon di così… Ma al successivo incontro i due compositori si promisero reciprocamente che per evitare l'incrociarsi del suono dei due pianoforti dall'una casa all'altra, Ruggero avrebbe lavorato di mattina e Giacomo, com'era sua consuetudine, di notte.

Non restava che uno scrupolo: come avrebbe potuto in tale caso dormire la signora Elvira?

«Non ti preoccupare» rispose alla galante obiezione Puccini. «Elvira è abituata. Le piace riposare sulle mie melodie.»

E tale fu il preludio della Manon Lescaut.

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