VII.

Giunti che furono al castello madonna Giovanna corse nella stanza ove ser Lapo, adagiato nel seggiolone e sorretto dai guanciali, traeva a stento il respiro, presso l’ampia finestra.

— Padre!

Il suo aspetto non era piú quello di un tempo e non era quello che la figliola s’era raffigurato: nel viso esangue traspariva la sofferenza di un micidiale dolore per gran tempo raccolto e protratto, ma l’anima, che aveva conteso il corpo alla morte e per brev’ora aveva vinto, quasi purificata dalla contesa e dalla vittoria gli effondeva nel viso esangue una luce nuova di bontà e di pietà. Gli occhi non piú irosi e torvi guardarono con dolcezza placida, a lungo.

— Padre! Perdono!

Dalle labbra raggricciate e livide uscirono finalmente parole miti e generose

— I miei figli...

E messer Lapo, che aveva perdonato a’ suoi figli, volle vedere Raimondo. Venne. Riconoscendolo, il morente disse: – Muoio.

Seguí un silenzio d’alcuni minuti, eterno, rotto soltanto dai singhiozzi della figliola e dal gorgoglioso respiro del padre. Indi questi, quasi vaneggiasse o afferrasse in una riflessione estrema un’estrema ricondanza, balbettò ancora:

— Quel cavallo....

Voleva rivederlo, il cavallo che aveva dato tanto dolore a lui ma tanta gioia aveva dato alla sua figliola or perdonata e benedetta?

Ordinando di condurre nella corte, sotto la finestra, il leardo, madonna Giovanna indovinava l’ultima volontà di ser Lapo?

Poco dopo il leardo raspava nella corte.

E la figlia china su ’l padre – È là – disse, e tese la mano verso il cavallo.

Il vecchio alzò le palpebre, abbassò uno sguardo dalla finestra. Lo vide e parve che sorridesse. Ma le palpebre non ricaddero sopra le pupille spente.

— Padre! – gridò la donna.

Il sire di Farneto, morto, pareva che sorridesse.

Tradotta in tedesco da A. Schrott e pubblicata dalla «Sonntags-Zeit» di Vienna il 5 marzo 1911.

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