II.

Quantunque sappiamo tutti che la perdita dei genitori è il più gran dolore umano, sarebbe disumano dir fortunato Gaspare Bicci perchè nacque postumo e perdè la madre non ancor giunto agli anni della discrezione. Egli però riconosceva che per lui, orfano, era stata una fortuna grande l'aver avuto a fargli da padre e da madre, con alterna vicenda, a seconda dei casi, lo zio Giorgio e Luigi.

Riandando gli anni della puerizia e dell'adolescenza, Gaspare non vedeva che rose senza spine. Fin delle scuole e degli studi, che angustiano e deprimono tutti i ragazzi, serbava grata memoria; così per tempo aveva saputo adattarsi alle necessità del mondo; tanto affetto gli era rimasto dei buoni maestri; tanto agevole gli era parso ciò che appariva disagevole agli altri. A superar gli esami tranquillamente lo zio Giorgio gli aveva dato in aiuto un vecchio precettore, il quale valeva una mediocre enciclopedia; e a guida negli svaghi e nei sollazzi gli aveva concesso Luigi, che gli lasciava lungo il guinzaglio.

Quando di guida non ebbe più bisogno - all'età cioè, in cui tutti pericolano - lo zio lo sorresse donandogli trattati d'igiene e trattati intorno le cause e le forme di morbi insanabili: per di più, le precauzioni non essendo mai troppe, gli regalò il codice penale. Così Gaspare crebbe sano di mente e di corpo; non di molto ingegno, ma abbastanza da comprendere che il grande ingegno rende infelici; abbastanza di cuore da commiserare il prossimo suo, ma non tanto tenero da patir danni, a mo' dello zio Giorgio, per gli altri; abbastanza di buon senso da persuadersi che i desideri superiori ai mezzi tolgono quiete e pace, e da scorgere in sè e fuori di sè prove indubbie della sua buona fortuna.

Oltre a questo, anzi prima di ogni cosa, chi non gli avrebbe invidiata la nativa arrendevolezza ai bisogni, alle convenienze, alle contingenze, ai consigli della ragione?

Gaspare Bicci non si preoccupò nemmeno delle due sole pretese in cui lo zio Giorgio insisteva. L'una: che suo nipote dimostrasse come i ricchi debbano servire la patria ugualmente ai poveri e come l'anno di volontariato sia un'ingiustizia e una vergogna; l'altra: che suo nipote conseguisse una laurea. «È vero - diceva - che troppe volte è meglio un asino morto d'un dottore vivo; ma giacchè gli asini vivi superano i dottori vivi, e quelli credono aver necessità di questi, è lecito trar partito dal comune pregiudizio.»

Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi, scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se stesso con un diploma d'ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene che i volontari d'un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito, diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari. Niente, dunque, volontariato!

La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell'avvenire gli era così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.

Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la prima volta nell'animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s'incagliò nella traduzione del greco; s'ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale. E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.

E passò un'altra ora. Poscia uno consegnò il cómpito; quindi, in breve, molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà quel che sarà!»; e chi con viso lieto: «anche questa è fatta!»; e tutti con la colazione davanti agli occhi e l'anima alleggerita.

Ma gl'infelici in ritardo s'asciugavano la fronte; si curvavano sempre più sulle sudate carte e sui vocabolari copiosi e indifferenti; inghiottivano, sentendosi mancare le idee, la speranza e la lena, un pezzetto di cioccolata o s'attaccavano alla bottiglietta del cognac; si compromettevano con segni di richiamo e gettiti di pallottoline che recavano in seno una domanda o una risposta, un'invocazione d'aiuto o l'aiuto d'uno sproposito; vedevano, i miseri, la paterna e la materna angoscia.

Gaspare vedeva lo zio Giorgio e Luigi.

A un tratto il compagno di destra mise un profondo sospiro; guardò con, negli occhi, la gioia della vittoria e insieme una luce di carità; poi chiese a Dicci, piano piano:

- E tu?

- Se non ci fosse quest'ottativo....

- A te! copia...; ma cambia le frasi.

.... Gaspare Bicci fu ammesso all'esame orale, si salvò anche dal greco; e il compagno che l'aveva disimpacciato, fu bocciato in greco!

L'anno dopo Bicci andò a estrarre il numero di leva.

In un gran camerone, pieno di fallaci speranze e d'un'allegria fittizia, egli attendeva rassegnato e tranquillo.

- Bicci Gaspare!

.... Alla peggio, diventerebbe e rimarrebbe caporale.

- 824!

- Accidenti!, - fece uno tra i giovani che aveva più vicini; un operaio.

Parve a Gaspare di leggergli in viso il presentimento che non toccherebbe a lui ventura simile; a quel povero giovane, che col padre o la madre o i fratelli piccoli da mantenere, agognava un numero alto e n'aveva necessità, per rimanere in terza categoria.

Bicci, tra impietosito e curioso, volle aspettarne la sorte; e con un cordiale augurio ne accompagnò la mano entro l'urna.

- 12!

«Jettatore! jettatore!»

Ah era un dubbio assai triste! Quasi per un pudore arcano, Gaspare non osava confidarlo nemmeno allo zio; non prevedeva che questi l'avrebbe consolato subito in quattro parole: La jettatura è un pregiudizio così stupido che fa torto all'intelligenza degli uomini cattivi e alla bontà degli uomini poco intelligenti. Quanto alla fortuna, sia o non sia sottoposta alla divinità, essa è una potenza innegabile. Bada però che è relativa: che, cioè, la fortuna dell'uno è quasi sempre la disgrazia dell'altro; e che ciò che ci sembra fortuna oggi, ci sembrerà disgrazia domani.

Questo, o press'a poco, gli avrebbe detto lo zio. Ma Gaspare si consolò da sè per una diversa riflessione: dal non avere egli mai un forte mal di capo; dal non prendersi neppure un grosso raffreddore, non dovevan conseguire le pleuriti e le polmoniti altrui.

Per fortuna non conosceva dei medici i quali gli dicessero che, secondo la scienza moderna, anche il raffreddore è un'infezione, la benefica natura distribuendo nell'aria, per gli uomini e per le bestie, moltitudini di microbi frigoriferi; onde se la fortuna risparmia qualche suo prediletto dall'ingoiarne, tanti più ne rimangono, di microbi, a danno degli altri uomini e delle altre bestie.

Gaspare tuttavia non credeva d'essere un uomo fuori del genere o sottratto alle conseguenze del peccato originale, ed era appena uscito dal dubbio della jettatura che cadde in un timore più forte. Ricordava che suo padre e sua madre, di cui riteneva la sanità del sangue e della fibra, eran morti giovani entrambi per malattie casuali e violente. Non avrebbe egli la medesima fine? Sarebbe come un rovescio tutto d'un colpo; come una giustizia sommaria che lo rimetterebbe nella regola dell'infelice destino umano!

E per evitare un tal colpo egli era condotto a desiderare qualche piccola disgrazia: una piccola malattia, un fiasco alla Scuola di applicazione.

Ma che! Il diploma d'ingegnere l'ottenne, se non con lode, senz'infamia. Non ebbe subito impiego; ma non lo cercò, avendo modo di vivere modestamente, di leggere romanzi, disegnare, dipingere alla meglio, suonare alla peggio il pianoforte e andare a spasso: di vivere, insomma, senza far nulla. Nè si ammalò lui.

Una sera lo zio Giorgio venne a casa male in gambe, e con un gran freddo addosso.

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