XIII.

Nè mai sarebbe stato così giusto il proverbio che tutto il male non viene per nuocere, se Erminia avesse seguitato a lungo nel buon mutamento. Riprese a uscire di giorno e di sera; riprese a discorrere e, grazie a Dio, senza litigare. Ma tanta felicità poteva durare un pezzo?

E sopravvenne di nuovo la noia nell'animo dell'isterica donna, con la intollerabile intolleranza d'ogni cosa, d'ogni persona; nessuno al mondo avrebbe saputo da che lato prenderla. Non poteva soffrire neanche le persone che avessero avuta qualche somiglianza di gusti con lei.

Infatti una volta all'Eden, ove egli si divagava ma si annoiava Erminia, Gaspare scorse, non più rivisto da anni, il più caro compagno e più allegro amico della prima giovinezza: Gino Monarchi, un pittore già in fama a Parigi; e benchè ricordasse il consiglio dello zio «Sta lontano agli artisti» (il povero zio l'aveva anche esortato ad ammogliarsi!), egli lo chiamò:

- Ehi, Monarchi!

- Oh! Chi vedo!... Bicci!

- Tu, qua?

- Tu, qui?

A un abbraccio cordiale e a baci fraterni tenne dietro la presentazione della signora.

Il Monarchi era un bel giovane; forse troppo elegante, con la caramella all'occhio destro e copiosi capelli alla simbolista; ma un parlatore delizioso, un osservatore arguto. Parlò d'arte, di Parigi, fino d'Orvieto. «Erminia ne resterà contenta» pensava Gaspare. Invece, chi lo crederebbe?, quando se ne fu andato Erminia disse:

- Mi è molto antipatico, il tuo amico! Se verrà a trovarmi prima di partire, farò dirgli che non sono in casa.

Nè del Monarchi si discorse mai più; nè più lo rividero, tranne, da lungi, due o tre sere a teatro.... A teatro?

Sì, Erminia ebbe all'improvviso questa nuova smania, una nuova pazzia! Convinta che per essere notati a Milano bisognava spendere, si mise a spendere e a spandere rovinosamente in gioielli e abiti; e dal suo palco pretendeva insegnar «il buon gusto nella moda» alle milanesi! «Non basta seguire la moda!» diceva.

Come il marito l'ammonì che non erano abbastanza ricchi da impartire cotesto insegnamento, ella gli si scagliò contro:

- Perchè mi hai sposata, se non puoi mantenermi? Dov'è la mia dote? Quando, con chi l'hai consumata? - E così via, fino a giungere allo svenimento e alle convulsioni.

C'era da temere si rinnovassero anche le invocazioni di «Enrico! Enrico!» e le pratiche spiritiche. Per evitar tutto ciò Gaspare lasciò dunque correre, rassegnato alla rovina. «Qualche santo - pensava - mi aiuterà».

E infatti un bel giorno Erminia si disse stanca; desiderosa di quiete e di solitudine. Un santo era intervenuto.

Ma troppa grazia! Perchè essa cominciò anche a meditare il suicidio; e lo diceva. Che giorni per un marito di cuore e di coscienza! Mentre a casa attendeva quali ore di tregua le ore dell'ufficio, all'ufficio, lui, il povero marito, dubitava di trovarla, al ritorno, impazzita del tutto, oppure asfissiata.

Un Calvario! E non era più possibile tirare avanti un pezzo così. E solo un colpo di fortuna poteva ridar la pace a Gaspare Bicci.

. . . . . .

Verso le cinque pomeridiane egli saliva le scale di casa sua, superando ogni gradino con lo sforzo di chi ascenda al patibolo.... Quand'ecco, era appena davanti all'uscio, che l'uscio si spalancò alla disperazione della cuoca.

- La signora.... non c'è più!

Morta?

- Dov'è andata? - chiese lui, livido e anelante.

- Dove sarà andata? - chiese, per risposta, la donna.

Nell'angoscia Gaspare rispondeva a sè stesso: «Ad annegarsi. È finita! Ma che guaio!»

- Di', parla! A che ora?...

- Dopo colazione, è uscita con la valigetta.

Ad annegarsi con la valigetta?

- E non ti ha detto nulla?

- Sissignore; che c'è una lettera per lei, su lo scrittoio.

- Ah! Meno male!

Si precipitò nello studio. Lesse:

«Gaspare,

«Io ti ho reso molto infelice.... Lo riconosco lealmente, e ti giuro che mi annegherei se non fossi persuasa di saper rendere felice Gino Monarchi. Vado con lui a Parigi. Tu vieni in Francia: vi faremo divorzio; così sarai libero di trovarti una donna degna di te. Addio.

«Erminia.»

- Sciagurato! - gridò Gaspare volto il pensiero al traditore.

Per altro, gli sembrava che una mano benefica gli levasse, o dalle spalle, o dal petto, o dal cuore - non sapeva da qual parte, certo d'addosso - un enorme peso; e tant'era il sollievo, che gliene conseguì una mitigazione all'ira, un senso di dolcezza; e tant'era buono, Bicci, che a poco a poco il sollievo e la dolcezza gli si convertirono in un senso di pietà.

«Sciagurato! - ripetè, a bassa voce. - S'accorgerà presto di qual natura è quella donna!» «Dopo tutto - aggiunse in un risveglio d'irresistibile letizia - , meglio a lui che a me!»

E quasi fuori di sè medesimo, o piuttosto ritornato interamente a se medesimo, da morte a vita, scrisse - senza nemmeno riflettere che arriverebbe prima lui della lettera - :

«Caro Luigi,

«Un amico mi ha portata via la moglie. Sono salvo, libero, felice; l'uomo più fortunato del mondo! E corro a Bologna da te.

«Il tuo Gaspare

Una "scampanata".

In Romagna.

Tornavano dalla parrocchia, dopo i vesperi, frotte loquaci di donne, uomini e fanciulli e coppie amorose, sorridenti o serie nel loro bisbiglio; i dami col garofano all'occhiello.

Una gran dolcezza primaverile calava dal cielo, ove serenamente moriva il lume crepuscolare e, sensibile e ineffabile, si effondeva dalla terra ove il nuovo verde pareva velarsi a poco a poco e oscurarsi e, lontano, sparire. Come due ragazzi s'arrestarono per tirar sassate in un ricovero di passeri, nel fitto del cinguettio, il nonno d'uno di loro ammonì a voce aspra:

- Lasciateli stare, poveri animalini! - Ubbidirono; lanciarono i sassi nel fiume; e nel ricovero di fronde le piccole voci ripresero richiami, proteste, confidenze, querele, saluti.

A un punto della strada, la Faziòla e Fulgenzio, che venivano fra gli ultimi, l'uno dal lato destro, l'altra a sinistra, si videro.

- Buona sera, Fulgenzio.

- Buona sera, Faziòla.

- Il sole è calalo bene. Avremo bel tempo anche domani.

- Ce n'è bisogno.

- Dove siete a lavorare, adesso?

- Vanghiamo le vigne.

- Sarete in molti.

- Quindici o sedici.

- E han fatto «caporale» Giulio, eh?

- Giulio.

- Povero Fulgenzio! Non c'era era ragione di farvi torto.

- Chi comanda ha sempre ragione.

Dopo una pausa lei chiese:

- Ma è vero quel che dicono?

- Dicono.

La loro malignità non andava più oltre dell'accennare alla ciarla che Giulio dovesse ai meriti della moglie la nomina a capo degli operai braccianti.

- Per fortuna non avete famiglia da mantenere, voi.

- Oh! io mi contento che Dio mi lasci la salute. Ma.... - E l'infelice guardò la Faziòla sorridendo in quella sua maniera di bontà ingenua per cui appariva men brutto e più triste: - ....Ma se mi viene una febbre, io non ho un cane che mi porti una goccia d'acqua.

Allora, quantunque compiangesse lui, la Faziòla sospirò per sè.

- Meglio non aver nessuno, che aver dei cani, per modo di dire, che vi porterebbero via il boccone di bocca, se potessero.

- Non vi trattan bene in casa?

Essa volle attenuare.

- Capirete anche voi: le annate vanno scarse e uno di più in famiglia, aggreva.

- Ma voi lavorate.

- Questo è vero. C'è la tela da fare? Tocca a me. C'è da rappezzare la roba? Tocca a me; la sera o la mattina. Al dì, o si va alla foglia, o all'erba con le ragazze; o s'aiuta la reggitora. In ozio non ci sto; quest'è vero.

Era disgraziata anche lei, la parte sua, povera Faziòla!

Quindi Fulgenzio riprese:

- Avete fatto male a non maritarvi un'altra volta, quando eravate a tempo.

- Le vedove che non han quattrini si lascian dove sono; lo sapete pure. Piuttosto voi, Fulgenzio, perchè non avete preso moglie?

Entrambi s'erano già dimenticati d'aver riconosciuto un vantaggio in lui il non aver famiglia da mantenere; e lui tornò a sorridere.

- Chi volete che mi prendesse?

Infatti da giovane era anche più brutto e più magro, sembrava più zoppo; sembrava tirasse l'anima coi denti.

- Una ragazza non dico - la Faziòla rispose. - Le ragazze han delle pretese; ma una donna quieta....

- Trovarla una donna quieta!

Tacquero, mentre la Faziòla diceva fra sè e a occhi bassi, nel silenzio: «Oh non c'ero io?» Almeno così egli credette, perchè sorrise ed esclamò commosso:

- Ah, lo capisco il mio sbaglio! Avrei dovuto sposarvi voi, Faziòla! Voi eravate proprio la donna per me.

- E io vi avrei preso, Fulgenzio!

Mormorò l'uno:

- Adesso è fatta.

- Adesso è fatta - mormorò l'altra.

Nè parlaron più finchè furono vicini a casa.

Ma quando la Faziòla stava per augurar la buona notte, lasciar la strada e passare la siepe, Fulgenzio, fermo, si guardò attorno, raccolse il fiato e con voce tremula disse:

- Sentite: la gente può dir quel che vuole; ma io, di una donna ne ho proprio bisogno.

- Lo dico anch'io.

- Se voi mi voleste....

Alla proposta lei si mise a ridere forte.

- Ma siete matto? Ho cinquant'anni; sono vecchia....

- Mi volete?

Ridevano tutti e due, tanto la cosa era seria; tanto egli temeva un no e tal voglia aveva lei di rispondere sì.

Ma vinse la ragione.

- Bisogna pensarci su, per non pentirsi dopo.

- Pensiamoci. Domenica ne discorreremo.

- Va bene. Buona notte, Faziòla.

- Buona notte, Fulgenzio.

Avevano una settimana per pensarci; ed era troppo; e la settimana fu lunga. Finchè aveva sperato di migliorare un po' la sua condizione risparmiando il corpo malconcio, Fulgenzio aveva sperato anche di trovar donna non molto innanzi con gli anni la quale lo compensasse della giovinezza perduta senza amore; ma cadutagli ogni speranza e presunzione, doveva ringraziar Dio se la Faziòla lo voleva! Era una brava donna, che a opera nei campi o a tessere, guadagnerebbe tanto da non tornargli di peso; una buona donna da cui, quando Dio lo chiamasse per primo a sè, avrebbe amorevole assistenza. Davvero?... Non seduceva la Faziòla il solo interesse? Non si era sparsa voce ch'egli aveva da parte qualche soldo? Questo sospetto lo infastidiva; ma, insomma, la donna era buona o no? Sì, era buona. E allora, via il pensiero maligno!

Quanto a lei, la Faziòla, uscir di quella casa in cui i parenti la trattavano da serva e le invidiavano il pane che mangiava; e faticar meno, e vivere in casa sua, giudicava tal fortuna che a rifiutarla le sarebbe parso d'offendere la Provvidenza. Pure un ritegno le restava. Perchè? si sentiva il coraggio di sfidare la gente, o no....

Finalmente venne la domenica a chiuder la settimana dell'attesa e dell'incertezza.

- Come la mettiamo? - chiese, al ritorno dai vesperi, Fulgenzio. E sorrideva in quel suo modo faticoso.

- Ho paura del mondo.

- Io no; non ci bado io!

- Ci faranno la «scampanata».

- E che la facciano!

Egli cercò inanimirla; e tanto disse, che lei accondiscese. Pur mentre incoraggiava, quella giusta apprensione degli scherni che turberebbero forse per anni la loro pace; quel timore dell'avversione o della condanna pubblica, toglieva ardimento a lui stesso e l'induceva, il dì dopo, a interrogare l'arciprete. - A costo di spender qualche cosa, non si potevano evitare le pubblicazioni matrimoniali? -

- Impossibile!

L'arciprete però fece coraggio a Fulgenzio: - Non badassero a rispetti umani! -

- Un po' di meraviglia in principio, eppoi smetteranno.

- È quel che dico anch'io.

Altro che meraviglia! Fu stupore, fu ilarità mal repressa per tutta la chiesa quando l'arciprete disse dall'altare:

- Si pubblica per la prima volta la domanda di matrimonio di Fulgenzio Laudi con la Violante Stradelli vedova Faziòli.

E, dopo, la fidanzata non osava più uscir dalla porta di casa, avvelenata in casa dalle canzonature dei nipoti e dei pronipoti; nè il fidanzato osava cercarla. Essa ignorava in che modo resisteva lui alla tempesta. E Fulgenzio sorrideva e taceva.

«Presto o tardi smetteranno!»

Altro che smettere! Dio sapeva quel che preparavano per il dì delle nozze!

Fortunatamente l'arciprete ebbe un buon consiglio; e allorchè, nel gran giorno, la gente accorse alla prima messa per assistere allo sposalizio, apprese che da due ore gli sposi eran già fatti e che già erano a casa loro.

- Stamattina ce la siam cavata - sospirava la Faziòla. - Il peggio sarà stasera.

Ripeteva Fulgenzio:

- Non ci pensate.

Intanto si vedeva che lui ci pensava.

Attendevano, intanto, a riordinar la casa, oh senza alcuna smania di sposi novizi!: irritati, al contrario, che a loro due, così quieti e consapevoli degli anni e dei malanni che portavano addosso, il mondo attribuisse simili sciocchezze.

Molte erano le faccende. Anzitutto, il letto, primo talamo della Faziòla, da riconnettere; e i pagliericci da riempir di foglie, e i cuscini da rifare; quindi, ripulire le masserizie, riordinare e spartire la biancheria e i panni che meritavano rattoppi; e nettar la cucina in modo che non ci fosse da vergognarsi nemmeno se v'entrassero l'arciprete e il fattore.

- Ah le mani d'una donna! - diceva Fulgenzio strofinando, dentro, il paiolo.

Inoltre, si prepararono il desinare di nozze con le tagliatelle in brodo e il lesso.

- Sono dieci anni che non ho sentito un poco di manzo; da quando si maritò mia sorella - confessò Fulgenzio.

Similmente la Faziòla gustava il vino.

- Buono! Buono! Non me ne davano mai, in casa, a me!

E, d'improvviso, il vino le fece concepire l'idea mirabile, che schiarì del tutto il malumore in entrambi. Se dessero da bere agli offensori?

- Ho fatto un pensiero curioso - lei disse. - Se dessimo da bere?...

Fulgenzio ascoltava, sorridendo; approvando,

- Sì, sì! Un bel pensiero! Sicuro!... Rideremo! - E rideva.

- Il vino dove lo mettiamo?

- In un bigoncio.

E poco dopo egli fermò il bigoncio nella carriola; e andò alla fattoria a riempirlo di quello buono.

Ma al ritorno vide la moglie desolata, pentita d'averlo indotto alla grave spesa.

- Ne avremmo tante delle spese da fare! - Infatti mancavano di questo; mancavan di quest'altro....

Allora Fulgenzio si sentì in obbligo di consolarla; di rivelarle il segreto contenuto nell'animo a fatica. Trasse dalla tasca della giacca il libercolo.

- Guardate qui! Non siamo poi disgraziati come vi credete.

- Cos'è?

- Il libretto della cassa di risparmio.

Essa aveva spalancati gli occhi; guardava; ma non sapeva leggere.

- Dice - spiegò Fulgenzio - che ci ho settecento franchi, senza i frutti.

- Ma vi fidate voi a lasciarli in mano di altri?

- Eh! alla cassa....

- Io no: io non mi fido di nessuno! Volete vedere dove li tengo, io?

Salirono nella camera del talamo. Ivi lei, rimestato che ebbe in fondo alla cassapanca, elevò la calza trionfale, sonante e gravida del gruzzolo; e disse, sgroppandola e riversandola sul letto:

- Contiamoli. Non so neanche quanti me ne abbia.

Il marito aveva le lagrime agli occhi men per la gioia che per il rimorso di quel suo dubbio, che la donna l'avesse sposato per interesse. In un'occhiata si vedeva che dei quattrini n'aveva più lei!

Altre lagrime, non di gioia, non di rimorso velavan gli occhi della moglie.

- Sono quei pochi - disse - che mi rimasero dopo la morte di Faziòli, e quelli che misi insieme a vendere la roba quando perdei il ragazzo,

Ma se fosse vissuto il suo figliuolo, oh no, non avrebbe pensato a rimaritarsi, a cinquant'anni!

- Povera la mia Faziòla! - esclamò, intenerito, Fulgenzio.

Per impedire ogni tenerezza e per sottrarsi alla dolorosa memoria, lei ripetè:

- Contiamoli.

Cominciarono il conto, il loro sguardo si riaccendeva mentre distinguevano le monete e le ammucchiavano sorte per sorte, ed enumeravano i biglietti di banca; mentre il vino, a cui non erano avvezzi, ferveva loro nel sangue. Così, a poco a poco, i diversi sentimenti si confusero in una gioia comune.

E il marito non potendo terminare il conto, distese le magre braccia a un timido abbraccio.

- Povera la mia donna!

Lei sorrise.

Fu un momento. In quel momento avrebbero dato fors'anche il libretto della cassa e tutte quelle monete per tornare indietro di dieci anni; ma la sposa subito tornò in sè:

- Sono vecchia, Fulgenzio!

Nè lui insistette; ebbe anche lui la coscienza della sua propria insania; e ripresero il conto.

.... La turba frenetica avanzava avanzava. Era una gara a chi strepitasse più forte: un fracasso di secchi battuti a furia; di cassette di latta bastonate senza tregua; di coperchi picchiati l'un contro l'altro come piatti striduli; di campanacci - quelli che s'appendono al collo de' buoi per la fiera - scossi da instancabili mani; e corna di bue roboanti, e voci umane fatte bestiali: grugniti, gallicini, ragli, fischi. Un ex soldato, trombettiere, si sfiatava nel suo strumento; un cacciatore, con meno fatica, sparava a quando a quando colpi di schioppo all'aria, e due cani abbaiando e latrando s'introdussero nella compagnia.

La dimostrazione veniva solenne, memorabile. All'infernale sollazzo dava motivo e impeto l'oscura coscienza rusticana, avversa a che la vecchiaia presuma cosa da giovani, e offesa da una vedovanza interrotta. Nessuno di coloro pensava certo che invece di schernire un connubio ridevole e sozzo, scherniva l'alleanza di due povere anime e di due timorosi egoisti condotti dalla fortuna a reciproco soccorso.

Ma la Faziòla e Fulgenzio ridevano.

- Sono qui! - disse la donna. - Vado a smorzare il lume.

A posta, per far credere che erano a letto e per accrescersi il piacere dell'improvvisata, l'avevano acceso nella camera nuziale.

Quindi, al mancar di quella luce, le oscene grida e le risa superarono tutti i suoni.

- Adesso accendiamo il lanternino.

Così fecero, nascosti sotto la scala; e attesero.

- Bisogna lasciarli un po' sfogare - ammoniva Fulgenzio.

- Sentite la voce di Mauro?

- E quel della tromba chi sarà?

- È Martino dell'Argine.

- Che matti!

- Vogliamo ridere!

Ma in quel punto il cacciatore sparò due colpi.

- Anche delle schioppettate!

E la moglie:

- Non ci faran del male, eh? Quando si è matti!...

- Lasciatemi andare innanzi.

Innanzi lui, con la carriola su cui il bigoncio; dietro, andò la donna col bicchiere e il lanternino.

A quell'apparizione improvvisa, chi tacque un istante, chi sonò o soffiò con più lena; e in massa tutti s'appressarono alla porta.

Miauu...; chicchiricchì...; ohn: ohn: ohn!...; buum buum buum...; taratatà taratatà, taratatà...; cococodè!...; e, prevalenti, strazianti, i cian cian dei metalli e il dan dan dei campanacci.

- Bravi ragazzi! Bravi! Venite a bere!... Ohe!... gente! Chi vuol bere?

- Vino buono, vino buono! - ripeteva la Faziòla. - E di cuore, ragazzi!

Súbito porse il bicchiere pieno a colui che ebbe di fronte. Quegli lasciò cadere la secchia disarmonica per bere d'un fiato, e gridar dopo:

- Viva gli sposi!

- A voi! - disse la sposa riempiendo a sua volta il bicchiere per un altro.

Gli ultimi, di dietro, sospingevano: - Cosa c'è? - Cosa fanno?... Dan da bere! - Un bigoncio! - Ohe! ci siamo anche noi! - Vino!

Di súbito la meraviglia, l'ammirazione e un senso quasi di gratitudine avevan còlti gli animi; di súbito, secondo avviene nella gente rude, i cuori s'erano aperti a un sentimento nuovo, opposto.

Non come altri, nella condizione loro, la Faziòla e Fulgenzio avevano gettato dalla finestra, per vendicarsi, immonde cose o inani minacce; o non avevan taciuto, essi, in una vile rassegnazione; ma passavan da bere, e vino buono! Succedevano alle grida folli e ai motti sconci, voci di gioia e motti che esprimevan benevolenza; e tutti in una volta.

- La fanno da signori, gli sposi!

- Viva gli sposi!

- Ehi! Faziòla! Il primo che nascerà voglio tenervelo io al battesimo!

- Guardatevi dai compari, Fulgenzio!

- Adesso che ha moglie, Fulgenzio diventerà caporale anche lui!

- No, no! la Faziòla non gli farà torto!

- Fulgenzio è geloso!

- Fulgenzio è pacifico!

- Viva gli sposi!

- Viva l'allegria!

Il trombettiere impose silenzio.

- Zitti! state zitti! - e avventava scapaccioni ai ragazzi più ostinati nel frastuono. - Adesso gli sposi ballano la monferina! - La proposta fu accolta da applausi; la monferina fu intonata dalla tromba, cantata e zufolata; mentre altri tentavano di convincere Fulgenzio, il quale si schermiva con ambedue le braccia.

- Ho gambe da ballare io, matti che siete? - Rideva dimenandosi fra le mani e le braccia che l'urtavano, lo spingevano.

- Avanti! Forza! - Forza, Fulgenzio!

- Lasciatemi stare! Lasciatemi andare!

Ma la Faziòla diede al marito la prima prova di abnegazione; una gran prova, anzi, di virtù. Comprendendo che per acquetarli era necessario che lei almeno accondiscendesse, tosto s'adattò al ballo con l'agilità e la disinvoltura de' suoi vent'anni e del ballerino che combinò a saltarle di contro.

Ebbene: la virtù fu premiata; Fulgenzio lasciato tranquillo; e, per emulazione più che per burla, i giovani gettarono i recipienti sonori, i campanacci e i corni; e in mancanza di donne, si misero a ballare tra loro, intanto che Fulgenzio attingeva e offriva il vino attorno con viso lieto.

- Chi ne vuole, ragazzi?... È poco, ma volentieri.... Finchè ce n'è!... Di cuore!

Quando egli ebbe vuotato il bigoncio e il trombettiere perduto il fiato, tutti ripresero gli strumenti del baccano.

Adesso però ciascuno dava dentro nel suo con l'anima d'un inno glorioso.

.... - Felice notte!

- Viva gli sposi!

- Viva l'amore!

- Viva l'allegria!

.... E finalmente gli sposi andarono a letto, felici per il sollievo del peso che aveva preoccupato a lungo il loro animo; per il piacere d'una vittoria guadagnata, in disuguale battaglia, con l'astuzia; per la gioia d'essersi sottratti, anche in avvenire, a beffe o biasimi, meritando invece indulgenza e benevolo ricordo.

E aggiungendosi a ciò un eccitamento intimo, di reciproca gratitudine, e la certezza di giorni meno tristi, forse ebbero allora la persuasione! che avevano saputa togliere agli altri l'illusione, che a torto prima presupposta in essi, aveva indotta la terribile turba a tanto sbattere, gridare e scampanare.

Il polso.

Nel settecento:

per i mariti d'oggidì.

Difficile dire se il conte La Fratta amasse più sè stesso o la marchesa Arnisio; ma poichè per acquistarsi dal mondo e dalla marchesa la lode di cavaliere perfetto e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama così mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sè stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l'Arnisio.

A dire il vero, e a sua scusa, ella esercitava tuttavia su di lui l'attraenza dell'ignoto e del nuovo; la virtù quasi d'un fascino arcano; quantunque, a dire il vero, egli in un anno n'avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che alla dama piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d'ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand'ella aveva l'emicrania - ed era spesso - l'esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d'entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante, e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sì, sempre sì.

Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se ella avesse il cuore o non l'avesse. «L'ha o non l'ha?» egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno più nella ricerca dell'ignoto n'era più avvinto dal fascino; cosicchè ogni giorno più s'innamorava della dama e di sè, che con sua gloria resisteva a servirla.

Finalmente l'Arnisio, agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi, cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate tanto lunghe e sentimentali ch'egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l'aveva! Nè il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, che da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza; non per altri. Ond'ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della graziosa Arnisio. Perchè ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando, o fingendo d'amare, sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò così i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d'apprendervi.

Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall'indole bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei, spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta, dicevan forse che il suo spirito vagava dietro un inafferrabile bene, finchè, con uno sforzo mal nascosto di volontà, non le riuscisse di riaversi o mentire; e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa. Anche, l'assiduo disturbo dell'emicrania, invece che la simulazione d'un malanno alla moda, poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma più tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, potevano non essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitù, ma, tutt'al più, segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l'ho, oh se l'ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene, il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce nel melodramma del Metastasio:

Se più felice oggetto

Occupa il tuo pensiero,

Taci, non dirmi il vero.

Lasciami nell'error!

È pena che avvelena

Un barbaro sospetto;

Ma una certezza è pena

Che opprime affatto un cor;

no: i due amori, l'uno della dama e l'altro di sè, che premevano l'animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l'uno, perchè chi è innamorato talora dubita a torto; l'altro, perchè, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di cavaliere di spirito.

Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d'un patito che con zelante servitù e con dabbenaggine inconscia facesse riparo all'amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava alcuno di quelli che le farfalleggiavano intorno, il quale, come minore del conte, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa. E come ella avrebbe lasciato La Fratta nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l'Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sè; nè mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse d'intorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole; e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo.

Ond'eccolo a richiedere di consiglio l'abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, caro a tutte le dame di cui conosceva le corde più sensibili al tocco delle sue allusioni e de' suoi frizzi, nè men caro agli amici, cui giovava d'esperienza e di senno.

L'abate consigliò: - Tastale il polso.

Come La Fratta non comprendeva, quegli aggiunse:

- Nè i palpiti del cuore nè i battiti del polso si possono frenare. Allorchè ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà più forte, e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà più in fretta e tu potrai sentirlo.

Al conte questa parve un'invenzione mirabile. L'abate continuò:

- Non si falla; ma ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.

- Son cavaliere! - rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.

Essa, all'entrare del conte, era abbandonata sul canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi. Ai passi lievi dell'amico non si mosse; e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra, rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.

- L'emicrania, eh? - domandò La Fratta.

- Sì - rispose ella in tono flebile.

La Fratta sospirò triste pur godendo d'un'emicrania almeno quel giorno opportuna a' suoi fini.

- Chi l'avrebbe detto ierisera? - seguitò egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Prima però chiese: - Desiderate un po' di melissa?

- Sì - ripetè la marchesa, perchè di prammatica quel giorno era il sì; e trasse un breve sorso dalla boccettina che l'amico le accostò alle labbra.

- Che sguardo febbrile! - disse il conte prima ch'ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.

Toc.... toc.... toc...: nelle arterie, che rigavano d'una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all'avambraccio in misura placida ed uguale.

- Chi l'avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perchè lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d'avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che nessuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il paspié. - E ristando, per prudenza: - No - disse - non avete febbre. - Pure, come più d'una volta aveva profittato dell'emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, passata con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte potè nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso batteva sempre uguale e placido.

«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sè stesso. «Quello non può essere: proviamo quest'altro.»

Proseguì nell'esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinchè ebbe percorsa invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s'ingarbugliava in nuove ipotesi; s'imbrogliava in nuovi dubbi. Infine, s'appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:

- Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l'Arboldi; sdilinquiscono tutt'e due, il duchino e vostro marito.

Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse; gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente! Per altro, la marchesa era così strana....

- Io credo - riprese egli - che l'Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. - Non c'era più dubbio! La marchesa amava il duchino; amava - strana donna! - il frutto acerbo!; il polso che aveva confessato era lì pronto a ripetere la confessione. Il duchino! Per prima vendetta il conte volle discorrere e burlarsi di lui affinchè, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell'arteria rifluì placido ed uguale.... E solo allora, trasecolando, La Fratta ebbe un'idea, un lampo, quasi un fulmine: - il marito?... - Parlò del marito.

E nessun dubbio: a parlare del marito e dell'Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava! Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi. Stupito, stordito, non sapeva più che si dicesse. Diceva:

- Dunque, se l'abate Fantelli.... No, non è possibile! - Ed era possibile!... Appena si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserì: - Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, non è vero?

- Sì - rispose la dama; ma poteva essere il sì di prammatica.

- Siete innamorata di.... vostro marito!

La Fratta s'aspettava una risata dinegatrice. Invece la dama, la quale, meravigliata anch'essa, era per gridare - Chi ve l'ha detto? - , la dama ebbe tant'ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentì tant'odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.

- È vero? - incalzava l'altro - : di vostro marito?

- Sì! - E questo non fu il solito sì; fu un sì aspro, secco, trafiggente. L'altro continuò:

- E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitù solo per la moda?

- Sì!

- ....e io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?

- Sì!

La Fratta divenne rosso. Ma era cavaliere, e si contenne.

- Dunque - conchiuse solennemente - non vi annoierò più, signora marchesa! Solo permettetemi l'ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo, non riferite questo nostro colloquio all'abate Fantelli. - E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e loquace. Ma la marchesa ritrasse la destra; ond'egli, senza guardarla, di corsa uscì dalla camera.

La tenda era appena ricaduta dietro di lui quando la dama, alzatasi vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: - Finalmente!

Indi si chiese: «Perchè non dir tutto all'abate Fantelli?»

Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto - fece - ; e che egli rida e il mondo rida! Anzi!»

Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo, ella dava al marito una prova d'amore sublime fino al sacrificio, e, sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe più resistito - n'era certa - alle altre prove e più seducenti prove del suo amore.

Intanto La Fratta, di ritorno dalla dura battaglia, contemplava la gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de' suoi affetti che dolorava ferito: l'affetto di sè; giacchè l'altro pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla dama di tacere, aveva obliato la natura di lei, e che s'ella parlasse - e parlerebbe - il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale, tanto era stramba, nulla poteva sorprendere. Anzi, mentre egli considerava fra sè il capriccio di lei, si stupiva di non essersene accorto prima; e si rassegnava a giudicar quel capriccio meno enorme di quanto l'aveva giudicato prima.

Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile da secoli, con modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n'era accesa a dispetto del mondo e del cavalier servente?

E l'orgoglio del conte dolorava; e l'altro affetto, quello della dama, che ancora non era spento del tutto, sussultava d'un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, sarebbe la derisione della marchesa quand'ella innamorasse e seducesse il marito!

Perciò il battuto, fugato, disperato La Fratta concepì il disegno di salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della marchesa.

Ond'eccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per istrada; e al saluto di lui non fece nè parola nè cenno. L'Arnisio gliene chiese la causa, e della risposta fu così poco contento da ammonire La Fratta che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poichè la taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama del conte segnò di rosso la destra dell'avversario.

Pronto il marchese strinse con la pezzuola di batista il taglio che non era profondo; poi domandò, senz'ira:

- Ora mi direte perchè un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar briga con un cavaliere come sono io.

- Per provarvi - rispose La Fratta alla dimanda che s'aspettava - ; per provarvi che se da oggi in avanti non servirò più vostra moglie e non entrerò mai più nella vostra casa, la colpa è vostra.

Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capì meno di prima. Ribattè:

- Spiegatevi!

E il conte:

- Vostra moglie è sdegnata con me e infastidita della mia servitù perchè io, e non voi, ho scoperto ch'essa è innamorata di voi.

Allora l'Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla rivelazione del polso; fors'anche con uguale timore volse il pensiero al riso del mondo, e chiese, con tono e impeto d'incredulità e di sorpresa:

- In che modo l'avete saputo? Ne siete sicuro?

- Il modo - rispose dignitosamente La Fratta - è un segreto dell'abate Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro, che solo per ciò un cavaliere come sono io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi!

A tali parole il marchese sorrise, e porgendo la mano ferita all'amico:

- Conte La Fratta - esclamò contento - , io vi ringrazio!

Come finì la Modestia.

Bum! bururùm bum bum! - Bururùm bum bum! - Bum! Barnùm! - Cium! papaciùm! cium cium!

. . . . .

La donna umile: - Che cos'è questo fragore? questo squillar di trombe, strepitar di piatti e tuonar di gran cassa? Chi arriva?... Oh! una carrozza a quattro cavalli: anzi, un carro trionfale; su cui troneggia la più bella donna che io vedessi mai! Ha gli abiti mirabilmente variopinti e fulgidi di gemme; e sotto di lei siedono gentiluomini in tuba e cravatta bianca. Qualcuno invece della tuba porta una corona d'alloro; qualcuno agita un ramo di mirto; qualche altro ha il viso da bestia, fors'è una bestia.... Io arrossisco a lasciarmi vedere. Mi nasconderò dietro la siepe.

La donna sovrana: - Voi dite, postiglioni, che bisogna dar riposo ai cavalli? A cavalli di razza quali i miei? Vi concedo mezzoretta. Ma giuro che nemmeno per svago non viaggerò mai più per le campagne d'Italia! Io son usa al treno lampo, alle automobili, agli aeroplani; non ho tempo da perdere! Oggi, per vendere a pena un centinaio di aratri a vapore, affollare d'infermi tre stabilimenti idroterapici, aprire due esposizioni agricole, me la son presa comoda; ma ho consumato un giorno e sciupati quattro puledri che vinsero le corse a Longchamp, e che serbavo da galoppare piano piano in Inghilterra, quando per caso mi ci trovassi in domenica. Però io ringrazio voi, miei seguaci, d'avermi tenuta compagnia nel noiosissimo viaggio e vi porgo un marengo perchè andiate all'osteria laggiù, a bere un litro alla mia salute. Un marengo anche a voi, postiglioni e musici. Spicciatevi! Quanto a voi, poeti, se v'aggrada, andrete qui intorno cercando il Gran Pan.

Frattanto, in questa valletta ombrosa e fresca, io penserò un milione di telegrammi da spedire domattina ai miei segretari sparsi nel mondo per il progresso delle industrie, delle arti e dei commerci e mediterò un nuovo modo d'annunziare il Tot e le Pink.

.... Che frescura! Che quiete!

Avvezza al fracasso e alle corse sfrenate, quasi quasi mi vien sonno....

La donna umile: - Ahi!

La donna sovrana: - Chi va là, dietro la siepe?

La donna umile: - Scusi, signora, se l'ho disturbata.... Uno spino mi ha punto un piede....

La donna sovrana: - Perchè cammini scalza? Vieni qui. Chi sei?

La donna umile: - Un'infelice; una povera creatura.

La donna sovrana: - Vedo. Le tue vesti non le comprasti certo nei magazzini del Louvre; e la tua faccia par quella del mio amico Succi. Che naso! Oh che naso!

La donna umile: - Me l'han tirato in tanti, signora; ho provate tante delusioni; ho patiti tanti disinganni!

La donna sovrana: - Accostati; senza ritirarti in te stessa, vergognosa! Come ti chiami?

La donna umile: - Modestia.

La donna sovrana: - Modestia? La nipote di madama Virtù, che presa per un'aristocratica fu fatta ghigliottinare da Robespierre? La figlia della Semplicità e del Buoncostume? la sorella dell'Onestà?

Modestia: - Sì, signora....

La donna sovrana: - Bel caso! bell'incontro! Da un pezzo non ho riso così di gusto!

Modestia: - Scusi, signora: la conosce lei mia sorella Onestà? Per amor di Dio, mi dica se la conosce e se sa dov'è!... Non mi restava più altri della mia famiglia. I miei parenti mi hanno abbandonata!...

La donna sovrana: - Eh! Poco posso dirti. Molti e molti anni sono essa mi chiese aiuto; ma era povera e non potemmo conchiudere nessun affare; e d'allora in poi m'è uscita di vista.

Modestia: - Sapesse quant'è che la cerco! Un giorno, in una grande città, ci perdemmo in mezzo alla folla....

La donna sovrana: - Non piangere. La troverai.

Modestia: - Dove? dove?

La donna sovrana: - In un paese dove non si distribuiscano commende.

Modestia: - Oh Dio!... Dunque mia sorella è morta anche lei!

La donna sovrana: - Non piangere, ti dico! Io non piango nemmeno ai drammi di Ibsen. Raccontami piuttosto la tua storia.

Modestia: - Uh! la mia storia!... Disperata, mi ero ridotta a vivere qui nei dintorni, e ci campavo, perchè nessuno s'accorgeva che ci fossi; quando la mia disgrazia volle, l'altro giorno, che diventasse sindaco il salumaio del villaggio. Costui m'ha deferita all'autorità giudiziaria quale vagabonda, priva di mezzi di sussistenza e forse anarchica; e i carabinieri hanno già avuto l'ordine di arrestarmi se entro otto giorni non mi trovo occupazione e domicilio.

La donna sovrana: - Bene! Imparerai a stare al mondo!

Modestia: - Per grazia di San Francesco mio protettore, ier sera tardi, passando sotto le finestre d'una villa, udii leggere un giornale: uno leggeva che lo scrittore francese Giulio Claretie invidia i letterati e gli artisti italiani; perchè, egli dice, in Italia chi ha dei meriti si fa strada da sè solo, e chi non ne ha, non riesce, come in Francia, a spingersi innanzi con l'impudenza della Réclame....

La donna sovrana: - Bada a come parli!

Modestia: - Scusi.... Ripetevo le parole del Claretie.

La donna sovrana: - Tira avanti!

Modestia: - .... Non sapendo più dove andare, se anche in campagna adesso mi odiano, avrei pensato di mettermi per cameriera presso qualche scrittore o artista d'Italia....

La donna sovrana: - Bella idea! Ti credevo ingenua; ma non sino a questo punto. Ah ah!... E non mi conosci?

Modestia: - Non ho questo onore.

La donna sovrana: - Io discendo da quell'imperatrice che un amico della tua famiglia, Giuseppe Parini, osò chiamare «venerabile» per sarcasmo. In America ebbi a padre putativo un certo Barnum; ma, oriunda di Francia, io, come un romanzo di Bourget, sono cosmopolita; tanto che Policarpo Petrocchi m'introdusse senza scrupolo nel suo vocabolario. Mio dominio, il mondo; tutti gli uomini si raccomandano a me, s'arrendono alle mie lusinghe benedicendomi. Io sono la Réclame! La Réclame sono io!

Modestia: - Oh San Francesco!

Réclame: - Tu non mi fuggirai....

Modestia: - Mi lasci andare! Per carità, mi lasci andare!

Réclame: - Non mi fuggirai.... Non hai forza, povera diavola! Guarda: invece che odiarti mi fai compassione!

Modestia: - Dunque mi lasci.... La prego! La scongiuro!... Che cosa vuole da me, Maestà?...

Réclame: - Aiutarti, distoglierti dal tuo insano proposito. Hai visto coloro che viaggiano meco?

Modestia: - Maestà, sì.

Réclame: - Bene: tra i miei musici cantano critici e giornalisti; i miei fedeli, che hai veduti, sono letterati e artisti che all'annuncio del mio arrivo son corsi a me dai loro eremi, ove attendevano a opere luminose in una superba meditazione di conquista.

Modestia: - E se tornano qua ora? se mi vedono?... Mi lasci andare!...

Réclame: - No: non ti ravviseranno. Del resto, io li conosco per bravi ragazzi che non farebbero male a una mosca, sebbene talvolta nei loro grandi disdegni invochino il dio Terremoto. In altri tempi avrebbero forse conquistato un arcipelago: adesso, non sono che scrittori, i quali, come uomini d'intelligenza, vanno verso la Vita.

Modestia: - Ah sì?... A far che cosa?

Réclame: - Tante belle cose; fra cui l'atto di Vita coronante il rito misterioso come l'Orgia.... Non arrossire.... Via! Dammi quel libro ch'è là, nella mia carrozza, fra gli annunzi dell'Emulsione Scott, dell'Iperbiotina e del Depilatorio Clauser; e saprai altre cose di gioia. Quello!... Brava!...

Ora ascolta come parla uno il cui pensiero è bruciato dall'ambizione.

«L'orgoglio e l'ebrezza del suo duro e pertinace lavoro; la sua ambizione senza freno e senza limiti constretta in un campo troppo angusto, la sua insofferenza acerrima della vita mediocre, la sua pretesa ai privilegi dei principi, il gusto dissimulato dell'azione onde era spinto verso la folla come verso la preda preferibile, il sogno d'un'arte più grande e più imperiosa che fosse a un tempo segnale di luce e strumento di soggezione, tutti i suoi sogni insaziabili di predominio, di gloria e di piacere insorsero e tumultuarono in confuso abbagliandolo....»

Modestia: - Cieco! Quanto doveva essere infelice, questo peccatore!

Réclame: - Al contrario, felicissimo: perchè la felicità è tal cosa che l'uomo deve foggiare con le sue proprie mani su la sua incudine; ed egli, il peccatore, in certi momenti, vedeva bene che il mondo era suo!

Modestia: - Con tutto il rispetto, io non lo credo! In letteratura i fabbri potranno bearsi a batter le frasi perchè diano faville; ma nella realtà le faville, se non acciecano, vanno a finire in niente, proprio come questi sogni letterari!

Réclame: - E che importa se ti paion sogni? Purchè tu ne sia esclusa.

Modestia: - Ma anche lei, signora...; mi permetta dirle che anche lei ne è esclusa. Non è mica la Gloria lei!

Réclame: - La Gloria è un'illusione, di cui io sono la realtà! Vedi? Tu stessa non ragioni più, perchè madama Ragione, tua bisavola, è morta, non solo in arte, da un pezzo!

Modestia: - Però io spero che non tutti i letterati d'Italia vagheggeranno conquiste d'arcipelaghi o invocheranno il dio Terremoto.

Réclame: - Se non tutti, molti! molti! Perchè al Verbo dei maestri, i discepoli divengono armento. E se è vero che i discepoli sempre esagerano i meriti dei maestri, non sola tu, ma anche tutti i tuoi parenti prossimi e lontani sono spacciati! La Morale e l'Onore si suicideranno a vicenda, come due amanti infelici; le Virtù Teologali e Cardinali emigreranno nel centro dell'Affrica, dove non siano ancor giunti superuomini. Tu dove andrai?... Quo vadis?

Modestia: - .... Quanto soffrire, o mio Dio, che insegnasti «Chi si esalta sarà umiliato»! Dove andrò?... Non troverò nemmeno un letterato vecchio o non più giovane che mi protegga?

Réclame: - Non dubitare, cara mia, che pur cotesti vecchietti amano me con animo pronto, sebbene con carne stanca! Quanti ne conosco che seguono l'esempio di Vittore Hugo!

Modestia: - Cioè?

Réclame: - Il buon Vittore diffondeva lui le lodi di sè per i giornali della Francia.

Modestia: - Ah! lo so, lo so! Tutti i mali vengono dalla Francia.

Réclame: - Non credo. Già secondo quel tuo miserello Leopardi ogni uomo celebre sempre diventò celebre dando fiato per primo alla sua tromba.

Modestia: - Oh il mio Giacomo!... Poverello! Ma io lo consolavo augurandogli la giustizia del Tempo....

Réclame: - Invano! Ai miei cenni egli dubitava che pur questa fosse un'illusione; egli prevedeva il giorno in cui io avrei proclamato all'universo l'ultimo e supremo trionfo della scienza e la mia gran vittoria su tutti i letterati della terra.

Infatti la gloria del Leopardi s'è già estinta nella fredda considerazione scientifica de' vizi e de' malanni che alla sua poesia furono come l'humus ai funghi; e il giorno della mia vendetta e della mia vittoria universale è venuto.

Sin la Fortuna, un dì superba al par di Giuno, mi chiede vita, e tutti gli dei d'Olimpo rivivono per me, e la Natura che io denudai alla libidine del Naturalismo, che ho velata di nebbia alle lussurie dell'Idealismo, mi chiama: le ho concesso oggi, per questi campi, quest'ora del mio desto riposo.

Odi tu la sua voce che mi saluta?

Modestia: - Non sento niente.

Réclame: - Tu non puoi sentirla. I tuoi sensi non sono usi a incontrare il mistero e a rabbrividirne. Il fatto è che la Natura, essendo poesia, ha bisogno del mio soccorso, perchè ha bisogno dei poeti suoi interpreti, che sono miei schiavi.

Modestia: - E i prosatori?

Réclame: - La poesia si fa anche in prosa, scioccherella!, quando la prosa si mette in versi e nelle porcherie i sensi diventano strumenti d'infinita virtù..., atti a penetrare i misteri più reconditi, a scoprire i segreti più reconditi. Ma tu non puoi comprendere.... Piuttosto, dimmi: Perchè gli scrittori scrivono?

Modestia: - Per conforto all'amore e alla sventura.

Réclame: - Rispondi bene, o torno a leggere!... «Colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha goduto....»

Modestia: - Basta, basta.... Dirò che scrivono per guadagnare.

Réclame: - In Italia? Nemmeno gli agenti delle tasse dan valore ai libri!

Modestia: - Non so, allora....

Réclame: - Non mentire!

Modestia: - Dirò che scrivono per la gloria....

Réclame: - Bene!... Ma oggi chi crede più che l'anima sopravviva al corpo? Dunque gli scrittori, nel dubbio di non poter visitare le biblioteche in ispirito, fra secoli, a conoscere quali opere vi si leggeranno, fan bene a rincorrere la gloria, per ogni via, finchè sono in vita. Aggiungi che oggi la chimica insegna come l'inchiostro e la carta dei libri moderni, a differenza dei cinquecentisti e delle pergamene, sono facile preda di microbi, e fra tre o quattro secoli non saranno intelligibili che i libri in carta a mano: proprio quelli degli scrittori ricchi, dilettanti. Dunque il tempo commetterà enormi ingiustizie senza saperlo, alla maniera dei giurati; e così ai romanzieri e ai poeti val meglio provvedere alla loro fama presente, finchè sono in vita.

Modestia: - Che disperazione! Non capisco più nulla.... Ma San Francesco.... Oh! Ora che mi ricordo.... I letterati non sono i soli artisti italiani invidiati da Giulio Claretie. Mi restano i pittori!

Réclame: - Perchè no? Tu andrai al loro cospetto nel costume di quelle donne che stanno in chiesa, presso una bara, nell'Ultimo Convegno; e ti farai credere, con cotesto naso, una modella. Poh! con qualche moina riuscirai forse a ingannarne qualcuno. Tuttavia, credimi, ti troverai a disagio; perchè, dopo l'invenzione del prerafaelismo le modelle digiunano. Io poi ho elevato le imagini prerafaelite agli annunzi d'ogni cosa; a tutti i muri e a tutte le cantonate; sicchè i pittori riconoscono anch'essi da me la loro insolita fortuna.

Modestia: - Gli scultori, dunque...?

Réclame: - Gli scultori ti odiano. È per colpa tua che essi han da fare pochi monumenti!

Modestia: - I musici.... Andrò da un musico....

Réclame: - Perchè egli dedichi a te, invece che a sè stesso, le sue opere? Spera, spera! Per amor mio, fino i sacerdoti di quel Dio che insegnò: «Chi si umilia sarà esaltato», oggi hanno un conforto alle passioni antiche della politica e della corruttela: nei loro giornali possono leggere fra i telegrammi della cronaca artistica «.... Al duetto di Gesù con la Maddalena, tutto il tempio scoppiò in frenetici applausi....»

Modestia: - È finita!... Dove andrò, o Signore?...

Réclame: - Quo vadis? ... Ahi!... Non ti resta che venire al mio servizio. Metterò qualche volta i tuoi abiti a mia cugina l'Ipocrisia, e metterò a te gli abiti e la maschera di lei....

Modestia: - Piuttosto morire!

Réclame: - Via! via! Aspetta almeno a quando avrai marito, per fare come Lucrezia romana, che dopo l'ultimo piacere si tramandò, o per te, o per l'Onore o per me o per tutti noi insieme, all'immortalità.

Modestia: - No! subito, o morire o fuggire dal consorzio civile! Andrò al polo nord!...

Réclame: - Come il dottor Cok! E tu cammini a piedi, a piedi scalzi e senza un soldo in tasca; così quando arrivassi alla terra degli Esquimesi troveresti ch'essi avrebbero già attaccati ai loro blocchi di ghiaccio, duri più del marmo, gli avvisi di casa Bertelli e di casa Suchard; e quando arrivassi nel cuore dell'Affrica, troveresti i cannibali già intenti a leggere i romanzi italiani tradotti in francese.

Ma ecco i miei fedeli. - To'! Me l'aspettavo! Sono tutti ubbriachi fradici. Anche i poeti, che, poverini, han preferito Lieo al Grande Pan....

Postiglioni, mi raccomando a voi . . . .

. . . . . . .

Addio, Modestia, fatti coraggio!

. . . . . . .

Un urlo straziante, una scossa della vettura.... Che cosa è stato? Ah niente! S'è gettata la Modestia fra le zampe dei miei puledri, sotto le ruote del mio cocchio. Una maniera di suicidio che Maupassant trovò per uno de' suoi personaggi: un plagio; e neanche i plagi commuovono più le fantasie! Poi, bel gusto ammazzarsi in una campagna solitaria ove non c'è nessuno a provar raccapriccio! Inutile a sè stessa in vita, neppure morendo la Modestia ha saputo provvedere alla propria fama. Doveva finire così!

L'entusiasta punito.

Per l'abuso che ne fecero i poeti, chi ammira più i palpiti e i raggi delle stelle? Ma l'anima di Carlo Dònnola ancora aveva rapimenti a un fulgido cielo. Nemmeno gl'innamorati oggidì s'intendono nella bramosia dell'argento lunare e preferiscono la povertà delle tenebre; ma Carlo Dònnola beveva il latte della luna con tal gioia che le pupille gli s'inumidivano come a uno spirituale liquore s'inumidiscono le pupille d'un ebro. E se in noi fu esausta dall'artificio l'ammirazione per i fiori, tanto che d'una rosa fresca diciamo «sembra di seta o di cera», a Dònnola una viva rosa carnicina sembrava tuttavia di «carne»; e contemplata e annusata a lungo una bella rosa pallida, egli elevava il naso elevando gli occhi, come a una visione, e «Dolce signora - esclamava mestamente - io v'amo!»

Con ciò non si afferma che Carlo fosse ancora vergine alle impressioni della natura; bensì che era in lui una nativa, particolare attitudine a sorprendere il bello in tutte le cose, in tutta la vita; ad avvertire quel che gli altri spesso, mortificati dal brutto, non avvertono e che egli con sincero entusiasmo e con un sibilo iniziale rivelava per mezzo degli aggettivi, spiccioli o a coppie, «stupendo! sovrano! - superbo! squisito! - supremo! sovrumano! - straordinario! sublime!»

Neanche perciò si afferma ch'egli fosse un poeta; giacchè si sa, e Teofilo Gautier lo dice, che i poeti vedono il bello dove non è: «Les poètes prennent habituellement d'assez sales guenipes pour maîtresses»: Carlo Dònnola invece vedeva il bello dov'era. Così mentre altri alle esposizioni artistiche fuggiva dalle sale di scultura, egli s'arrestava d'improvviso dinanzi a qualche grazioso ninnolo statuario, il quale all'occhio comune era impercettibile fra tanti orrori; o ristando dinanzi a ciò per cui inorridivano gli altri, egli solo, súbito, indicava o la minima parte o la linea lodevole.

Quante volte nelle tele sciagurate di colore e di disegno non vantava giustamente l'intenzione del pittore? E, non a torto, quando in cospetto a un nuovo edificio tutti biasimavano l'architettura moderna, egli notava: - Che bel camino! - Beato lui! A una sinfonia d'imitazione wagneriana cadeva ogni possa anche nel più classicista ascoltatore e critico; ma Dònnola riteneva, per zufolarle dopo, quelle poche note che erano state come una fugace spera di sole tra una nebbia folta o in una roboante tempesta.

Beato lui! Nei versi e nelle prose di qualche magnifico scrittore moderno molti si smarrivano a cercare pensiero e sentimento; ma egli, pronto, afferrava aggettivi e li ripeteva all'altrui meraviglia.

- Sì; bell'aggettivo - confessavano. - E l'idea?

E lui:

- Il verso è per l'aggettivo, e non per l'idea. Simbolismo!

Carlo Dònnola era dunque un uomo d'ingegno, sebbene in fama di stupido. L'uomo d'ingegno, veramente, è infelice, perchè non meno ammira il bello di quel che s'offenda del brutto; invece Carlo viveva felice pascendosi soltanto di bellezza. Quando però venne il dì che lo vidi soffrire, allora io non dubitai più oltre che la sua fama di stupido era ingiusta.

Si erra pure a dir volubile quell'ammiratore della bellezza femminile che vedendo oggi una più bella donna, non dispregia per essa la donna lodata o amata ieri. Carlo non procedeva nemmeno a confronti: progrediva nell'entusiasmo, perchè la sua fortuna ogni giorno gli recava innanzi creature in tutto o in parte più mirabili. Gli amici se ne affliggevano, invidiosi. - Excelsior! - dicevano ironicamente. - Ma trovata che abbia l'eccelsa, la perfetta, lo vedremo precipitare! -

Nossignori. Carlo Dònnola vide l'eccelsa: Teresa Gurli; la sposò e continuò a salire. Infatti la conoscenza della perfezione non si acquista che a gradi; esercizio e pratica bisognano alle indagini e alla percezione del bello. D'altra parte, il bello e il bene, secondo i filosofi, sono una cosa stessa, e chi ama l'uno ama l'altro; quindi nelle donne ammirate, desiderate e amate Carlo non aveva mai conosciuto se non i saggi che delle loro grazie la legge morale (cioè il bene entro certi limiti) concede alle donne di porgere al mondo, a tutti: il resto è o dovrebbe essere per il solo eletto, per il marito. E divenuto per la prima volta marito, Carlo ebbe imprevedute rivelazioni, innumerevoli meraviglie, estetiche scoperte, portentose gioie, straordinarie squisite stupende supreme sublimi esclamazioni.

Io strinsi amicizia con lui appunto in quei giorni che il matrimonio lo traeva all'estasi. Oramai, come insufficienti, dimenticava gli aggettivi dall'iniziale sibilante; e non ripeteva più, come esigua, l'esclamazione «divina» riserbata fino allora per lode sintetica a qualche esemplare del «femminino eterno»; bensì elevava al cielo, senza dir nulla, gli occhi sprizzanti una letizia sovrumana. Tale, quale un uomo antico a cui una dea apparisse senza spaventarlo. Tale, rovesciava in me le confidenze che gli alleviavano la felicità soverchia.

- Teresa - mi disse una volta - è sterile. Pensa: nessuna deformazione, nessun danno per la sua bellezza!

- La corporale bellezza di Teresa - un'altra volta mi accertava - è nulla a paragone dell'anima sua. Se tu sentissi l'anima sua!

E io, da amico sincero, da amico che eccitava l'imaginativa a comprendere così prezioso tesoro, per poco non gli dicevo:

- Deh! fammela sentire!

Or bene, quest'uomo nato a bearsi della vita e degno, degnissimo della felicità; quest'uomo....

Conviene ripeterlo: Carlo amava anche la virtù: che è la bellezza dell'animo non caduca, non fragile alle offese dei malanni, non deperibile alla diuturna ingiuria del tempo; che è il balsamo conservatore dell'amore coniugale, la maglia di salute per le anime sensibili a quelle intemperie le quali conturbano lo spirito moderno, e penetrano e soffiano tra le domestiche pareti, e raffreddano il sentimento in guisa che la ragione scusi poi l'«incompatibilità di carattere», la «separazione», il divorzio, il vizio, l'a....dulterio! Ah quando le malattie non isciupassero troppo presto in Teresa il formoso corpo per cui Dònnola era assorto a gustarne l'anima, a poco a poco, senz'accorgersene, egli assisterebbe all'opera distruggitrice, lenta e assidua, degli anni: scolorate, anzi, le belle forme; pacati i sensi; sfiorita la giovinezza, più libera risplenderebbe l'intima virtù che agli occhi almeno del suo Carlo renderebbe Teresa giovanilmente amabile sino alla vecchiaia.

Ebbene, quest'uomo io lo rividi non un anno dopo il matrimonio e non lo riconobbi subito.

- Che hai? Cos'hai fatto, Carlo?

Portava abiti alla moda, ma con l'abbandono di un lion che ritorni verde da una bisca; avrei potuto scommettere che quel giorno non s'era mutato, lui!, di camicia; e i baffi, erti una volta ad arco, gli spiovevano simili ai baffi di un cinese.

Rispose:

- Mah!... - E alzò il capo in una vana scossa dal peso enorme che l'abbatteva.

- Tua moglie.... è ammalata?

- No no. - Disse «no no» a mezza voce, triste, negando insieme e non negando. Sembrava più confermare che negare.

- Forse - io insistetti per pietà, mentre già sorridevo per conforto - forse è incinta?

- No no. - Negava e non negava. E m'attristai anch'io credendo d'indovinare, finalmente.

- Un.... aborto?

- No no - ; come dianzi.

Allora con rapida memoria io, che avevo il dovere di confortarlo, riandai quanti malanni possono colpire una donna; con rapido esame li paragonavo a quella disperazione abbandonata e quasi muta; nè a tanta afflizione trovai convenir altra sventura che una che non era da esprimere se non con una perifrasi misericorde.

- Scusami, Carlo, se insisto...; ma a un amico come me.... Di' dunque: l'isterismo.... fa certi scherzi..., passeggeri però; di cui si guarisce....

No, Teresa non era impazzita. Eppure, egli non negava del tutto neppur questo!

- Ti dirò poi - Dònnola m'interruppe, stendendomi la mano.

Oh!...

Oh Dio! Senza chiedergli più nulla gli strinsi la mano, gli dissi: - Coraggio - ; gli dissi con uno sguardo che avevo compreso tutto!... Sua moglie lo tradiva.

Lo tradiva! Ma quantunque io leggessi molti romanzi francesi e italo-francesi, quantunque frequentassi il teatro drammatico, non sapevo persuadermi che quella donna avesse tradito l'amico mio prima d'un anno dalle nozze. A poco a poco, dubitai d'aver errato nella mia interpretazione e ricordai che nel lasciarmi Carlo mi aveva quasi detto con gli occhi: «Tradimento, sì; ma che tradimento intendi?»

Forse era un'infedeltà di nuovo genere. Poi riflettei su quel suo negare e non negare a ogni mia precedente dimanda....

Forse Teresa?... E mi convincevo così, adagio adagio, d'una colpa e d'una sciagura mostruosa a cui fossero parti integrali il morbo, la figliazione, l'aborto, la demenza, il tradimento, la turpitudine; sebbene non potessi chiaramente definire qual cosa mai l'indegna moglie avesse fatta. Quando....

....Ah sì, povero Carlo!... Non m'ingannavo più! Che colpa! che sciagura! che orrore! quando ricevetti:

Petali e corolle

versi

di

Teresa Gurli Dònnola.

L'agnello.

Bèee....

Niveo bioccolo, con le quattro zampe legate in mazzetto; raccolto, dentro il canestro, nel giaciglio di erba ancor fresca, a quando a quando l'agnellino alzava il capo, che subito gli ricadeva come in un abbandono o in un esaurimento di disperazione. Allora sui miti occhi cristiani cadevano le palpebre; indi, ecco: languido languido lo sguardo sembrava cercar di nuovo la landa troppo presto perduta e di nuovo spegnersi a quel fervore di luce, mentre dalla gola riarsa e dal petto ansioso tornava l'invocazione della perduta madre:

Bèee....

Prorompeva il frastuono della musica; rombava, negli intervalli, il susurrio delle voci e lo scalpiccio della folla; e, per tutto, saluti, richiami, risa, sorrisi. Allegria.

Sempre triste, il professore Riccardo Biscaglia entrò nella sala. E allorchè, nell'avvicinarsi là dove suscitavano ammirazione i doni in mostra per la lotteria, udì pervenire dal cesto la voce di duolo, egli tese il capo.

Oh come soavi quei due occhi cilestri che sembravano cercare due occhi fraterni!

Infatti: una fanciulla si avvicinò. Oh come sembrò palpitante il petto chiuso nella veste bianca allorchè la signorina ebbe scorta la bestiola che soffriva! Non era un inganno di civetteria; non un pretesto a farsi notare; spontaneamente, inconsciamente quasi, ella alzava una mano quasi a indicare ed accusare la tortura delle quattro zampe strette nel vincolo di seta, mentre al doloroso bèee rispondeva, vòlta alla madre: - Poverino!

E poverino anche lui, il professor Biscaglia; il quale era un uomo molto triste; sempre triste; prima di tutto perchè essendosi arrotondata ogni anno più la sua pancia, l'annoso abito delle occasioni solenni era andato restringendosi così che il gilet gli comprimeva lo stomaco e i calzoni stentavano ad acquistare in larghezza quel dito di misura che perdevano in lunghezza; e i piedi, non coperti sino al collo e al calcagno, apparivano più grandi di quanto erano. Erano così grandi!

Ma, oltre questi particolari disturbi, rattristava Riccardo Biscaglia il dolore universale, e l'aveva recato seco pur alla festa di beneficenza. E a tanto pessimismo il professore non aveva motivi dallo Schopenhauer o dal Leopardi: non dagli studi; bensì dall'antico contrasto dell'istinto poetico con la realtà della vita. Se il Governo rinsavisse e comprendesse che, dopo o avanti la cultura della terra, ciò che più importa è la cultura delle menti e degli animi, i professori sarebbero pagati meglio: pagati meglio, si distrarrebbero anch'essi in modi leciti e onesti e si avrebbero quindi meno poeti di dolore e meno scapoli. Senza dubbio un aumento di stipendio avrebbe attenuata in Biscaglia l'antitesi tra il Sancio Panza e il Don Chisciotte che discordavano entro di lui, quando il primo gli diceva: - Non prendere moglie, per carità! Tu sei troppo povero per una ricca e troppo più povero per una povera - ; e il secondo l'incitava: - Cerca e trova la tua Dulcinea ideale: colei che, nè ricca nè povera, e bella, sana, buona, ti faccia parere men brutta l'esistenza!

Ahimè! Chi può andare in cerca della felicità senza quattrini in tasca? Ma sconsolato Tartarin, perchè le sue cacce si limitavano a sorprendere e colpir spropositi nei cómpiti dei discepoli, nè più gloriosa conquista poteva vantare in un mese che quella delle cento e tante lire puntualmente riscosse al ventisette, Biscaglia se la prendeva, più che col Governo, con la mala educazione che corrompe le ragazze. - È l'educazione del cuore che manca! - diceva lui. - Se l'adulterio apparisse non una desiderabile offesa alle leggi, ma una cattiva azione, una crudeltà, egli, per star meglio, avrebbe compiuto fino il sacrificio di sposare una ricca, e non si sarebbe adirato nemmeno col Governo, nè rattristato alla fatalità del dolore umano. Questo, è vero, l'induceva a frequenti sfoghi di versi. Ma a che pro'? Gli editori non credono più nei poeti, e le ragazze, corrotte e senza cuore, alla malinconia preferiscono stare allegre.

Quella sera dunque Biscaglia era entrato alla festa, solo, con un solo biglietto per la lotteria, non aspettandosi uno spettacolo che lo commovesse così dolcemente: la creatura nel cesto e la creatura che stava a guardarla. Nessuna, nessun'altra di tante signore e signorine che vi erano, si era fermata compassionando dinanzi all'agnello. Tutte agognavano i premi di gran prezzo; tutte, tranne quella madre e quella figlia, civettavano intorno, stupide di mente e di cuore.

- Poverino! Vedi, mamma, com'è carino, com'è bellino? - E poichè anche la madre disse: - Povera bestiola! - , fu manifesta una affinità di sentire tra l'animo materno e il figliale e fu certo per Biscaglia che chi meritasse la pietà della madre meriterebbe anche la pietà della figlia o viceversa.

.... - Estrazione - gridarono a un tratto. - Estrazione!

Seguì maggior ressa di gente. Più pronte, le signore s'affollavano intorno al palco donde era venuto stentoreo l'annuncio e dove un signore in frac scampanellava per avviso ai più lontani.

- Estrazione!

Già si cominciava.

- Numero!...

- Attenti!...

- Cinquantotto!

Biscaglia chinò lo sguardo sul suo biglietto, senza meravigliarsi di non aver lui il 58 e di udire un altro gridare: - L'ho io! - Era stato vinto un magnifico vaso d'argento.

- Numero...!: quattordici!

Sì! Biscaglia aveva il quattrocentododici! E intanto il nuovo vincitore si portava via un'altra bella cosa.

- Numero...!: due!

Il professore scosse le spalle; mise il biglietto in tasca e si mosse. Già era disgraziato in tutto! Del resto, quand'anche vincesse, bella consolazione! Non un premio di lotteria l'avrebbe mutato d'infelice in felice, nè avrebbe diminuito a' suoi occhi il dolore universale.

- Numero...!: ventisei!

Piuttosto invidiava un suo collega, il quale ora ciarlava appunto con quella mamma e quella bionda figliola così pietose. Gli sarebbe piaciuto di tentare un po' l'anima della ragazza in qualche poetico discorso e avrebbe voluto esserle presentato dal collega; ma, disgraziato sempre, non osava nemmeno accostarsi al gruppo.

- Numero...!: quattrocentododici!

Eh? Che? Quattrocento...? Non era il suo? Sì sì: l'aveva lui, il professore Riccardo Biscaglia, il 412!

- L'ho io! - E lo mostrava. - Io!

- Bravo! - gridò dal gruppo il collega.

Biscaglia avanzò, rosso in viso, coraggiosamente. Ma diè indietro alla vista del premio.

L'agnello!

- Un agnello! - esclamarono i prossimi al banco. - Un agnello! - l'agnello! - Si rideva; si applaudiva.

E Biscaglia salì e quindi discese dal palco;, pallido come chi ascende al patibolo senza speranza di discendere.

- Bravo! - ripetè più forte e contento il collega, a vederlo col cesto nelle mani.

Fu quel «bravo», venutogli da un uomo di spirito, che assumendo quasi il valore di una lode meritata per un'ardua prova rianimò il professore. E di animo ne aveva bisogno: ella era lì dinanzi e sorrideva un po' triste; diceva con gli occhi: «Perchè l'ha vinto lei e non io?»; e: «Lei gli vorrà molto bene, è vero?»; mentre la mano senza guanto, bella, ripassava sul capo dell'agnellino; e gli occhi e la bocca del professore, che pareva una balia col fantolino in braccio, non dicevan nulla.

- Sei stato fortunato, tu! - fece il collega; aggiungendo la presentazione:

- Il professore Biscaglia...; le signore Crocchi.

- La sorte le ha favorito l'innocenza, il candore - disse la mamma.

- Quanto l'invidio! quanto è bellina questa bestiola! - disse la figlia.

Bèee....

Allora cesto e agnello per poco non caddero di mano a Biscaglia, tale fu l'urto che l'amico gli diede col gomito per suggerirgli l'idea che, del resto, era venuta anche a lui.

- Cosa vuoi fartene tu? - chiese l'altro.

Onde Biscaglia parlò, rosso rosso:

- Se la signorina mi permettesse.... Ella potrebbe averne maggior cura di me.... Io non ho moglie....

- Ma sicuro! E non ha nè erba nè ovile - disse l'altro.

All'offerta, la figlia guardò la mamma; la mamma annui; ringraziarono; e il candore e l'innocenza, avvolti di nuove carezze, passarono dal professor Riccardo Biscaglia al soave dominio della signorina Irma Crocchi.

Più e meglio che alla follia, Riccardo Biscaglia s'innamorò assennatamente; perchè era un amore nato da un affetto non cieco: dall'ammirazione della bontà; perchè più che la bellezza aveva potuto sul suo cuore quella prima vista della signorina Irma nell'attitudine compassionevole. La bellezza è caduca; non la bontà, se spontanea; non la gentilezza, se sincera e nativa. Essere amato da tale donna forse non sarebbe stato consolazione ad ogni travaglio, ad ogni dolore, ad ogni fatica, a tutti i danni della vita? A tutti, forse no; per la fatalità del dolore umano; ma a molti sì. E ahi! Riccardo Biscaglia, per quell'eterno conflitto che alimentava in sè stesso, vivrebbe e morirebbe scapolo. Infatti quell'angelo che era la signorina Irma non poteva essere che troppo povera. Ma egli l'amava. Ma egli aveva l'obbligo di una visita alle signore che avevano accolto il suo dono.

Deliberò di adempiere a questo dovere, e solo per accertarsi e mantenere con maggior forza il cervello a posto, chiese a quel tale collega: - Le Crocchi non han mezzi, eh?

- Han qualche cosa.

Oh! Nè povera nè ricca! Era l'ideale nella realtà!

Ma ci fu dunque il sole

Su questa terra un dì?

Fu il raggio che infrange il nuvolo; fu il faro nelle tenebre tempestose. Diveniva possibile la conciliazione dell'idea col sentimento; dell'amore col senno, della poesia con la prosa! Irma possedeva un cuore - tanto cuore! - e possedeva qualche cosa più di quanto costi una capanna a comperarla in due, o a prenderla in affitto in due! Egli dunque poteva domandar la mano della signorina che amava! La felicità non era dunque illusione! Benedetto l'agnellino! Dell'agnello Biscaglia fece il paraninfo del suo amore, il compagno de' suoi sogni, l'argomento delle sue rime, il simbolo del suo cuore. Bèee....

Or come Don Chisciotte e Sancio Panza erano d'accordo mentre Tartarin saliva il Righi, così erano d'accordo adesso nell'animo del professore Biscaglia mentre egli saliva quelle scale.

Una.... Due.... Tre.... Abitavano molto in alto, le signore. Salendo crescevano i palpiti, calava il sangue. Smorto, anelante, il professore si arrestò all'ultimo pianerottolo; dove, a una porta, lesse il nome: Crocchi.

Nessun dubbio; quell'angelo stava là dentro.

Ma lui si sentiva così smorto che non ardì toccar súbito il bottone del campanello; e prima si fregò le guance con le mani. L'atto però gli parve ridicolo; temè che qualcuno fosse a guardarlo o a spiarlo per la finestra della scala; si volse....

Dalla finestra della cucina, di contro, pendeva, spaccato, l'agnello.

Tradotta in tedesco da C. Brenning e pubblicata (1902) in Feuilleton Zeitung, Zürcher Post, Düsseldorfer Zeitung, Frankfurter Nachrichten, Neueste Nachrichten für Elberfeld, Dortmunder Zeitung, Unterhaltungs-Beilage, Die Selbsthilfe, Hansa-Theater, Neue Saarbrücker Zeitung.

Il falcone.

Nel medio evo:

per le signore d'oggidì.

Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Nè di quel bene del signore per il valletto ingelosiva madonna Ginevra, poichè la giovinezza di lei fioriva infeconda e il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.

Madonna viveva lieta. L'amore del marito, le cacce e il conversare con le sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe, cui essa accudiva umilmente. Come rideva a osservar le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro e si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava, così rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo; e mentre cuciva presso la finestra, dalla quale scorgeva l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giù nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce.

Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perchè gli occhi del padrone vedevano tutto con gli occhi di lei e perchè ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire. Solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; sicchè lei finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava tutta in un'occhiata.

Veramente molte cose erano permesse a Ugo. Poteva arrampicarsi su per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le più strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare dietro una porta l'ancella che si stava spogliando; che, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva.

Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinchè nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse più un ragazzo. Egli stesso, Ugo, sentiva mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri; mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E intanto che la forza sensuale si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, senza sapere chi amasse e senza sapere che amava.

Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la forza del sole il mondo dormiva d'un sonno fervido) Ugo a un tratto udì cantare lontana, dall'alto, simile a un'allodola, madonna Ginevra; e d'un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra!

La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani. Egli se n'accorse, sebbene non chinasse lo sguardo; amava da uomo; senza paura amava, e senza vergogna.

Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! Secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sè stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna Ginevra l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna in un notturno assalto di nemici.

Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono presto il freddo dell'ignara noncuranza della dama, la quale aveva due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poichè egli non fallava più, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur più ragione d'immergergli le dita tra i capelli.

Fino a quando essa avrebbe dunque ignorate le sue pene?

E col volgere dei mesi l'affetto di Ugo s'andò come condensando in modo più virile; onde la sua fantasia, cedevole ai richiami e agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della giovinezza, l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa. A poco a poco egli perdette, così, la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l'intenzione.

Passarono mesi; passò un anno. Ma quanto più gli diminuiva la speranza, tanto più cresceva in lui la bramosia di essere soddisfatto.

Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. Come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! Il desiderio sensuale, non più vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l'animo del valletto non più riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione sconsolata.

Avvenne che una mattina, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in vesti nuove, il sire di Ripalta partì per una festa. Quantunque fosse quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il signore fu scomparso al basso del colle, tra le macchie, egli, nell'imminenza della felicità se l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»

E il sole cadeva che non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Quando però, la sera, si fu accorto che la padrona era entrata nelle sue stanze, non più dubitando salì, s'introdusse guardingo, spinse francamente quella porta.

Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: - Vieni, vieni. Cosa vuoi?

A Ugo, rinfrancato, precipitò in mente la dimanda che s'era proposto di far dopo, e raccolto il fiato bastevole per non restare a mezzo, chiese:

- Madonna, se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio?

La domanda piacque a madonna, lieta non ostante l'assenza del marito; e per burlarsi del ragazzo, gli rispose: - Sarebbe stolto. Anche un valletto, purchè fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno almeno compassione.

Ugo con tutta l'anima bevve quelle buone parole e quasi ebbro di gioia esclamò: - Madonna Ginevra, ecco! sono io! Come ho patito, io, per voi! Aiutatemi, madonna!

La dama non rise: non credè che il ragazzo volesse burlarsi lui di lei, perchè gli scorse la passione in faccia; anzi indispettita d'essersi lasciata cogliere e offesa da quell'audacia, gridò severa: - Ah, ma tu sei matto! Che mi vai cicalando con le tue fole? Che so io dei tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa l'ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!

Stordito, con gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse. Nel tumulto dei pensieri, ebbe forza di cercare la suprema invocazione alla pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all'acerbità di lei; e disse: - Voi mi sgridate così, e la colpa è vostra. Perchè non mi ammazzate piuttosto? Meglio morire!... In fe' di Dio, io non mangerò più finchè non mi avrete accontentato! - E con un'angoscia che pareva lo strozzasse, uscì di là.

Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; poi, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripetè: «Cosa gli è venuta in mente?»; infine, si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, col riso su le labbra.

Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo nel letto e non riuscì a chiudere occhio prima d'essersi convinto che la prova che si era imposta era degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che davvero gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica, quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capì d'aver commessa un'imprudenza; credè fino d'aver commesso un grosso errore, fino un'azione da ragazzo; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che modo comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli diè ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parer eroica la deliberazione presa. Quando furono a cercarlo disse: - Ho un gran peso qua - segnava lo stomaco - ; non potrò più mangiare. - E non si alzò.

Il giorno dopo madonna chiese del valletto. - Non ingoia nulla - risposero. Nè egli cedè ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dì una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo. Ma chiudeva gli occhi e rifiutava. Anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primaticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina tra altri ancora rossi ed in agresto: egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse.

Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra se, il vecchio disse:

- Tornerà il padrone; ma non staremo allegri.

- Perchè? - chiese con simulata indifferenza la padrona.

Rispose l'altro: - Ugo morirà: non gli va giù neanche un granello d'uva.

Madonna Ginevra arrossì; si levò; si recò alla cameruccia del valletto.

Stava il valletto con le palpebre abbassate perchè nel languore dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalì ai passi leggeri della dama, riconoscendola.

- Valletto Ugo, dormi? - chiese lei dolcemente.

Egli disse:

- Per l'amor di Dio, madonna, abbiate compassione di me!

Ed essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: - Da me non avrai mai grazia nella bella maniera che domandi! È questa la tua ricompensa al bene che il padrone ti vuole? È questa l'affezione che gli porti? Tornerà....

- Oh se tornasse! - sospirò Ugo, insensato più che ardito.

- Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!

- Ma non mangerò! - conchiuse Ugo.

La dama uscì col proposito di dire ogni cosa al marito appena fosse giunto. Però, intanto che cuciva, ebbe timore che il marito la rimproverasse d'aver tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto; e a nascondergli la verità, non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Che imbroglio! Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi.

Quand'ecco s'udì il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di più ospiti. «Chi sa - riflettè madonna Ginevra - che a vedere il padrone non lo domi la vergogna?»

Così quando nel tinello, in cui su la tavola imbandita col più ricco vasellame fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie gli disse: - È a letto da tre giorni, e non tocca cibo, per un capriccio. Provatevi voi a rimettergli il giudizio.

Il marito volle andare a vederlo; ed essa lo seguì.

- Cos'hai? - domandò il sire entrando.

Ugo rispose: - Un peso qua, alla bocca dello stomaco, che non mi va giù niente.

- Non è vero! - ribattè subito la dama. - Non è vero! Per il male che ha, potrebbe mangiare, - Poi rivolta a Ugo disse: - Adesso io gli dirò perchè digiuni da tre giorni. Mangerai?

- Voi potrete ben dire. Io non mangerò - rispose. Raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta così franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie di qualche torto verso Ugo. Ma Ginevra soggiunse: - Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo.... - ; onde il sire capì che il torto era proprio del ragazzo e: - Perchè? - le domandò impaziente.

La dama invece tornò a chiedere al valletto:

- Mangerai?

Egli, che era risoluto di morire, negò ancora col capo, sospirando.

- Io mi spogliavo - proseguì la dama - , e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi.... Imaginate!

- Insomma! - fece il sire.

- Mangerai? - ripetè la dama per l'ultima volta. E per l'ultima volta: - No! - ripetè forte Ugo, che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: - Mi richiese...; - ma il marito senza più badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera afferrò il braccio del valletto e gridò bieco: - Cosa le chiedesti?

Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore rendeva ineluttabile; disperato amore, più forte della morte; tale, che madonna Ginevra ammirandone la fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sè e per lui l'ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo ormai era un bel giovine) concepì un'idea provvida e sagace.

- Mi chiese - rispose lei - il vostro falcone pellegrino, che non dareste a nessuno, nè a conte, nè a principe, nè ad amico; e, per averlo, s'è impuntato a digiunare.

Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise e disse: - Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia! Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. - Dopo, uscì.

Ma la dama prima d'andarsene si fece più presso a Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:

- Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. - Meglio che con le parole ella prometteva sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza.

Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.

Share on Twitter Share on Facebook