III.

Perché egli era già divenuto in fama di grande scrittore, e le sue opere levavan rumore in tutta Europa: già avvolto di carezze e di minacce, di ossequi e di calunnie, aveva sperimentato, quantunque invano, come il dire la verità o quel che gli sembrava la verità, fosse travagliosa impresa. Ginevra, dove, quasi in seconda patria, era stato ricolmo d'onori, dove, primo italiano il quale ne fosse parso degno, era stato fatto «cittadino borghese», non fu piú luogo per lui dopo che ebbe dato di cozzo nell'«odio teologico» di quei «predicanti»; e perché Luigi XIV lo lusingava di promesse se accettasse la nomina di suo storico, nel 1680 si portò con la famiglia in Parigi. Ma nella prima sua visita al ministro Colbert capí che al re non piaceva uno storico calvinista, e com'egli dichiarò che non sarebbe andato mai dal padre La Chaise, il quale aveva ricevuto incarico di rimetterlo nel «giron della Chiesa», il ministro incollerito l'avverti «che il re avrebbe trovato presto la maniera di farvelo andare». Cosí il Leti, che, sia detto a sua lode, rinunciava a un lauto stipendio per non rinunciare ai suoi principî, s'allontanò incontanente da Parigi e a Calais s'imbarcò per l'Inghilerra.

Ed ivi Carlo II l'accolse con molta degnazione, gli donò mille scudi e gli diede incarico di scrivere la storia del regno inglese; grave compito per altri che per il Leti, il quale la condusse a termine in breve tempo. Ma per avervi dette, al solito, cose che era meglio tacere, e sopra tutto per aver fatta certa profezia, «che se non si portava impedimento acciò non cadesse in successore cattolico la corona, si sarebbero viste tragiche scene di dentro e di fuori», gli furon conceduti appena dieci giorni per uscire dal regno.

Si rifugiò allora ad Amsterdam; e là finalmente trovò tutta la libertà che desiderava; ebbe l'ufficio di storiografo per gli Stati dell'Aja; ricevette onori piú che altrove: ivi chiudeva il secolo decimosettimo stampando la sua centesima opera e cominciava il secolo decimottavo lavorando, in età di settant'anni, quattordici ore al giorno intorno la Vita di Carlo V, la quale finí poco prima della vita sua, nel 1701.

Fibra di ferro ebbe costui!; e benché anche adesso l'Italia non manchi di chi dà troppo a stampare, non avrà piú mai, speriamo, chi, per riuscire a comporre cento volumi, resista come il Leti a scrivere tre opere per volta consumando in ciascuna due giorni della settimana, e in ogni settimana faticando tre giorni dodici ore e tre altri, sei. Veramente, a differenza di molti instancabili scrittori odierni, non mancava d'ingegno; e nelle storie procedendo audace sin fuori della giustizia e feroce nelle satire sin fuori dell'onestà, commoveva e seduceva moltitudini di lettori. Né è strano che molti, pure cattolici, gli volessero gran bene, perché egli fu nella vita quale nelle opere: aperto, e cosí naturalmente arguto e ardito da movere incontro anche a gravissimi pericoli con sangue freddo e con motti ridevoli.

Quando si trovava a Ginevra gli giunse un giorno questo avviso di Giuseppe Corso, libraio romano provveditore della casa Panfili: - Signor Gregorio, perché l'amo, la sua vita mi è cara: il Signor Principe Camillo Panfili, ch'è persuaso già che V. S. sia autore della Vita di donna Olimpia sua madre, ha giurato di spender cento mila doppie per farla pugnalare - ; ed egli, gettato l'angoscioso biglietto nel fuoco, «acciò con questo se n'estinguesse la memoria, e preso un gran foglio di carta - e reale di piú, per fargliela costar piú cara alla posta - » rispose all'amico: - Signor Gioseppe, il Signor Principe Camillo è troppo benigno e troppo economico per spender cento mila doppie per farmi pugnalare, se con dieci potrebbe farlo due volte. -

In Londra, essendo la corte in tempesta per colpa della sua storia, corse a lui, una sera alle dieci, il fratello di sua moglie, il quale atterrito l'avvisò da parte di milord Cernis che il duca di York aveva dato ordine di assassinarlo: nel nome di Dio, guardasse la sua persona!

- "E per questo vieni tu a svegliare il mio sonno?" - gridò egli al cognato; e pieno d'ira lo coprí d'ingiurie; poi messolo fuori della camera riprese a dormire mentre quelli della famiglia stavano in pianti. L'indomani non fu loro possibile impedirgli di uscire, e agli amici che incontrandolo meravigliati gli ripetevano sotto voce il consiglio di lord Cernis, il Leti rispondeva ridendo: - «Il signor duca ha il cuore troppo augusto per risentirsi con la morte e con la prigionia della morsicatura d'una mosca». - E cosí fece ogni volta che gli riferirono una vendetta imminente.

Per tanta spontaneità e vivacità di spirito; per la facilità sua a cogliere, l'attitudine ad imaginare, la capacità a rendere tipi diversi in azione sarcastica, Gregorio Leti fu certo uno scrittore di satire singolare nel seicento e per noi degno di molta considerazione. È vero che ai nostri giorni niuno s'occupò di lui convenientemente, forse perché le sue satire derivano in gran parte la materia da pasquinate che si possono conoscere per altra via; forse perché feriscono le colpe dei papi e la corruzione de' sacerdoti alti e bassi con un fine religioso o politico di cui oggi è troppo difficile avvertire la sincerità e l'importanza; forse, piú tosto, perché appariscono in gran parte libelli osceni. Infatti - contraddizione curiosa! - il calvinista riformato pur ne' costumi è sconcio scrittore; ma, e come avrebbe potuto battere i peccati de' preti senza essere tale? Del resto, altri vegga il danno ch'egli poté recare alla moralità: a me basta dare a vedere ch'egli ebbe forza e vena satirica e che meglio la rivelò appunto nelle composizioni piú lubriche.

E meglio fra tutte, parmi, tant'è spietato e giocondo e acuto per rappresentazione di tipi, in quella intitolata.... - mal titolo, e bisogna coraggio, o pudibondo lettore, - Il Puttanismo romano.

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