IV.

Quando entrarono e salirono al terzo ordine, già i primi gradi, dei patrizi, e i secondi, dei cavalieri, erano pieni; lassù trovarono liberi appena due posti attigui. Cesario Prisco li lasciò ai figliuoli, e rimase in piedi a capo della scalinata, di dove poteva meglio scommettere cogli amici. Lucilio, timido, a bassa voce indicava intanto al fratellino la tribuna imperiale, vuota, il seggio dei giudici, le tre mete dalla parte delle scuderie e le tre mete opposte con la porta trionfale, nella spina, i segnacoli con i delfini e le uova che servivano a numerare i giri della corsa.

Nè l'attesa fu lunga. Un silenzio immenso, improvviso.

Ecco: aperte le scuderie: ecco i carri. Avanzano sino al principio della spina; si allineano; ristanno davanti a una corda... Un istante. E a Valentino tremò il piccolo cuore; ebbe paura, non sapendo di che; cercò cogli occhi il padre. Ma Lucilio lo tirò per la veste e gli sussurrò: — Guarda!

Una mano agita una benda purpurea, la corda cade: via!

Nel galoppo molteplice si vedevan di pari le teste dei cavalli, le fruste alzate e i colori delle tuniche. E cominciarono le scommesse e il richiamo a tutti noto: — Libanio! Libanio! — Libanio non sferzava. Giunse ultimo alle mete, nel primo giro. Prima le oltrepassò la russata.

Allora Lucilio disse, dimentico del suo entusiasmo per la quadriga veneta o azzurra: — Io scommetto per la russata. E tu Valentino? — Valentino non ricordò più che appunto la rossa era la sua fazione; ricordò che la madre gli aveva detto: — Vincerà Libanio — e rispose: — Io sto per Libanio, il verde!

— Sta attento! Non vedi che è ultimo, il verde? Guarda! Guarda!

Gli agitatori e giocolieri cominciavano a operare inganni in pro delle loro parti. Balzavano improvvisi, correvano qua e là, e facevan gesti da impaurire, e recavan cose da gettare nell'arena. Uno, a cavallo, tagliò d'un tratto la via, e la quadriga russata, che ancora precedeva, s'impennò; passò innanzi la veneta o azzurra, e giungeva l'albata.

Ma di subito, imprevedibile, un giocoliere si gettò a terra con meravigliosa arte, con pazzo ardire, cogliendo l'istante e l'intervallo fra le gambe posteriori dei cavalli e le ruote della veneta, ora precedente a tutte; e rialzandosi incolume, quasi sorgesse di sotto terra, spaventava i poledri dell'albata sopravveniente.

Così la russata riguadagnò terreno, ma per poco non arrotò la veneta e (fu da tutti i petti una voce di terrore) non la rovesciò. Approfittò dell'istantaneo indugio Libanio, senza che i suoi quattro cavalli, d'un splendido mantello baio dorato, sembrassero mutar norma al galoppo: superava secondo, subito dopo la veneta, il compimento del secondo giro. Quand'ecco un giocoliere gli gettò incontro un cesto: le ruote non lo toccarono. Un altro gettò un'anfora: evitata. L'auriga ancor primo si rivolse per colpire con la sferza agli occhi i cavalli che già aveva al fianco, ma Libanio evitò il tradimento facendo di nuovo scartare i suoi cavalli. E questa volta oltrepassava primo le mete.

— Libanio! Libanio! — Tutti gli spettatori, in piedi, plaudivano; più alte, deliranti, si levavano le acclamazioni dalla fazione prasina.

Se non che al quarto giro questa ebbe assai da temere. L'albata l'accostava; le era alle ruote. E le scommesse raddoppiavano di foga.

Cesario Prisco, sicuro di vincere, guardò sorridendo ai suoi figliuoli, ed essi parvero sentirne lo sguardo.

— Padre! — gli gridò Lucilio. — Io sto con te; per l'albata! — Ma Valentino pieno di ardire, adesso, felice, battè le mani e avvertì tutto il circo:

— Io sto per Libanio!

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