II.

Il cielo era stellato, ma la strada, lontano dalla città e da ogni casolare e campo, saliva ai monti e s'internava tra due falde boschive e dense come in una notte cupa.

Il cavallo, benché valido, accortosi del doppio peso, rallentava il galoppo e sbuffava; e tuttavia Rinaldo Imberali lo feriva degli sproni perché salvasse il suo amore: l'Agnesina, che impaurita chiudeva gli occhi e sentiva la frescura ventarle i capelli, con le braccia stringeva piú forte il petto del giovane; e il cuore di lui palpitava sotto la destra di lei. Egli, quando a quando, rivolgeva il viso e le susurrava su 'l capo: - Anima mia! - ed ella taceva rabbrividendo; ma a un punto l'Agnesina sospirò: - Guglielmo! - , e Rinaldo comprese d'improvviso e allibí. Tacque: non sarebbe stato da stolto perdere ciò che per sorte aveva in suo potere? «Saprò trovare sí buone parole - pensava - che m'ascolterà e l'avrò in pace prima di giorno; ma dove andremo?»; mentre essa, che non ardiva domandargli «Dove ci fermeremo?», si fidava tutta nel cuore che sentiva battere sotto la sua mano.

La strada, dopo che i fuggitivi ebbero corso forse dieci miglia, risaliva erta per una folta e fosca abetaia, dove a Rinaldo parve di poter riposare; ed ivi ristando legò il destriere a un abete; poi, prese una mano della fanciulla e, senza piú velare la voce, le disse: - Qui, anima mia, saremo sicuri - . Alle parole di lui l'Agnesina vide che non era Guglielmo e con un grido di spavento, quasi riconoscesse un suo mortale nemico, riconobbe Rinaldo. Rinaldo si mise a supplicarla dicendo: - Agnesina, ascoltatemi e non temete di me; ma alla fanciulla s'annodarono in gola parole e singhiozzi, finché copertasi con le mani il volto in atto di vergogna e sciagura, proruppe in pianto.

- Ascoltatemi - supplicava Rinaldo fuori di sé medesimo, perché temeva di perdere la nuova speranza. - Voi mi chiamaste; io credetti che alla fine v'avesse presa pietà di me e voleste darmi la maggior consolazione che uomo provasse mai al mondo. Solo a mezza strada mi diceste: «Guglielmo», e io m'accorsi dell'inganno; ma allora che cosa potevo, che cosa dovevo fare? Ricondurvi alla madre? Questo farò adesso, se voi volete, e tosto che il cavallo abbia riavuto il respiro; io vi ricondurrò, ma la madre, adesso come allora, v'accoglierà con sospetti e n'avrete rimbrotti e castigo.

Oh quanto l'Agnesina piangeva duramente senza dare ascolto a Riccardo! Il quale proseguiva:

- La colpa non è stata mia, non vostra, non di Berlinghieri: è stata della mia fortuna, che mi ha condotto alla vostra casa prima di Guglielmo e ora mi fa vedervi cosí! E voi credete che chi vi vuole tanto bene potrebbe lasciarvi in simile guaio se potesse consolarvi un poco?

L'Agnesina, ascoltando Rinaldo, piangeva sempre duramente.

E Rinaldo, tuttavia concitato e tremante, continuò a maledire la sorte per cui egli, anzi che rallegrarsi, doveva affliggersi dell'avere in sua mano la donna desiderata: ma poiché la fanciulla non si quetava, egli riprese a dire delle parole savie.

Diceva con voce tenera: - Io non vi offenderò mai, Agnesina. Voi, che non avete uguali in bellezza, siete uguale nell'onestà ad ogni altra piú gentil donna di Firenze ed io conosco che Guglielmo mi sopravanza in valore e cortesia e che meritava tutto da voi. Ma quando ce ne torniamo, neppure Guglielmo vorrà persuadersi che io non vi abbia tócca; e se la madre vi scaccerà, e se Guglielmo non vi crederà, dove andrete voi, a chi vi affiderete voi?

L'Agnesina piangeva meno duramente, meravigliata delle oneste parole del giovane; e questi se ne avvide e il conforto che ne ricevette lo rimise nella concitazione di prima.

- Crudele vicenda di tre! - diceva - . Ma dei tre io non avrò pace mai piú; io stolto, che vi voglio bene come Guglielmo; e voi, non per voi ma per Guglielmo, seguitate a piangere!

E le chiedeva perdono di quel suo amore quasi di un'azione cattiva: le diceva i molti disagi, le lunghe notti insonni, i gravi martíri patiti per lei, e gli sdegni dei suoi e gli scherni dei compagni e i giochi e le feste che volentieri aveva obliati per lei, fino a consumarsi per lei l'anima e il corpo. Ma l'Agnesina pareva ascoltare un'altra voce che le discorresse nel petto. L'ammoniva l'altra voce di non trarre a morte Rinaldo; a pensare ch'egli non aveva altra colpa che di amarla molto e che colpevole era piuttosto Guglielmo, il quale dimentico o falso non s'era trovato a prenderla fuggente di casa; a considerare come bel giovane fosse pure Rinaldo e in che onore la tenesse: perché non raccogliere il piacere che da tempo la sua giovinezza le prometteva, perché rimanere lagrimosa e confusa quando alla lieve sventura non era rimedio? Ond'ella passò il rovescio della mano sui grand'occhi molli di pianto. Ma Rinaldo, cieco e disperato di potere piegarla, irrompeva in queste aspre parole:

- Meglio farei ad ucciderti perché altri non abbia mai ciò che altri ti avrebbe súbito tolto; pure io voglio che tu veda e creda a che mi hai ridotto. Or dunque tu salirai su 'l cavallo, che è docile, e andrai dove piú ti piacerà, ed io lascerò qui il mio corpo, carne buona per i corvi e per i lupi.

Cosí dicendo toglieva dalla cinta il pugnale; ma l'Agnesina lo rattenne inorridita e gridò: - Rinaldo, non fate!

Rinaldo rimase sospeso guardandola come uomo che sia fra la vita e la morte, come anima che dubiti fra il paradiso e l'inferno; e l'Agnesina, a cui Guglielmo Berlinghieri era del tutto uscito dalla memoria, gli gettò le braccia al collo vergognosa e sorridente e piena di desiderio e di grazia.

Quando furono stanchi del piacere, s'addormentarono stretti l'uno all'altra; e sognarono d'essere cosí, stretti l'uno all'altra.

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