Scena seconda

Ottavia, Seneca.

Ottav.

Seneca, oh gioja! ancor sei dunque in vita?

Vieni, o mio piú che padre... E che? nel volto

men tristo sembri: oh! che mi arrechi?

Seneca

Intatta,

godi, è pur sempre la innocenza tua.

Le tue tante virtú d'alcun lor raggio

infiammato a virtude hanno i piú bassi

servili cori. Infra martíri atroci,

fra strazj orrendi, le tue ancelle a un grido,

tutte negaro il tuo supposto fallo.

Marzia fra loro era da udirsi: in fermo

viril libero aspetto (e da far onta

a noi schiavi tremanti) in Neron fitti

gl'imperterriti sguardi, ora a vicenda

Tigellino, or Nerone, ad alta voce

mentitor empj iva nomando: e piena

di generosa rabbia, inni solenni

di tua santa onestá cantando, salda

ella ai tormenti, da forte spirava.

Ottav.

Misera! ahi degna di miglior destino!...

Ma ciò, che vale? A ricomprar mio sangue,

havvi sangue che basti?

Seneca

Or, piú che pria,

scabro a Neron fassi il versarlo. Hai tratto

lustro ed onor donde sperò l'iniquo

che infamia trar tu ne dovresti, e morte.

Eucero stesso, benedire ei s'ode

il suo morire. Or giuramenti orrendi,

per cui sua testa agli infernali Numi

consacra; or spande liberi, e feroci

detti, che attestan tua virtude; or giura

piú a grado aver e funi, e punte, e scuri,

che l'oro offerto di calunnia in prezzo.

Di Tigellino ei le promesse infami

chiare ad ogni uomo fa; lo ascoltan pieni

d'inusitato orror gli stessi feri

suoi carnefici, e quasi le lor mani

trattengon, mal loro grado. In fretta io vengo

il grato avviso a dartene.

Ottav.

Deh! mira,

chi viene a me: miralo, e spera.

Seneca Oh cielo!

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