Scena terza

Tigellino, Ottavia, Seneca.

Tigel. Il tuo signor ver te m'invia.
Ottav.

Deh! rechi

tu almen mia morte? Or che innocente io sono,

grata sarammi.

Tigel.

Il tuo signor per anco

tal non ti crede; e, ad innocente farti,

non bastava il munir di velen pria

Eucero, e tutte le tue conscie ancelle,

sí, che ai martir non resistesser: gli hai

tolti ai tormenti, ma a te stessa il mezzo

di scolparti toglievi...

Ottav.

Or, qual novella

menzogna?...

Tigel.

Omai vieta Neron, che fallo

non ben provato a te si apponga. Or altra,

ben altra accusa or ti s'aspetta; e il reo,

non fra' martir, ma libero, e non chiesto,

viene a mercé.

Ottav. Qual reo? Parla.
Tigel. Aniceto.
Seneca D'Agrippina il carnefice!
Ottav. Che sento?
Tigel.

Quei, che Neron d'alto periglio trasse:

fido era allora al suo signor; tu, donna,

traditor poscia il festi. Ei ripentito,

vola or sull'orme tue; primo ei s'accusa;

e tutto svela: ma non men sua pena

ne avrá perciò.

Ottav. Quale impostura?...
Tigel.

Ei forse

l'armata, ond'è duce in Miseno, a un cenno

tuo ribellar non prometteati? - E dirti

deggio, a qual patto?

Ottav.

Ahi! lassa me! Che ascolto?

Oh scellerata gente! oh tempi!...

Tigel.

Impone

a te Nerone, o di scolparti a un tempo

dei sozzi amori, e de' sommossi duci,

e degli audaci motti, e delle tante

tese a Poppea, ma invano, insidie vili,

e del tumulto popolare; o vuole,

che rea ti accusi: a ciò ti dona intero

questo venturo dí.

Ottav.

... Troppo ei mi dona. -

Vanne, a lui torna: e pregalo, ch'ei venga

quí con Poppea. Narrar vo' solo ad essi

i miei tanti delitti: altro non chieggo:

tanto impetrami; va. Dell'onta mia

lieta a gioir venga Poppea; l'aspetto.

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