Tigellino, Nerone, Ottavia, Seneca.
Tigel. | Signor... |
Ner. | Che rechi, o Tigellin? favella. |
Tigel. |
Vieppiú feroce la tempesta ferve: rimedio sol, resta il tuo senno. - Appena ode la plebe, che un sovran comando Ottavia in Roma ha ricondotto, a gara chiede ogni uom di vederla. In te cangiato credono, stolti, il tuo primier consiglio: e v'ha chi accerta, che di nuovo accolta nel tuo talamo l'hai. Chi corre insano al Campidoglio, e gioja sparge, e voti; altri di alloro trionfal corona ripon sopra le immagini neglette di Ottavia: altri, ebro d'allegrezza, ardisce atterrar quelle di Poppea: tant'oltre giunge l'audacia, che infra grida ed urli nel limo indegnamente strascinate giacciono infrante. Ogni piú infame scherno di lei si fa: colmo è Neron di laudi: ma in bando almen voglion Poppea: né manca chi temerario anco sua morte grida. Inni festivi, e in un minacce udresti; poi preghi, indi minacce, e preghi ancora. Arde ogni cor; dell'obbedire è nulla. Tentan duci e soldati argine farsi alla bollente rapidissim'onda; invan; disgiunti, sbaragliati, o uccisi, è un sol momento. - Omai, che far? Che imponi? |
Ner. |
Che far?... Si mostri or questa Ottavia al volgo; su via, si mostri; - indi si sveni |
Ottav. |
Il petto eccoti inerme: svenami, se il vuoi. Pur che a te giovi!... Alla infiammata plebe mostrami spenta: ogni colpevol gioja rintuzzerai tosto cosí. Sol chieggio, che un'urna stessa il freddo cener mio di Britannico in un col cener serri. Base al tuo seggio alta e perenne il nostro sepolcro avrai. Perché piú indugi? or questo mio capo prendi; al tuo furore il debbo. |
Seneca |
Se perder vuoi seggio ad un tempo e vita, Neron, sicuro è il mezzo; Ottavia uccidi. |
Ner. | Vendetta avronne ad ogni costo. |
Ottav. |
Ah! mille morti vogl'io, non ch'una, anzi che danno lieve arrecare al signor mio. |
Tigel. |
Ma il tempo piú stringe ognora. Odi tu gli urli atroci? Impeto tal non vidi io mai; di tanto meno affrontabil, che di gioja è figlio. Sceglier partito è forza. |
Ottav. |
E dubbio fia? Nerone, a tor per ora ogni tumulto, ei t'è mestier l'uccidermi, o l'amarmi: l'uno, né mai pur finger tu il potevi; l'altro brami, è gran tempo: osa tu dunque; svenami; ardisci: o se da ciò l'istante fausto or non è, temporeggiar momenti ben puoi. La plebe credula, e ognor vinta pur che deluso sia l'impeto primo, per te s'inganni: è lieve assai; sol basta, ch'io m'appresenti in placida sembianza, come se in tuo favor tornata io fossi; sol, ch'io mi finga tua. Cosí la calca fia spersa tosto; ogni rumor fia queto; tempo cosí di sguainar tua spada, e di segnar tue vittime t'acquisti. |
Ner. |
A Roma, io sí, te mostrerò: ma pria chiarir voglio, se in Roma il signor vero son io. - Tu corri, Tigellino, al campo; tacitamente i pretoriani aduna; terribil quindi esci improvviso in armi sovra gli audaci; e i passi tuoi sien morte di quanto incontri. |
Tigel. |
Io l'ardirò; ma incerto ne fia l'evento assai. Feroce l'atto parrá, col ferro il rintuzzar la gioja. E se in furor si volge? è breve il passo. - Mal si resiste a una cittá; supponi ch'io co' miei forti cada; in tua difesa chi resta allora? |
Ner. |
È ver... Ma, il ceder pure parrebbe... |
Tigel. |
Or credi a me: periglio grave non far di lieve: il sol tuo aspetto forse può dissiparli appieno. |
Ner. |
... Io di costei rimango a guardia. In nome mio tu vanne, mostrati lor: ben sai che sia la plebe; seco indugiar fia il peggio. A piacer tuo, fingi, accorda, prometti, inganna, uccidi: oro, terror, ferro, parole adopra; pur che sien vinti. Va, vola, ritorna. |