Scena terza

Tigellino, Nerone, Ottavia, Seneca.

Tigel. Signor...
Ner. Che rechi, o Tigellin? favella.
Tigel.

Vieppiú feroce la tempesta ferve:

rimedio sol, resta il tuo senno. - Appena

ode la plebe, che un sovran comando

Ottavia in Roma ha ricondotto, a gara

chiede ogni uom di vederla. In te cangiato

credono, stolti, il tuo primier consiglio:

e v'ha chi accerta, che di nuovo accolta

nel tuo talamo l'hai. Chi corre insano

al Campidoglio, e gioja sparge, e voti;

altri di alloro trionfal corona

ripon sopra le immagini neglette

di Ottavia: altri, ebro d'allegrezza, ardisce

atterrar quelle di Poppea: tant'oltre

giunge l'audacia, che infra grida ed urli

nel limo indegnamente strascinate

giacciono infrante. Ogni piú infame scherno

di lei si fa: colmo è Neron di laudi:

ma in bando almen voglion Poppea: né manca

chi temerario anco sua morte grida.

Inni festivi, e in un minacce udresti;

poi preghi, indi minacce, e preghi ancora.

Arde ogni cor; dell'obbedire è nulla.

Tentan duci e soldati argine farsi

alla bollente rapidissim'onda;

invan; disgiunti, sbaragliati, o uccisi,

è un sol momento. - Omai, che far? Che imponi?

Ner.

Che far?... Si mostri or questa Ottavia al volgo;

su via, si mostri; - indi si sveni

Ottav.

Il petto

eccoti inerme: svenami, se il vuoi.

Pur che a te giovi!... Alla infiammata plebe

mostrami spenta: ogni colpevol gioja

rintuzzerai tosto cosí. Sol chieggio,

che un'urna stessa il freddo cener mio

di Britannico in un col cener serri.

Base al tuo seggio alta e perenne il nostro

sepolcro avrai. Perché piú indugi? or questo

mio capo prendi; al tuo furore il debbo.

Seneca

Se perder vuoi seggio ad un tempo e vita,

Neron, sicuro è il mezzo; Ottavia uccidi.

Ner. Vendetta avronne ad ogni costo.
Ottav.

Ah! mille

morti vogl'io, non ch'una, anzi che danno

lieve arrecare al signor mio.

Tigel.

Ma il tempo

piú stringe ognora. Odi tu gli urli atroci?

Impeto tal non vidi io mai; di tanto

meno affrontabil, che di gioja è figlio.

Sceglier partito è forza.

Ottav.

E dubbio fia?

Nerone, a tor per ora ogni tumulto,

ei t'è mestier l'uccidermi, o l'amarmi:

l'uno, né mai pur finger tu il potevi;

l'altro brami, è gran tempo: osa tu dunque;

svenami; ardisci: o se da ciò l'istante

fausto or non è, temporeggiar momenti

ben puoi. La plebe credula, e ognor vinta

pur che deluso sia l'impeto primo,

per te s'inganni: è lieve assai; sol basta,

ch'io m'appresenti in placida sembianza,

come se in tuo favor tornata io fossi;

sol, ch'io mi finga tua. Cosí la calca

fia spersa tosto; ogni rumor fia queto;

tempo cosí di sguainar tua spada,

e di segnar tue vittime t'acquisti.

Ner.

A Roma, io sí, te mostrerò: ma pria

chiarir voglio, se in Roma il signor vero

son io. - Tu corri, Tigellino, al campo;

tacitamente i pretoriani aduna;

terribil quindi esci improvviso in armi

sovra gli audaci; e i passi tuoi sien morte

di quanto incontri.

Tigel.

Io l'ardirò; ma incerto

ne fia l'evento assai. Feroce l'atto

parrá, col ferro il rintuzzar la gioja.

E se in furor si volge? è breve il passo. -

Mal si resiste a una cittá; supponi

ch'io co' miei forti cada; in tua difesa

chi resta allora?

Ner.

È ver... Ma, il ceder pure

parrebbe...

Tigel.

Or credi a me: periglio grave

non far di lieve: il sol tuo aspetto forse

può dissiparli appieno.

Ner.

... Io di costei

rimango a guardia. In nome mio tu vanne,

mostrati lor: ben sai che sia la plebe;

seco indugiar fia il peggio. A piacer tuo,

fingi, accorda, prometti, inganna, uccidi:

oro, terror, ferro, parole adopra;

pur che sien vinti. Va, vola, ritorna.

Share on Twitter Share on Facebook