CAPITOLO IV.

Finta difesa del generale Baraguey d’Hilliers. Nuove mosse degli austriaci. Ritirata dei napoleoniani. Entrata in Rovereto degli austriaci e di molti tirolesi armati. Allegrezze dei roveretani. Loro guardia civica passata in rivista dal generale Chasteler. Somministrazioni di viveri e modo per ammanirle. Solennità per le austriache vittorie. Ritirata improvvisa degli austriaci. Loro sconfitta in Germania. Conseguenze ch’essa portò ai tirolesi, e contegno ulteriore de’ medesimi.

Al cadere dei 25 d’aprile inclinavano le cose a novella piega. Gli austriaci e i tirolesi ingrossavano a destra e a sinistra dell’Adige. Il generale della Francia, o si vedesse minacciato ai fianchi e di fronte da doppie forze, o perchè così suonasse il comando del Vicerè, già divisava la ritirata. Per isgombrarne però il sospetto dall’animo dei cittadini, da lui conosciuti partigiani dell’Austria, egli dava loro a divedere di voltare ancora le armi contro Volano ed i monti, e di attaccare, più che fuggire il minacciante avversario. A tal uopo velava il fatto disegno con guerresche preparazioni, e col far pubblicare un editto vietante ai roveretani, sotto minaccia d’esser passati per l’armi, non solo di far cerchiellini per le contrade e sulle piazze, ma ben anche di comparire dopo le ore sei sulle strade e di salire in sui tetti. Il Municipio ordinava altresì, per voler di lui, che nella seguente notte fosse apposta ad ogni casa una lanterna. Nell’armi durava la quiete, ma non così negli armati, chè, tanto al piano che alle colline, si scorgeva un continuo e silenzioso movimento, ed una grande impazienza di rinnovellare l’attacco, specialmente da parte degli austriaci e dei tirolesi, che colla varietà dei loro vestiti coronavano di vaghi colori le creste dei monti. L’apparenza fu per poco disgiunta dal fatto. Erano le ore nove della sera, era placida la notte, e il cielo scintillante di stelle, e pareva ai cittadini che egual quiete dominasse pur anco negli alloggiamenti delle due armate, quando tutt’ad un tratto le prime squadre austriache e tirolesi ruppero il notturno silenzio con alcune salve d’archibugiate, che dai torreggianti colli folgoreggiarono. L’inaspettato assalto sorprendeva e spaventava le schiere napoleoniche trincerate in sui colli a quelli fronteggianti, le sbaragliava, ed obbligavale a calare nella pianura, stimando miglior partito il cedere, che l’avventurarsi ad un combattimento troppo ineguale. All’orrisonante fracasso, che durò sin quasi alla mezzanotte, succedeva il bramato silenzio. Ma il polso di regolari e di tirolesi, che in sulla sera di questo giorno era da Volano salito collo stesso Chasteler per l’alpestre sentiero del Gazzol, sul vicino monte sopra Saltaria, sul quale vennero trainati due piccoli cannoni, tirò da quest’eminenza due ore dopo la mezza notte due cannonate, le quali scossero novellamente l’armata napoleonica, ed intronarono le orecchie ai cittadini e valligiani, ridestando negli impauriti loro petti un novello terrore. Per buona ventura la mossa notturna da Chasteler ordinata, limitossi solamente a questi due colpi, scagliati, come si scorse dappoi, per avvisare, secondo la preceduta intelligenza, le sparse colonne imperiali e quella in ispecie guerreggiante sulla dritta dell’Adige, di mandare ad effetto la già ordinata impresa d’acquistare nel seguente giorno la città di Rovereto.

Baraguey d’Hilliers durante l’oscurità della notte rannodati i suoi, si ritirava alla volta dei confini d’Italia, anteponendo la prudenza all’ardire, o piegando al volere di chi governava le cose dell’Italico Regno; dove l’arciduca Giovanni avea passato la Piave ed il Brenta, inondando parte del Padovano e del Vicentino, ed apprestandosi a seguitare il fuggente nemico sulle terre di Verona, su cui egli dovea congiungersi colla possente mole tirolese, se l’esito della guerra in Alemagna non avesse attraversato l’ideato disegno. A questo modo il generale francese evitò il pericolo d’essere preso in ischiena e fatto prigione, cosa che ben di leggieri avria potuto accadere, se il tenente maresciallo Chasteler avesse con maggiore avvedutezza, celerità e coraggio cooperato col generale Fenner, che marciava sulla destra sponda dell’Adige, e Rovereto veniva liberata dalle funeste conseguenze della temuta seconda battaglia. Udivano i cittadini il calpestio dei soldati, l’incioccare dell’armi, il nitrire de’ cavalli, ed il rotolamento del carriaggio; ma non arrischiando affacciarsi alle finestre, penetrar non potevano con tutta certezza che cosa significasse l’inteso movimento. Albeggiava il dì 26, allorquando giungeva improvvisa alla svegliata città una voce annunziante l’anelata comparsa degli austriaci, e le risonanti grida di – Viva l’Imperatore! Viva Francesco! – Quella voce e queste grida, che assordavano l’aria, ravvivavano i timorosi loro spiriti, e tornavano loro tanto più gradite, in quanto che si credevano oggimai liberati per sempre dal bavaro giogo. Un aprire d’imposte, un affacciarsi alle finestre, un uscire impetuosamente fuor delle case, un affollarsi per le cittadine contrade fu cosa d’un sol momento; il giubilo, le acclamazioni e le grida di – Viva l’Austria! Viva l’Imperatore! – divenivano universali. In mezzo alla folla del popolo entravano poco dopo tre reggimenti d’infanteria, preceduti dalle loro musiche, e da un drappello di dragoni a cavallo. Alcune compagnie di tirolesi con bandiere spiegate, con tamburi battenti e a suon di pifferi, calavano contemporaneamente dai monti col supremo loro condottiero Hoffer. Fra i regolari ed i tirolesi che scollinavano, si trovava eziandio il tenente maresciallo Chasteler, alla cui vista le acclamazioni raddoppiavansi, tutte le campane incessantemente suonavano a festa; cittadini e soldati si mescolavano insieme abbracciandosi e manifestandosi la reciproca contentezza. Spinti alcuni dei primi da un naturale trasporto d’allegrezza si facevano a baciare persino i soldati e le bandiere, spargendo lagrime di consolazione. Tutta la città sembrava sottosopra; ciascuno credeva d’esser risorto a vita novella: tanto era l’entusiasmo dei roveretani in vedersi dalla fortuna restituiti al dominio dell’Austria, sotto di cui, tranne gli ultimi tre anni, vissero, in virtù d’una spontanea lor dedizione, per la lunghezza di tre secoli, cioè del 1509 in poi. Il giorno dopo giunse anche il vescovo di Gurch, Francesco Saverio di Salm, il quale veniva accompagnando ed animando la nazionale milizia di Carintia. Ai 29 egli visitò lo spedale, e a tutti i soldati feriti, i più dei quali eran francesi, distribuì egli stesso una limosina generosa.

Mentre il popolo festeggiava il felice avvenimento, i padri della patria occupavansi in vettovagliare la sopraggiunta armata di circa 18000 uomini, e in provvedere il foraggio pei cavalli. La cassa cittadina era esausta dalle spese già sostenute per l’armata napoleonica. Istruiti gli abitanti dai lamenti di quei creditori che nelle belliche passate vicende aveano somministrati alla città generi ed imprestati danari, e che non erano ancora stati soddisfatti; nessuno di essi si arrischiava di fidanzarle il menomo importo. Fra i pubblici rettori annoveravansi bensì dei cittadini per ingegno ed esperienza notevolissimi e capaci di amministrare la cosa pubblica; ma poco giova l’umana virtù quando manca la pecunia, ed il credito è intieramente scemato. Provvidero al bisogno del momento impegnando la privata lor fede, e giovandosi in parte delle spontanee somministrazioni di alcuni cittadini; e pel bisogno futuro convocarono il consiglio dei Trentuno, a cui erano sottomessi gli affari della più alta importanza. Questo adunossi il dì 28 aprile, e prese partito di obbligare i benestanti cittadini ad un imprestito intanto di dodici mila fiorini, da ripartirsi sur essi a seconda delle rispettive loro forze economiche, spediente che nelle gravi contingenze di quell’anno venne adottato anche dagli altri comuni della provincia. Un altro imprestito obbligatorio fu ordinato ne’ susseguenti giorni a carico dei comuni componenti la militare stazione.

Giunto il generale Chasteler nella conquistata terra, e nell’alloggio apprestatogli nel palazzo dei conti Fedrigotti, ordinò ad una parte dell’esercito, che stava reficiandosi, di seguitare senza indugio lungo le due rive dell’Adige sino ai confini della provincia il nemico che ito era a campeggiare presso Peri. Pochi momenti dopo il di lui arrivo, il Magistrato cittadino fecesi a complimentarlo ed a congratularsi della sua gloriosa venuta. Lo accolse Chasteler con somma gentilezza manifestandogli la verace soddisfazione ch’egli sentiva per vedersi in mezzo ad un popolo tanto affezionato al suo signore. Mostrò in appresso il desiderio di vedere la cittadina milizia eretta sotto il bavaro reggimento, e composta di due compagnie comandate dai capitani Alberto conte degli Alberti, e Giulio barone de’ Pizzini. La vide schierata nella piazza del Podestà, ne fece la rassegna durante il continuato suono della di lei musica; ne lodò la bella ed uniforme tenuta, e si piacque accettare dalla medesima una guardia d’onore durante la sua stanza in Rovereto: solo notò ai due capitani, che la nappa di color bianco e celeste, attaccata al cappello formato a due punte, si tramutasse nel color rosso, e che gli ufficiali dovessero deporre la ciarpa d’argento che portavano alla cintura. Ordinò alle cittadine sentinelle, che guardavano il suo alloggio, di dover presentare l’arma al comandante supremo dei tirolesi ogni qual volta passasse loro dinanzi, il che far dovevano eziandio quelle dei regolari per un espresso comando di Chasteler, col quale veniva quegli di sovente ad abboccarsi, o per ricevere le sue disposizioni, o per dargli i suoi graditi consigli sul movimento della sua gente.

Successivamente a Chasteler comparve il barone Giuseppe Horrmayer, eletto dall’Imperatore a Commissario della provincia e dell’armata; ed appena arrivato, chiamava a sè tutti i superiori dei diversi uffizii, ordinava loro di continuare provvisoriamente le ufficiali incombenze secondo il bavaro sistema, e facevasi prestare il giuramento di essere fedeli all’Imperatore d’Austria. Emanò dappoi un ordinamento, che si dovesse cantare nelle chiese parrocchiali una messa solenne, ed il Te Deum, a fine di ringraziare il Cielo per le vittorie ottenute dalle armi austriache, e per implorare alle medesime un’eguale benedizione in avvenire. Supplici i padri della patria col popolo intervenivano il dì 30 aprile nella chiesa arcipretale a questo solenne ringraziamento, e fra i divini sacrificii pregavan da Dio, che fra l’armi medesime continuasse a risplendere la vittoria.

Ma mentre giubilava il Tirolo per la prosperità della fortuna, e gli austriaci popoli innalzavano al cielo le più fervide grazie per le passate vittorie, le armate imperiali toccavano sulle germaniche terre le più atroci sconfitte. La fortuna volse novellamente propizia alla Francia. Dappoichè l’arciduca Carlo avea spinto il suo esercito nel cuor della Baviera, e rivolgeva il passo alla volta del Reno, riportando non lievi vantaggi; dappoichè anche l’arciduca Giovanni avea respinta l’armata del Vicerè fin oltre Vicenza, ed era per accostarsi alle terre veronesi, e che tutto il Tirolo era già tornato in potere dell’armi austriache, cooperandovi i tirolesi con azioni tanto gloriose; tutto ad un tratto il cielo si fe’ tenebroso, e cadde sull’Austria una tempesta desolatrice. Napoleone ancora forte e potente negli eserciti, ancora grande nei guerrieri consigli, ancora fortunato nelle magnanime intraprese, dopo il successo delle battaglie di Abensberg e di Landshut, rannodò alcune divisioni della sua armata e dell’armata bavara e virtemberghese, e con un formidabile esercito scagliossi furiosamente sull’esercito dell’arciduca Carlo campeggiante nelle vicinanze di Eckmühl. Il giorno 23 terminava questa lotta di cinque giorni con la presa di Ratisbona, e col sospingere Carlo in Boemia. Napoleone avea stremato le forze austriache di forse 60000 uomini, e di oltre a cento pezzi d’artiglieria.

L’infausto avvenimento fu annunziato per li corrieri. Udillo con umido ciglio l’arciduca Giovanni nei primordii delle sue vittorie; udillo Chasteler con animo agitato nel colmo della fortunata sua spedizione. La notizia, tenuta celata colla massima gelosia, si sparse lentamente negli austriaci popoli e nelle austriache armate. Queste sbalordirono di maraviglia, quelli trepidarono per timore. Qual sensazione abbia prodotto nell’animo de’ tirolesi è più facile immaginare che descrivere, massime se si considera, ch’eglino si credevano oggimai consolidati nel procacciatosi novello destino.

La ritirata dell’arciduca Carlo, da cui dipendeva la somma delle cose, atterrava i trionfi dell’esercito, che omai signoreggiava in alcune provincie dell’Italia, arrestava la vittoriosa marcia del corpo di Chasteler, che insieme coi tirolesi sollevati dovea a quello congiungersi nel territorio di Verona, e produceva per soprassello la ritirata dell’uno e dell’altro.

Ritiravasi adunque dalle conquistate terre l’arciduca Giovanni, ritiravasi a presti passi il Chasteler dai confini del Tirolo, chiamati ambidue dall’aulico consiglio di guerra, il primo a difendere la metropoli dell’austriaca monarchia minacciata dal celere avanzamento di Napoleone per la sponda destra del Danubio, il secondo a porgere un sollecito soccorso all’armata manomessa dell’arciduca Carlo. Queste ritirantisi armate venivano perseguitate dalle nemiche, e conseguentemente rientrava dall’Italia nel Tirolo con cinque mila napoleoniani il generale Rusca, surrogato a Baraguey d’Hilliers, chiamato dal vicerè ad altra destinazione.

Il movimento retrogrado di Chasteler presagiva ai tirolesi una serie spaventevole di novelle sciagure, e copriva il paese di lutto universale. Al rumore degli ardimenti, alle narrate allegrezze, ai riportati trionfi succedeva pertanto nei primi giorni di maggio il silenzio, la trepidazione e l’abbattimento di tutti. Gli armati avviliti e confusi mandavano dall’imo del cuore addolorato sospiri, piangendo il sangue inutilmente perduto; la plebaglia si abbandonava, in mezzo ai lamenti, alla precipitosa risoluzione di ostarsi persino forzosamente alla ritirata degli austriaci, che Chasteler conduceva fuori del Tirolo, commettendo, massime ad Hall, de’ disperati eccessi; i vecchi e gli inermi gettavano un pietoso sguardo sull’opre gloriose dei figli e de’ fratelli, le quali omai giudicavansi cadute a voto, in ispecie da coloro che le cose misuravano col compasso della prudenza e della riflessione; le spose deponevano fra i singhiozzi, la rabbia e il dolore, le trionfali ghirlande approntate per decorare i loro mariti, temendo oggimai ancor esse, che gli onorati allori dovessero cangiarsi in funebri cipressi. Ma andrebbe errato chi si facesse a credere che la spaventevole catastrofe di Eckmühl, la ritirata sforzata dell’arciduca Carlo, e quella volontaria dell’arciduca Giovanni, l’abbandono di Chasteler, e l’avvicinamento dell’armi napoleoniane alla capitale dell’Austria, potessero aver spenta intieramente nei tirolesi petti la lusingatrice speranza, e gli avesse indotti a deporre le armi. No. La speranza germinava tuttavia nei loro cuori: il pensiero poi, che nella provincia rimaneva un polso di regolari a piedi e a cavallo, lasciato da Chasteler per conservare possibilmente la di lei difesa, contribuiva a maggiormente fomentare quella dominante passione, i cui terribili effetti saranno lacrimevole e maraviglioso soggetto dei seguenti capitoli.

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