CAPITOLO IX.

Maraviglia generale pel novello trionfo de’ tirolesi. Loro ostinatezza per la difesa. Hoffer assume la dittatura della provincia. Suoi decreti e ordinamenti pubblici. Monete coniate a suo ordine. Distribuzione delle forze difenditrici capitanate da Spechbacker, dal cappuccino Haspingher e da altri comandanti. Il general francese Rusca viene battuto e fugato da Lienz colla sua colonna di quattro mila uomini. Così avviene in Trento del generale francese Dazmair, che ritirasi in sul Veronese. Con esso lui fuggono da Trento a Rovereto i bavari impiegati superiori, pel timore de’ sollevati tirolesi. Erezione di nuove compagnie di difesa. Ricomparsa improvvisa del generale Dazmair in Rovereto, e sue militari posizioni in vicinanza a questa città. Mischia avvenuta sui colli di Vallunga, e nuova ritirata di Dazmair, che viene impedita a Serravalle da’ comandanti Garbin e Dalponte. Quiete dell’armi, e vessazioni fatte dai sollevati forestieri. Guasto del palazzo del barone Orazio Pizzini di Rovereto.

La splendidissima vittoria riportata dai tirolesi sopra Lefebvre veniva non solo solennizzata nella provincia, ma risuonava ben anche con onore per le nazioni d’Europa. Ma tanta vittoria sortirà poi effetti conformi ai sostenuti sacrifici? Conserveranno i tirolesi, senza il sostegno dell’Austria, i riportati vantaggi ? Potrassi egli credere che i trionfi e l’ambizione dell’imperatore Napoleone lascieranno impuniti, o metteranno in non cale le sconfitte e l’avvilimento che ai suoi alleati e alle stesse sue truppe vennero per essi recati? Queste riflessioni destavano generalmente la pietà degli accorti ed imparziali ammiratori del Tirolo, in vederlo sì ostinato persistere da per sè solo in una difesa, che secondo l’umana previdenza non potea riuscire che ad infelice partito; e fermavano più che mai l’attenzione di quei tirolesi medesimi, alla cui sagacità e prudenza si presentavano i movimenti pericolosi e fatali, che fuori della provincia si apprestavano a di lui danno. Ma i sollevati, nella massima parte uomini oscuri e di corto intelletto, ma che avevano caldissimi cuori e forti anime per la patria, o non sapevano, o non voleano persuadersi, che nelle guerre le armi della virtù non vincono le armi della forza, e che si trovavano in lizza col più potente sovrano del mondo, il quale, a fronte delle forze impiegate nella sospesa guerra coll’Austria, resisteva contro la grande sollevazione della Spagna, sebbene sostenuta dall’Inghilterra, e che da quelle istesse terre, su cui di recente aveva trionfato, già volgeva ad essi il feroce pensiero di pienamente conquiderli con parte di quegli eserciti, che poc’anzi aveano depressa la potente Casa d’Austria.

Lontani i sollevati tirolesi dal pensare a sì tremendi apparecchi, che avrebbero costernato un potentissimo regno, orgogliosi della vittoria, ad altro non dirizzavano i pensieri, che a voler liberare intieramente la provincia dal nemico, il quale in qualche sua parte ancora la premeva, e a veder sistemata una provvisoria reggenza. Hoffer, nel giorno della sua entrata trionfale in Innsbruck, dopo sconfitto Lefebvre, otteneva dal tacito voto della levata nazione, o pur assumeva da per sè il potere di tutta la provincia. Prima di tanto carico egli si sottoscriveva «Comandante superiore della Passiria e del Tirolo meridionale,» e dal giorno 15 d’agosto si denominava «I. R. Comandante superiore del Tirolo.» Egli stabilì il suo alloggiamento in Corte, e dalla dittatoria sua residenza emanava decreti per l’amministrazione civile e militare, e fece anche coniare delle monete di buona lega. Come supremo regolatore dell’armi distribuiva la gran massa dei difensori in questo modo: nelle vicinanze di Unken e di Lofer, e nei monti salisburghesi verso la Carintia e la Stiria superiore, avevano il comando i famosi Spechbacker e Haspingher; la gente levata nella Pusteria era affidata al coraggioso Filippo de Wörndle, avente sotto i di lui ordini Battig, Kolb, Luxheim il venturiere, e Antonio Steger, l’ultimo de’ quali era alla direzione delle genti di Sillian, di Sexten, e di Lienz, le quali, nel mentre il duca Lefebvre battagliava in sulle sponde dell’Enno, aveano cacciato da quest’ultima città e fugato oltre i tirolesi confini il general Rusca colla sua colonna di 4000 combattenti, cagionandogli una perdita di circa 1000 uomini fra morti e feriti, perdita ben meritata in rappresaglia del sacco, degli incendii e delle uccisioni da lui permesse a’ suoi soldati tanto nella città di Lienz, quanto nel contado. Nel Tirolo meridionale fu commessa la somma delle cose a Giacomo Torgler, comandante le compagnie calate a questi giorni da Bolzano per iscacciare i napoleoniani, stanziatisi sino dal principio d’agosto nei territorii di Trento e di Rovereto.

Il generale francese Dazmair, che avea la sua stanza in Trento, seppe per gli suoi esploratori, che i sollevati si accostavano, e disponeva quindi la sua truppa per arrestare il loro avanzamento. Ma quelli il giorno 18 comparivano arditamente in sui colli che signoreggiano la sottoposta città; le due parti venivano a battaglia, e si ostinavano col ferro e col fuoco. Insuperbiti gli assalitori dalla grande vittoria riportata sopra Lefebvre, induravano nell’impresa, vaghi d’emulare nel valore l’esempio de’ loro compagni, che difendevano la regione settentrionale. Gli assaltati impiegavano tutte le loro forze per propulsarli, e per conservare il possesso della città. Durante la mischia sorgeva fra gl’impiegati bavari e i bavari partitanti, gran timore di essere molestati nelle sostanze e nelle persone, qualora i napoleoniani abbandonassero al solo arbitrio dei sollevati la propugnata città. A ciò mirando i bavari rettori ordinarono la chiusa di tutte le regie cancellerie politiche e giustiziali, e i primarii magistrati partirono dalla contrastata città, e in detto giorno capitarono a Rovereto, e di qui insieme ad altri ripararono tosto a Verona, cagionando coll’improvvisa loro comparsa e rapidissima fuga non poco spavento ai roveretani, affatto nuovi di quest’ultime scene.

Poco dopo una grossa turma di sollevati delle valli di Non e di Fiemme, spintasi sino all’Acquaviva ed al castello della Pietra, avea rotta la strada postale, erette palizzate ed impedito al nemico la comunicazione col piccol presidio di Rovereto, che a tale mossa si ritirò verso Ala. Le avversarie parti disputavansi intanto aspramente l’acquisto di Trento, per cui nei giorni 19 e 20 veniva rinnovellato il conflitto. Forte stava Dazmair, che con gagliarda resistenza dei suoi fronteggiava la massa assalitrice, che superiore d’assai in numero obbligava i napoleoniani, che sommavano a 1000 soldati circa, con venti cavalieri e tre cannoni, a cedere la città, volgendosi nel dì 21 con rapido passo a Rovereto, conducendo seco tre prigionieri tirolesi, fra i quali un vecchio, che pel peso degli anni appena poteva reggersi in piedi. Refrigeratisi alquanto in sul Corso nuovo proseguivano alla volta di Ala la celere marcia, temendo, col far alto nella valle Lagarina, un qualche mal giuoco da parte dell’ardita massa, della quale in detto giorno comparve in Rovereto un qualche centinaio d’uomini, e nei dì susseguenti altri 400 o in quel torno, restando la forza maggiore in Trento e nel suo contado.

Il nuovo moto del Tirolo tedesco si dilatava nel Tirolo italiano, tirolesi eccitavano tirolesi, e quasi in ogni comune si formavano spontaneamente nuove compagnie di difesa. Essi ideavansi omai che il Tirolo, abbandonato dall’Austria in virtù dell’armistizio, e dalle tirolesi armi tuttavia difeso, potesse in appresso reggersi a popolo, oppure venire ceduto, col pendente trattato di pace, all’Austria medesima, o ad un principe di quella casa. La chimerica illusione metteva fatalmente in non cale le minacciose armate napoleoniane e bavaresi, che già venivano circondandolo, e tesseva conseguentemente un’inevitabile serie di mali alla politica sua esistenza.

In questi giorni si reggevano le cose, massime nel Tirolo meridionale, senza civile prudenza e militare consiglio, ma solamente col disordine dell’anarchia: la somma delle cose era venuta quasi del tutto in mano di uomini di bassa fazione, secondo avviene nei paesi tumultuosi, in cui la prudenza viene soffocata dalla temerità; e però quei capitani, che per disposizione del cessato comando militare, e della non più esistente reggenza provvisoria dell’Austria erano stati dal nuovo ufficio deposti, eressero anch’essi, colla nuova leva proclamata dalla dominante nazione, nuove compagnie di difesa, nelle quali furono per soprassello arrolati illimitatamente anche di quegli stessi facinorosi e disertori, che l’onor nazionale avea alcune settimane prima banditi dalla massa dei legittimi difensori; altra circostanza, per cui il Tirolo diveniva stanza funesta di spavento e di dolori.

La schiera del generale Dazmair non aveva appena messo piede infra gl’italici confini, che fece risoluzione di voltare le spalle, e di venir un’altra volta a reprimere il popolare furore che allontanolla dal territorio trentino. Essa rientrava in Tirolo il giorno 23 agosto, e il dì seguente minacciava Rovereto, che verso il mezzodì ne presentiva la venuta dal ritorno degli ufficiali dei difensori tedeschi, che con tutte le loro genti quietamente viaggiarono a Trento. Era di poco valicato il meriggio, quando di repente udivasi gridare per le cittadine contrade: i francesi! i francesi! L’udire le grida, il comparir alle finestre delle persone, e il veder correre confusamente di qua, di là, di su, di giù i pochi sollevati della valle di Fiemme, restati a guardia in Rovereto e ne’ circostanti luoghi, era tutt’uno. L’improvviso avvicinamento dello sdegnato nemico, la mancanza dell’ordine e di un condottiere li ponevano in dirottissima fuga. Chi correva la strada postale, chi andava oltre l’Adige ad unirsi alle proprie compagnie, e chi prendeva la via dei monti per gire a Trento, dove stanziava il grosso delle forze. Alcuni di essi, erano circa venti, con mal consigliata bravura, corsero in sul borgo di San Tommaso per fronteggiare il nemico; ma quando seppero che i loro compagni eran già partiti, che la città era scema di difensori, e per buona loro ventura scopersero avanti la chiesa di Nostra Signora del Carmine due cavalleggieri del vicino antiguardo francese, che entravano di galoppo; furibondi per lo spavento, altri salirono una carrozza ivi apprestata, e a rompicollo avviaronsi a Trento; altri affidaron la loro salvezza alla velocità delle gambe, o si mescolarono, dopo aver nascoste le armi, colla folla dei cittadini accorsi ad ammirare la nuova scena. Entrarono poscia quietamente i napoleoniani, prima i cavalli, indi i fanti, con quattro cannoni, e presero alloggiamento sul Corso nuovo, postando alcuni drappelli verso Volano, e sulle vicine colline, ed alla guardia dei porti di Sacco e di Villa.

I sollevati fatti grossi per le bande sopravenute dalla valle del Sarca, campeggiavano a squadre sopra i luoghi eminenti agguatati della riva destra dell’Adige, e sulle colline a sinistra. Quelli a destra, che il tragitto di Sacco guardavano, tempestando incessantemente contro la piazza e le case che guardano a sera, ferirono un capo-battaglione italiano, che cadde svenuto a fianco del generale colà recatosi per esplorare il varco del fiume.

Questo stato di cose non ebbe per altro lunga durata. I difensori rinvigorivano nella loro stanza principale di Trento, e quivi i loro capi deliberavano di volere scacciare fuori del Tirolo i napoleoniani annidatisi nel roveretano distretto. A tal effetto calavan essi da Trento in alcune riordinate compagnie, e il dì 26 a mezza mattina s’univano alle squadre dei primi posti, e ricomparivano in gran numero in sui monti orientalmente propinqui a Rovereto. Avuto il generale francese l’annunzio della loro mossa, mandava tosto in sugli stessi monti alcuni distaccamenti per respingere la discesa che quelli tentare volessero. I colpi della moschetteria, poco dopo tirati, avvertivano la sottoposta città, che le parti s’erano avvicinate, e svegliavano gran timore, che sarebbe presto spettatrice di qualche tragico avvenimento. All’insorto timore conseguitava un chiuder di botteghe e di porte, e la solita curiosità nei cittadini, che a gruppi salivano sui tetti, ed alle più alte finestre, per osservare l’andamento della marziale contesa, che avventurosamente riusciva di poco momento, dappoichè il vicendevole scaramucciare, durato sino ai vespertini crepuscoli, non cagionò nè mortalità, nè tampoco gravi ferite. In conseguenza le combattenti parti rimanevano, in sulla sera, nelle primiere loro posizioni.

Nella seguente notte grande fermento pullulava fra i sollevati, segnatamente fra i due corpi stanziati a Mori, e nei circostanti luoghi, e comandati dai capitani Dalponte e Garbin, i quali nel giorno precedente aveano ordito il progetto di serrare l’inimico entro la valle Lagarina. Per conseguirne l’intento il Dalponte colla sua gente e con alcuni uomini del battaglione di Garbin, passato l’Adige a Serravalle, fra le notturne tenebre, si estese verso Marco in sulle alture fronteggianti la strada postale, a traverso della quale ei fece scavare una gran fossa, per impedire così o sospendere per alcun tratto il passaggio dei cavalli e delle artiglierie.

Il dì 29 le frotte ogn’ora più crescenti dei sollevati battagliavano su tutti i punti contro i francesi, che messi in qualche confusione e pericolo di non trovare più uscita, parea volessero trarre qualche partito di difesa dal roveretano castello e che, tenuto consiglio, avessero divisato ritirarsi verso Vicenza per la via di Vallarsa, occupata da una turma di rivani ed archesi comandati dal capitano Coffler, detto il Frustagobbo, di Riva.

Dazmair, avuto avviso per una sua spia delle nuove compagnie di tirolesi, che a presti passi calavano da Bolzano, congregava la stessa sera le sue truppe in Rovereto, e il dì appresso pria che aggiornasse prendeva il celere cammino per Ala. Marciando la fuggitiva colonna fra Marco e Serravalle, veniva inopinatamente assalita da una grandine di piombate, che la gente del Dalponte schierata in sulle alture vibrava. Continuava essa tuttavia la precipitosa marcia verso Serravalle, quando vicino a questo paese s’imbatteva nell’impreveduto inciampo della fossa, per cui fu costretta di far alto sin tanto che dai zappatori veniva otturata. In questo mentre il Garbin, rimasto colla sua gente in sulla sponda destra dell’Adige, udiva il fracasso della moschetteria del collega Dalponte, e giusta l’accordo correva ad occupare il rivellino eretto presso il porto di Serravalle con sedici uomini, i soli che in tal momento avea potuto adunare, avvegnachè gli altri per indisciplinatezza o, come si disse, per la difficoltà delle strade, non erano ancora arrivati. Bersagliava il Garbin col piccolo branco de’ suoi i napoleoniani, e cooperava non meno ad arrestarne la marcia, che a peggiorare la loro situazione. Al fuoco dei sollevati, sì delle alture che del piano a destra dell’Adige, rispondeva Dazmair col fuoco dei cannoni a mitraglia, e degli archibugieri, sforzando a tutta possa la ritirata, che dopo circa due ore potè proseguire colla perdita di verso a quaranta uomini fra morti e feriti, e della sua carrozza, la quale, per essere stato ferito uno dei cavalli, fu abbandonata nelle mani dei sollevati, che la rotolarono trionfalmente per le contrade di Rovereto. Il Garbin, alla testa delle sue compagnie che lo raggiunsero al porto di Serravalle, perseverava nell’inseguirlo sino al Vò, sotto di Ala, cagionandogli e perdita d’uomini, e disordine nella ritirata, ch’ebbe a durare fin oltre ai confini della provincia. Il vantaggio dei sollevati sarebbe stato al certo maggiore se il Garbin avesse meglio eseguito la parte sua, col far cioè arrivare in tempo la sua gente al luogo del conflitto; ma il ritardato arrivo gliene tolse il mezzo, e attraversò l’ideato disegno di far prigioniera l’intera colonna; ei venne perciò tacciato della colpa d’aver violato il partito concertato col Dalponte, taccia che tanto più facilmente gli apposero i tirolesi, in quanto che, essendo egli fuoruscito, e reo d’alcuni misfatti, s’ebbero essi mai sempre sul di lui operare moltissima dubitazione, come meglio racconteremo in appresso.

Qui finiva l’agosto, mese che la storia del Tirolo rammenterà con accenti di gloria, e da pareggiarsi al varcato aprile, per gli assai notabili fatti in esso avvenuti. Colla fine d’agosto la tirolese provincia era quasi intieramente libera dall’armi straniere, ed era quindi governata dalla propria nazione per mezzo di quell’Hoffer, che fu autore principale di tanti bellici trionfi.

Ma al cessato rumoreggiare dell’armi sottentravano in questi stessi ultimi giorni le furfanterie di tal gente, che, approfittando o della debolezza del nazionale reggimento, o della confusione delle cose, volea dare sfogo alle malvagie proposte di rapinamenti e di vendette birboneggiando a lor grado nell’infelice Tirolo italiano. Parecchi furono i casi commessi dal tristo procedere de’ tanti avventurieri, di cui parlammo di sopra, e maggiori sarebbero stati, se il cappuccino Haspingher ed altri capi non avessero colla forza attraversati i neri loro disegni. Io ne racconterò un solo, accaduto sotto i miei sguardi, per fornire così ai leggitori un’idea della tracotanza che dominava in quell’abbominazione di sedicenti difensori.

Il giorno 30 di agosto, un’ora dopo il meriggio, affollavasi in Rovereto, dinanzi al palazzo del barone Orazio Pizzini, già emigrato a Verona, una turba di individui, che ben lungi dall’essere accorsi per difendere la patria, si frammischiavano agli onesti per mandare ad effetto gli arditi loro misfatti. Essendo questo barone il bavaro amministratore camerale del distretto, prorompevano contro la sua persona in mille sorta d’ingiurie e di villanie, tacciandolo da succhiatore dei loro sudori. In sulle prime, per suggerimento di molti altri che avvivavano di soppiatto la fiamma, pretendevano del vino, che volentieri assieme ad altro veniva lor dato; ma alquanto avvinazzatisi, maggiormente infuriavano. Al furore succedeva un poco di calma per opera di alcuni cittadini, e di un qualche uffiziale, o capo di sollevati, e i suscitatori sembravano disposti a non tentare più oltre; quando, a rincalzare la vacillante petulanza di quella bordaglia, sopravvenivano altri furfanti d’assai peggiore farina, e fu gridato: «saccheggio.» La turma diveniva oggimai indomabile, e frustranee si rendevano tutte le premure de’ buoni per acquietarla. Alcuni furenti, rotta la calca, si appressavano alla porta del palazzo, mazzicandola con ismoderati colpi, nel mentre che alcuni altri tiravano cogli archibugi nelle imposte delle finestre, e di una portina dell’orto vicino. In vano si frammettevano e comandanti ed ufficiali delle varie compagnie per frenare il disordine; le persuasioni e i loro comandi non più erano valevoli ad abbonacciarli. Omai la furia sopravanzava la voce della ragione, ed il fracasso ognor più crescente delle archibugiate non permetteva alla parte pacificatrice d’intramettersi colle esortazioni. Cresceva l’orrore, cresceva lo spavento. I cittadini e gli uffiziali frappostisi per ricondurre i traviati a buon termine, fuggivano, e in poco d’ora lo strepito della moschetteria si confondeva col serra serra universale della spaventata città. L’infernale schiamazzo durò quasi un’ora, sino a tanto che riuscì agli empii di atterrare l’accennata portina, indi quella del palazzo. «Sono settecento anni (esclamava avanti quest’ultima un frenetico sollevato bresciano) che comandano i signori; oggi vogliamo comandar ancor noi, povera gente;» e il proferir queste parole, levar dalle spalle il suo archibugio, sparare nella serratura della porta e sfondarla, fu l’opera d’un sol momento. I furibondi vi si slanciavano dentro l’un sopra l’altro; correvano quindi tutte le camere, rompendo usci, specchi, lumiere, armadii, fornimenti, forzieri, quadri, stracciando dalle pareti le tappezzerie, ed involando tutto il bello ed il buono che veniva alle lor mani. Non fu avuta a riguardo la venerabile persona di monsignor canonico e prelato, fratello del barone, e d’un altro sacerdote suo famigliare: non la povertà dei servidori, spogliati anch’essi di tutto, e maltrattati per sopraggiunta, perchè con dolce modo voleano impedire tanta rovina. Chi dopo lo spettacolo entrava in dette camere, non poteva non mettere il piede fra rottami, calcinacci e sfasciumi; ognuno sbalordiva, ed indegnavasi a favore di quel magistrato, conosciuto per uno dei più giusti ed illibati.

Per una buona ventura, durante quel detestabile misfatto sopraggiungeva da Trento una compagnia de’ difensori tedeschi di Bolzano: questa attorniava bravamente il palazzo, ed agiva in modo, che quella sozza canaglia a scavezzacollo si diede istantemente alla fuga. Per essa, e per opera d’un certo soprannominato il Futre, terribile magnano delle fucine di Sacco, messosi alla testa d’altri risoluti, veniva strappata dalle mani dei vili fuggenti moltissima roba, ed alla casa tantosto restituita. La sera sopravvenne un’altra compagnia di bolzanini, e fu posto quiete nella città; tutta notte fu fatta la ronda da molte pattuglie, ed i capitani disposero in modo che non s’avessero per parte dei tristi a rinnovare altri simili misfatti, già progettati contro altre case da essi nominate giacobine. Rovereto conserverà mai sempre gratissima ricordanza dei buoni e fedeli difensori di Bolzano, che col loro coraggio sottrassero e guarentirono la desolata città da più deplorabili e non meno certe sventure.

Il giorno dopo, sebbene la città riposasse tranquilla per la lodevolissima disciplina e moderatezza, che rendea amabili a tutti i tirolesi tedeschi; tuttavia le incessanti requisizioni che d’ogni cosa andavano facendo con spaventose minacce i sollevati italiani (da cui si temevano nuovi soprusi, se mai i tedeschi si fosser partiti), consigliarono i cittadini a proporre, sull’esempio di Trento, il riordinamento della lor guardia per rioni, a fine di vegliare alla pubblica quiete. I tirolesi guardavano non pertanto il palazzo pretorio; al ponte ed al bivio che da Santa Maria mette in sulle strade per Ala ed a Riva, rizzarono gli abbattuti ripari di difesa, stabilendovi i loro picchetti. Le cittadine contrade vennero per più notti illuminate con lanterne esposte da ogni famiglia, e le disturbatrici masnade degli arrolati italiani si recarono in massima parte verso i confini, e sul tenere delle cittadelle d’Arco e di Riva.

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