Disposizioni d’Andrea Hoffer per la difesa. Erezione di nuove compagnie. Manifesti e meriti di Andrea. Sue provvidenze contro i malvagi e stranieri difensori a sollievo dei Comuni, che da essi venivano vessati di requisizioni ec., e contro la scostumatezza in generale. Speranze del Tirolo sul pendente trattato di pace. Diversi capitani si arrogano il primato del comando nel Tirolo italiano. Arresto dei capitani Dalponte e Garbin. Preparativi napoleonici per debellare il Tirolo. Le speranze di pace si allargano. I difensori di Bolzano si ritirano, ringraziano con lettera il Magistrato di Rovereto, e tornano ai loro focolari. Nuove colonne di napoleonici rientrano nel Tirolo italiano, capitanate dal generale Peyri, e per orribil modo sbarattano i sollevati da Trento. Minaccie ai pietosi trentini. Loro fortezza e magnanimità. Conflitto e saccheggio di Lavis. Cruda tragedia appresso quel ponte. Mittempergher avventurosamente si salva. I sollevati prendono posizione presso San Michele. Ritorno di più capitani alla difesa che al momento dell’armistizio aveano abbandonata. Funzione in Innsbruck per le decorazioni da Francesco accordate ad Hoffer e al cappuccino Haspingher.
Timoneggiava Hoffer il combattuto naviglio della tirolese provincia, e s’argomentava studiosamente di bene accomodare e rinforzare le vele per affrontare il minacciato naufragio, ed entrare felicemente in quel porto, che la sua immaginazione gli faceva abbagliatamente vedere. Ei ben sapeva che forza richiede forza, e che senza questo potente mezzo vani sarebbero tornati tutti gli altri sforzi, tutte le altre cure; e perciò egli bandiva dalla sua sede l’ordinazione seguente:
«Tirolesi, cari fratelli!
«Una persona di confidenza della Corte imperiale regia austriaca giunse oggi nel mio quartier generale, dopo aver fatto il viaggio dall’Ungheria fin qui nello spazio di sette giorni.
«I dispacci seco recati da fonte sicura contengono nell’essenziale quanto segue:
1.º La possente Casa d’Austria, la cui grande armata calcolata all’incirca conta più di 300000 uomini, senza i corpi considerevoli delle LL. AA. II. gli arciduchi Giovanni e Ferdinando, e senza l’insurrezione ungherese, e la milizia della Boemia e dell’Austria, ha non solo osservato l’armistizio conchiuso dalla sua generalità, ma è persino entrata in negoziazioni di pace: tuttavia
2.º Questa Casa è assolutamente e sempre intenta a sostenere con energia anche per l’avvenire in una o l’altra maniera vantaggiosa le sue fedeli provincie del Tirolo e del Vorarlberg in modo che questi paesi vengano conservati come la perla de’ suoi Stati, od almeno per un principe della Casa d’Austria.
«Tocca ora a voi, cari fratelli, di persistere costantemente ed infaticabilmente nella vostra perseveranza a difendere la patria fino alla conclusion della pace, oppure, se questa non venisse conchiusa, fin a tanto che arrivino i soccorsi d’ogni specie dall’I. R. Casa d’Austria; giacchè il signore di tutti i re e monarchi ha benedetto fin qui così evidentemente tanto il principio che la continuazione della nostra difesa contro i nemici distruggitori di tutto, e che certamente non mancherà di benedirne anche la fine.
«Affinchè però la divina benedizione ci sia costante sino alla fine, il Comando superiore attende ubbidienza illimitata nell’esecuzione degli ordini, quiete, ordine, e un probo contegno in generale da parte dei difensori della patria, i quali devono al primo eccitamento portarsi tosto sui punti minacciati, potendo essi d’altronde far conto sull’esatta percezione delle loro paghe, giacchè S. M. l’Imperatore d’Austria si è ora di bel nuovo clementissimamente degnato di assicurare non solo il rimborso delle medesime, ma eziandio di tutti i danni della guerra a dovere rilevati, qualunque nome possano essi avere.
«Finalmente viene impartito l’ordine preciso a tutte le Superiorità giudiziali di passare sul momento all’organizzazione delle Compagnie secondo la prescrizione, con chiamarvi a parte i Sindaci, ovvero delle Deputazioni in mancanza di questi, e di dedicarsi in particolare con tutta premura a quest’affare; poichè tralasciando di ciò fare, dovrebbero ascrivere a sè stesse, se venissero riguardate e trattate come nemici della patria.
«Il presente ordine sarà pubblicato da tutti i pulpiti, ed affisso in ogni Comune.
«Innsbruck, il primo settembre 1809.
«Dall’I. R. Comando superiore in Tirolo
«ANDREA HOFFER.»
Inclinata la moltitudine piuttosto all’impeto ed all’audacia, che alla prudenza, e già dominata dagli stessi sentimenti che dirigevano le azioni dell’amato comandante, prestava pronta e pressochè generale ubbidienza. Quasi tutti i Comuni erigevano nuove compagnie, e uomini d’ogni classe volontariamente si prestavano all’ordinata iscrizione. Sorsero le compagnie dei capitani Chiusole e Fenner da Calliano e Besenello; Sambenico da Mori; Isotta da Nago; Frizzi e Azzolini da Rovereto; Graziadei, Molini, Nocher della Valsugana; Bertelli da Riva; Santoni da Ceniga; Bellotti, Rensi, Rella e Danieli da Folgaria; Angeli, Papaleone, Zuech e Costanzi dalla Val di Non; Conzini, Campi, Steffenelli, Dalponte, Collini, Chesi e Toffanetti dalle Giudicarie; Birti da Trento; de Schatzer e Morandel da Caldaro; Platider, Widmann, Gugler e Trojer da Bolzano; Scartazini, Zannoni, Joris, Felz, Oltenburg, Zeimer, Zambelli, Saccardo, Torgler, Schweigl, Jening e Banal di altri ignoti comuni; oltre alle compagnie di Fiemme, di Cartasch, di Termen, di Griez, di Lavis ed altre.
Da questa descrizione si può di leggieri dedurre il numero grande dei difensori, che ai cenni di Andrea pigliarono a questo tempo le armi per respingere un nemico, che faceva tremare l’Europa. Hoffer era omai divenuto valoroso di fatti, e famoso di gloria, e queste virtù faceano sì, che i suoi ordini erano dal maggior numero venerati, e osservati come i decreti di un legittimo sovrano. Maestoso della persona, di età virile, di candida natura, e venerabile, per la liberazione del Tirolo dal bavaro giogo, avea egli intrapreso nel mese di febbraio un misterioso viaggio a Vienna, e procuratosi il modo di mantenere a quello scopo un segreto carteggio con ragguardevoli personaggi, e persino con principi dell’Austria. Tutto ciò contribuiva a guadagnargli l’amore, l’ubbidienza e la stima dei Tirolesi, massime di quelli di bassa fazione e contadinesca, che il maggior numero appunto formavano. All’ubbidienza venia fatto puntello eziandio colle massime della Religione, le quali inspirano quel sublime entusiasmo, che infiamma i cuori, e li rende benemeriti della virtù e della patria. Udiva e scorgeva il virtuoso Hoffer assecondati quasi generalmente i suoi disegni; ma la compiacenza che ne sentiva gli era amareggiata dalle tristi relazioni, che di giorno in giorno a lui pervenivano intorno alle requisizioni, alle contribuzioni, alle vendette, ai saccheggi, ed alle altre turpitudini che commettevano i maligni, di cui facemmo dianzi menzione. L’amore di patria che costoro ostentavano era contaminato dalla più ingannevole ipocrisia: alieni dall’osservanza della religione, dell’umanità e della giustizia, che sono gli altari inviolabili del patriottismo, e che erano gli indivisi compagni dei veri difensori tirolesi, facevano invece alzare impunemente la fronte al mal costume ed al vizio, abusando delle armi, che i tempi aveano poste nelle lor mani. Invano gridavano i privati, invano menavan lamenti i Comuni, invano si frammettevano col loro potere le distrettuali autorità, invano si querelavano i veri difensori, che l’onor nazionale vedevano compromesso appresso le nazioni straniere. Le malvagità di costoro imbarazzavano altresì l’interessante oggetto della patria difesa: per esse la generale emulazione, la necessaria armonia, il comune eroismo erano frastornati, talchè se la nazione non veniva soggiogata per l’imperiosità della forza nemica, dovea un giorno perire per causa dei tristi, che quel germe pestilenziale aveano fatalmente introdotto. Contro tanti disordini prendeva finalmente il Comandante delle provvide misure, alzando l’autorevole voce così:
«Dilettissimi tirolesi italiani!
«Sento con dispiacere, che voi foste trattati assai malamente dalle mie truppe.
«Io vi dirigo ora, miei cari e bravi connazionali e fratelli d’armi, un Proclama, affinchè i veri benintenzionati sappiano per l’avvenire, e con mostrare quest’Ordine, mettersi in guardia contro i malintenzionati.
«Il mio cuore sincero, che con voi tutti pensa lealmente e rettamente, abborrisce le orde dei ladri e i saccheggi, abborrisce le requisizioni e le contribuzioni, ed ogni specie di dispiacere e di pretensione verso coloro, che portano il peso dei quartieri: nessuna di queste vili azioni trova luogo nel mio cuore patriottico.
«Ciascun bravo e probo difensor della patria deve guardarsi dal macchiare ed offendere il suo onore, e il suo amore verso del prossimo, per cui potremmo attirare su di noi l’indignazione di Dio, il quale ci protegge così evidentemente e miracolosamente.
«Cari fratelli d’armi, ponderate da voi stessi. Contro chi entriamo noi in campo? contro nemici, o contro amici? Noi combattemmo contro nemici, e combattiamo ancora: ma non già contro i nostri fratelli, già d’altronde oppressi ed esausti.
«Riflettete, che noi dobbiamo comportarci come fratelli verso i nostri simili, che non possono portare le armi. Che direbbero i presenti ed i posteri di noi, se non adempissimo con tutta scrupolosità questi doveri? La gloria di tutti i tirolesi andrebbe in polvere.
«Cari connazionali! Il mondo tutto stupisce dei nostri fatti; è già eternato il nome dei tirolesi: l’adempimento solo dei nostri doveri verso Dio, la religione, la patria ed i nostri fratelli, mette il sigillo a tutto il nostro operato.
«Valorosi fratelli d’armi, e connazionali! porgete ardenti preghiere al Creatore di tutte le cose, che può proteggere, ed annientare i regni, che sa trasformare il più piccolo popolo in eroi, e trionfare degl’invincibili.
«Se mai i nemici della nostra patria, distruggitori d’ogni cosa, volessero ancora tentare di sturbare la nostra pace, adesso per allora eccito tutti i sacerdoti, ed anche quelli che non possono portare le armi, a sostenere con ogni possibilità le mie truppe; e quelli che non possono fare nè men questo, a pregare Iddio a mani giunte, che voglia benedire le armi nostre.
«Inoltre faccio io pubblicamente noto a tutte le comuni, città, borghi, ville, ed alle mie truppe, che siccome son nati tanti disordini, attesi i molti comandanti che si sono da sè stessi intrusi senz’autorizzazione alcuna; ora in assenza del sottoscritto è stato nominato il signor Giuseppe de Morandel di Caldaro nel Tirolo meridionale in qualità di Comandante legittimo e autorizzato; ed in conseguenza di non prestar fede a nessun Proclama, Ordine, Disposizione, o a qualunque altro comando, se questi non sono sottoscritti dal sunnominato signor Giuseppe de Morandel, ovvero dal sottosegnato Comandante superiore.
«Bolzano, li 4 settembre 1809.
ANDREA HOFFER.
Comandante superiore in Tirolo.
Le minaccianti esortatrici parole dell’Hoffer non bastavano a mitigare il serpeggiante disordine; costretto quindi dalla necessità e dall’importanza della bisogna, deliberava di aspreggiare l’esecuzione delle decretate provvidenze.
Frattanto Jacopo Torgler, Giuseppe Schweigl, e Antonio Jaenig, i quali due ultimi al primo eransi uniti nel comando superiore del Tirolo italiano, ordinavano sul principiare di settembre alle locali autorità, in sequela all’ordinazione emanata dall’Hoffer, la pronta erezione delle compagnie in tutti gli italiani comuni, che non aveano ancor dati difensori, e commettevano contemporaneamente a tutti i parrochi l’esposizione del Santissimo Sacramento nel dì 10 dello stesso mese per dieci ore, e per un’ora nei giorni susseguenti, a fine di ottenere la benedizione dal Cielo, e la continuazione della grazia atta a difendere e proteggere le patrie armi, e a tener lontano dalla vessata patria l’odiato nemico.
Quest’ultimo ordinamento spirituale ebbe la bramata esecuzione; ma il primo incontrò gravissimi ostacoli per la già toccata essenziale circostanza, che volendosi effettuare una leva in massa in comuni confinanti o vicini ad uno sdegnato e potente nemico, da cui furono, o potevano essere di frequente assaliti senza una permanente difesa, si avrebbero esposti i loro abitanti alle conseguenze d’una furibonda vendetta. Molti tuttavia concorsero con aperto pericolo alla chiamata, e molt’altri ne avrebbero seguito l’esempio, se dopo pochi giorni non fosse nata una mutazione di avvenimenti, che sarò per raccontare in appresso.
Fatte da parte di Hoffer queste disposizioni per l’armamento e pel buon ordine, ei volgeva poscia le sue sollecitudini, approfittando dell’attuale silenzio dell’armi, al miglioramento dei costumi, e ad estirpare nel popolo, alle sue cure affidato dalle circostanze dei tempi, alcuni vizii, che a suo avviso erano fortissimi ostacoli per conseguire dal cielo l’implorata liberazione della patria, a cui tendevano precipuamente le zelanti sue cure. Conosceva ben egli, o non gli era lasciato sfuggire da quelli che partecipavano col consiglio al nascente e dittatorio suo governo, che in un popolo divenuto di repente signore di sè stesso, e che non ha la virtù per fondamento, massime nell’adolescenza del suo governo, i suoi vizii crescono di forza e di audacia, non hanno più freno, divengono fatali rovesciatori dell’ordine e della pace, ed aprono persino il varco all’anarchia ed alla totale rovina. Laonde Hoffer in questo santo proposito nei primordii del suo reggimento così parlava, e decretava:
«Se noi abbiamo mai sperimentata la bontà indulgente e salvatrice di Dio verso di noi, egli lo fu al certo nella prima metà del mese di agosto, quando l’aiuto del Cielo ci liberò così visibilmente dalle mani di un nemico che crudelmente soggioga, e che non rispetta nè religione, nè trattati, nè umanità.
«Considerando che i beneficii di Dio ci obbligano alla gratitudine verso di lui, e che le calamità ed i pericoli ci eccitano ad evitare ciò che potrebbe provocare contro di noi la giustizia punitrice di Dio; considerando che anche la società civile può, e deve cercare con tutti i mezzi che sono in suo potere d’impedire con ogni possibilità tutto ciò che può agevolare il vizio, che può e deve togliere gl’impedimenti che ostano alla virtù, ed assicurare e facilitare l’esercizio di questa, e che in ciò concorda al certo la grande maggioranza della nazione tirolese; quindi si è trovato bene di emanare la seguente ordinazione:
1.º «D’ora in poi tanto nelle città che alla campagna, specialmente nelle osterie e bettole d’ogni specie, e presso i trattori, com’anche nelle case private, resta vietata ogni musica da ballo, e i balli stessi, eccettuato il caso di uno sposalizio.
2.º «Nelle domeniche e feste di precetto, durante il solenne servigio divino nelle parrocchie, non devono esser somministrati a nessuno cibi o bevande nelle osterie o bettole, e nè meno nei caffè, fuorchè ai forestieri che arrivassero, o che fossero per partire, ed ai carrettieri. Devono pur anche essere in generale esattamente osservate le ore di polizia, ed i trasgressori irremissibilmente castigati.
3.º «Le superiorità devono ovunque vigorosamente invigilare che cessi quel girar attorno di notte, che così spesso sturba la pubblica quiete, e che è sempre pericoloso per la moralità, e dove facesse bisogno, venga impedito questo disordine mediante pattuglie. I trasgressori saranno arrestati, e castigati secondo le circostanze anche con pene corporali.
4.º «Affinchè i padri di figli illegittimi non possano più in avvenire scansare così di leggieri tutto il peso del mantenimento e dell’educazione di quelli a pregiudizio dei figli stessi e dello Stato, e non riesca così facile ai libertini e seduttori di corrompere le femmine a spese altrui, e persino a spese di pie fondazioni destinate pei poveri, ammalati, ecc., viene ordinato che d’ora in poi, tosto che una donna diventa madre fuori di matrimonio, debba la medesima non solo denunziare al parroco il padre della creatura, ma ben anche darne parte alla rispettiva superiorità. La superiorità deve in seguito chiamare il padre denunziato, esaminarlo, decidere l’affare, costringer il colpevole ad adempire a’ suoi doveri di padre, e castigarlo a proporzione della seduzione da lui adoprata.
«Finalmente tutti i superiori ecclesiastici vengono pressantemente eccitati, ed a tutte le superiorità secolari viene prescritto, che memori dei loro grandi doveri, e della podestà che loro si compete, cooperino con ogni cura, affine di ovunque impedire l’immoralità ed il vizio, e promovere la religione cristiana, e la virtù.
«Innsbruck, li 10 settembre 1809.
ANDREA HOFFER.
«Comandante superiore in Tirolo.»
Con questi suoi detti otteneva Hoffer qualche miglioramento nella moralità dei nazionali, ma piccol frutto ricoglieva presso coloro che la pubblica tranquillità soqquadravano. Avventurieri, facinorosi o malviventi com’erano, non solo poco o niente curavano il dono dei riportati trionfi, e dell’ottenuta libertà; essi l’avrebbero anzi reso pericoloso ancora prima del tempo decretato dal destino, se non avessero incontrata l’opposizione del maggior numero.
A questi giorni le pratiche della pace fra l’Austria e la Francia si avvicinavano, ed apparentemente piegavano ad un buon fine. Anelando i popoli delle due monarchie, e degli altri Stati alla Francia congiunti, di vederne prestamente l’esito, volgevano con attenzione l’occhio della mente a quel luogo dove la gran causa sottilmente si discuteva. I tirolesi molto confidavano in questi trattati. Cresceva fra le loro speranze il lusinghevole pensiero, che l’imperatore Francesco gli avrebbe a cuore, e procurerebbe possibilmente il futuro loro ben essere, già vagheggiato dall’immaginazione dei più. Per la qual cosa con fronte imperterrita e con una costanza superiore al pericolo aspettavano coll’armi impugnate l’imminente destino.
Ma intanto che le armi nemiche tacevano dentro e fuori della provincia, nel mentre gli apparecchi di difesa si mandavano a lor compimento, l’ambizione, passione che tanto domina negli uomini, e massimamente fra i capitani d’armata, funestava l’andamento delle cose, e contribuiva a spianare la via al flagello della patria, già abbastanza oppressa, e pericolante per la potenza del nemico, da cui era minacciata. Non trovandosi a questo tempo nel Tirolo italiano un capitano di difensori, che con azioni distinte s’avesse aperto nei trascorsi fatti il sentier della gloria, e meritata la pubblica stima, e la dignità di godere nel maneggio degli affari la preminenza, come molti se ne trovavano, oltre l’Hoffer, nel Tirolo tedesco; nè avendo il capitano de Morandel ancora assunta effettivamente l’autorità, che il comandante superiore aveagli conferita col manifesto dei 4 settembre; alcuni capitani di gente straniera e malveduta, si arrogavano a vicenda il primato, ed a vicenda continuavano ad ordinare e fare requisizioni, a taglieggiare ed opprimere gli abitanti. Fra gli altri il Dal Ponte, imbaldanzito forse dal piccolo merito acquistatosi nella fazione di Serravalle, fattolo stampare colla violenza, bandiva con mirabile improntitudine il seguente
AVVISO
«Vedendo tanti disordini, cagionati nel Tirolo italiano pel motivo che alcuni comandanti si sono qui introdotti per soggiogare il vostro amatissimo e fedelissimo comandante superiore Dal Ponte, e per aggravare questo povero Tirolo italiano, ma non per difendere la patria,
«Quindi trovasi questo Comando in dovere di ordinare a tutte le città, borghi e villaggi del Tirolo italiano di non riconoscere verun comandante superiore se non che il Dal Ponte, e di non fare somministrazione veruna se non verrà firmata dal sunnominato.
«Ricordatevi, o cari miei fedelissimi Tirolesi italiani, che il Dal Ponte vi accerta sulla parola d’onore, che non ha preso l’armi per soggiogarvi, nè per opprimere le vostre sostanze, nè per sturbare la quiete del Tirolo, ma solamente per difendervi da quelli che non cercavano se non se di derubarvi le vostre sostanze, la santa religione, e perfino la vita medesima. Di più vi promette che colla sua autorità saprà difendervi e far rispettare le vostre persone, case e sostanze, quali tutte verran rispettate sintantochè il Dal Ponte avrà questo comando.
«Orsù dunque, Tirolesi italiani, il Dal Ponte v’invita a prestare tutta l’assistenza per la difesa della patria, non che d’eseguire con prontezza qualunque ordine che da questo Comando vi venisse spedito.
«Dall’I. R. Comando ai confini d’Italia.
«Dal quartier generale di Ala, li 16 settembre 1809.
DAL PONTE
«Comandante superiore del Tirolo italiano.»
Questa sconcezza, comparsa ai 17 sulle cantonate di Rovereto, fu tantosto, per ordine del comandante militare tedesco, strappata a brani a suon di tamburo, e cogli schioppi inarcati. Il Dal Ponte a tanto smacco batteva subito il taccone per Trento, ove appena giunto fu agguantato dai tedeschi, e sostenuto a catena corta nel castello, e di là condotto a Caldaro al vice-comandante superiore de Morandel.
Il fuoruscito Garbin da Schio s’annoverava anch’egli fra coloro che nel comando ambivano la preferenza. Questi, oltre d’aver eretto senza veruna autorizzazione una compagnia di difensori, composta nella massima parte di disertori e malviventi, rei di molte ruberie e saccheggiamenti, oltre di molestare di continuo e prepotentemente le comunità con gravose requisizioni di viveri e di danaro senza vero bisogno, si arrogava la suprema autorità, ed era in voce d’avere secrete intelligenze coll’inimico. Il comandante Torchler, assistito da 63 regolari di varii reggimenti austriaci e dai suoi tirolesi, si recò da Rovereto a Riva per arrestarlo. Nel silenzio della notte del 24 altri circuirono l’albergo dell’Aquila Nera, ov’era il Garbin, e fermate le di lui guardie, entrarono altri improvvisamente nella stanza in cui egli dormiva, e senza dargli tempo di mettersi in panni, ma soltanto d’inferraiuolarsi nel suo mantello, il rinserrarono in un’apprestata carrozza, e il trasferirono issofatto a Rovereto, e da qui a Trento, indi nel Tirolo tedesco. Tanta precauzione dovettero usare nel catturarlo, perchè il Garbin, oltre d’essere uomo assai forte della persona, e d’animo risoluto, godeva l’aura altresì di alcuni suoi fidati scherani, che gli facevano sempre corona.
Sbandeggiata la maggior parte degli stranieri e facinorosi della numerosa sua compagnia, i Comuni italiani respirarono alquanto.
Erano pertanto ricomparsi dei giorni tranquilli; ma s’approssimava a gran passi quel funesto avvenire, che una serie d’inevitabili casi avea già partorito per l’infelice Tirolo. Abbandonati da tutti, e tutti venendo a combattere contro di essi, i tirolesi cominciavano a persuadersi ch’era mal’accorta arroganza il resistere al terribile rombo che veniva loro sopra. Fra la generalità dei difensori tedeschi, quelli di Bolzano furono i primi a deporre le tanto vezzeggiate speranze. Il capitano Platider, ed altri uffiziali della prima compagnia così scrivevano al cittadino Magistrato di Rovereto li 14 settembre: «Il momento della nostra sorte è comparso, in cui dobbiamo e con infinito dispiacere abbandonare questa città, e portarci alla nostra patria. Ci affrettiamo dunque di porgere i nostri più ossequiosi e riconoscenti ringraziamenti per l’ottima accoglienza, e i soccorsi di ogni specie e prestatici nel nostro soggiorno, il quale resterà in noi eternamente memore.» Le relazioni che le case commerciali di Bolzano continuamente avevano intorno alle negoziazioni di pace fra le due grandi potenze, avranno forse suggerita ai bolzanini la determinazione di ritornare ai proprii focolari; il che fecero tanto più facilmente, in quanto che si annoveravano fra essi degl’individui avveduti, e disposti a lasciarsi reggere dai consigli della ragione, che loro apertamente dimostrava l’inverisimiglianza delle speranze di sostenersi, e l’impossibilità di difendersi dalla immensa potenza della Francia, senza l’assistenza dell’Austria. Ah! sì, la mia penna incomincia purtroppo ad aggravarsi; essa ha già raccontate le allegrezze dei tirolesi; ora non le restano a scrivere che ingannevoli apparenze, travagli e dolori.
Ai pochi momenti di quiete subentrava addì 26 settembre lo spavento dell’armi, per cui il popolo si disponeva a nuove scene d’orrore, di sangue e di lutto. Due grosse colonne di truppe francesi ed italiane, partite da Verona, risalirono pei monti, e per ambe le sponde dell’Adige, ad Ala e a Pilcante sì all’improvviso, che se per avventura un vecchio agricoltore, fattosene accorto, corso non fosse ad avvisarne i primi picchetti dei difensori da lui poco discosti, sarebbe certamente avvenuto di questi ultimi il più cruento macello. I francesi, trovata qualche resistenza al ponte di Ala, diedero vista di ritirarsi; ma i difensori, conosciuto il proprio pericolo, andarono tosto ad appostarsi dietro un recinto eretto di fresco a Serravalle, risoluti di fronteggiare l’avvicinantesi nemico: ma venuti poi a sapere, ch’egli s’avanzava con numerose squadre, stimarono prudente cosa il ritirarsi col favor della notte sino a Trento, desistendo anche d’attestarsi al castello della Pietra, come parea avessero divisato di fare. Nel giorno 27, alle ore 10 di mattina, rientrò impetuosamente in Rovereto il generale Peyri con molti officiali; un drappello di 50 uomini a cavallo in un istante percorse a tutta briglia le cittadine contrade; tenevagli dietro con celeri passi un corpo di fanteria, e poscia il grosso della colonna, che camminava di concerto coll’altra sulla sponda destra dell’Adige. Alle 3 della sera venia bandita questa ordinazione:
«Dal quartier generale di Rovereto, li 27 settembre 1809.
Alle ore 11 antimeridiane.
L. PEYRI
Generale di brigata, Cavaliere della Legion d’Onore, Commendatore degli Ordini della Corona Ferrea, e delle due Sicilie, Comandante il Tirolo meridionale.
«Misure di sicurezza tanto delle truppe, quanto degli abitanti pacifici, ch’io voglio ad ogni costo mantenere e garantire, mi hanno determinato ad ordinare:
1.º «Che nel termine di ore tre tutti gli abitanti di questo Comune, che fossero possessori d’effetti militari, d’armi da fuoco di qualunque specie, e munizioni, debbano consegnarle al signor Comandante della Piazza Bognamani, che abita nella casa del signor Gaetano Tacchi, nella piazza delle Beccherie.
2.º «Tutti quelli che avessero presso di sè alloggiato, o nascosto qualche individuo sospetto, o che facesse parte d’una banda armata, dovranno denunziarlo sull’istante al sunnominato signor Bognamani.
«Spirato questo termine, saranno eseguite delle rigorose perquisizioni domiciliari, e chiunque sarà trovato contravventore sarà immediatamente e militarmente punito.
«Si previene inoltre, che il suddetto signor comandante Bognamani è incaricato del Comando di questa piazza: al medesimo s’indirizzeranno quelli che avessero dei reclami.»
L. PEYRI.
Queste due colonne di circa 2000 uomini, con cinque cannoni e due obizzi, osteggiavano nella valle Lagarina sino al dì 28; ma in sul mattino di questo giorno marciavano alla volta di Trento, lasciando un presidio alla guardia di Rovereto. Pervenuta in Trento all’improvviso la cavalleria, alcuni tirolesi cadevano sotto i colpi furenti delle di lei sciabole, talchè rosseggiavano quelle strade del loro sangue: uno spietatissimo capitano, che precedeva l’entrante antiguardo, recideva colla scimitarra le mani ad un infelice regolare tedesco, che astretto a doverlo precedere così sanguinoso per buon tratto di via supplicandolo per pietà della vita, con un altro fendente in sul capo l’avea finito con orribile raccapriccio dei cittadini, che lungo tempo ricordarono tanta ferocia. Molt’altri dei sollevati, ghermiti per entro alle tridentine contrade, e condotti fuori in sul ponte dell’Adige, fatti credere d’essere licenziati alle loro case, volte appena le spalle, erano miseramente traforati dalle piombate e gettati nel fiume. Sulle orientali colline della città, a Villazzano, al ponte Cornicchio, a Cognola alquanto si scaramucciò.
Il grosso dei difensori, fuggendo l’improvviso impeto del nemico, si adunava in Lavis colle compagnie arrivatevi da Bressanone, e appuntando due o tre cannoni, deliberava di opporsi. Peyri faceva alto colla sua truppa in Trento e ne’ circostanti paesi. Diceasi che un comando del Ministero della guerra d’Italia gli avesse per ora prescritto il cammino sino a quivi; tuttavia egli estendeva i picchetti e le scolte fino al torrente Avisio, scorrente a mezzodì del paese di Lavis, ove campeggiavano i tirolesi risoluti a difendersi. Tale comando dispiaceva evidentemente al feroce generale, avvezzo a combattere gli insorgenti delle Calabrie; onde volgeva intanto le cure per iscoprire quei sollevati, che nel trambusto dell’impetuosa entrata de’ suoi cavalleggieri s’erano sottratti al ferro micidiale nascondendosi nelle case. Fece chiudere, la stessa sera ch’entrò e il giorno dietro, le porte della città, affinchè nessuno avesse a fuggirgli, e in una sua grida dei 30 al popolo trentino: «Informato, diceva, che malgrado gli ordini stati pubblicati, vi siano ancora alcuni briganti nascosti in questa città, così io prevengo gli abitanti tutti, che ho ordinato che siano fatte delle perquisizioni alle case loro per rintracciarli e scoprirli. Guai però a quel cittadino presso cui verrà ritrovato un brigante, od effetti militari; egli sarà irremissibilmente assoggettato alla pena più rigorosa ed esemplare!»
Ma le severe misure e le minacciose parole del condottiero napoleonico non destarono nei cittadini nè l’aspettata ubbidienza, nè la risoluzione di denunziare nè pur uno dei nascostisi individui. Tanto pietosi, tanto forti si mostrarono i trentini anche in quest’occasione!
Il giorno 2 di ottobre Peyri concedeva l’apertura delle porte della città, e intorno all’ora del meriggio partiva inopinatamente verso Lavis, preceduto dalla maggior parte della sua gente già disposta alla battaglia, e dal colonnello Livier, comandante l’antiguardo, per mandare così a compimento l’impresa, che un superior comando avea prima dimezzata. Non appena egli scorgeva di fronte i tirolesi, postati in sulle alture e lungo la sponda destra del torrente dal ponte sino presso all’Adige, che usciva dalle sue labbra l’ordinazione dell’assalto. Erano circa le ore due. Un trarre di artiglierie e di moschetteria, che rimbombava altamente in sino a Trento, e per tutta la valle, metteva grande agitazione principalmente nei avisani, che al bersaglio delle nemiche palle, ed alle conseguenze dell’assalto gagliardamente eseguito, erano sottoposti. I tirolesi rispondevano egregiamente e dalle alture e dalle finestre delle case coi misurati lor colpi al vivissimo fuoco del furente nemico, sforzandosi d’impedirgli il passaggio dell’Avisio. L’eminenza del sito, su cui erano trincerati con un ben appuntato cannone, e col maggior nervo delle loro forze, e da cui il nemico stesso tempestavano, e il gonfiamento accidentale del rapido torrente, davano loro molto favore a sostenere l’assunta difesa.
Ma questi erano per gl’infelici tirolesi, nella parte meridionale della provincia, gli ultimi crepuscoli d’una luce languente, la quale apertamente indiziava, che il Tirolo di flagello in flagello passando, deponeva le speranze, e andavasi approssimando all’ultimo fato della sua iliade. Con molta ostinazione eglino veramente resistevano nell’aspro conflitto; ma le numerose forze e le artiglierie, che contro di essi con altrettanta ostinazione combattevano; la nemica colonna a cui riusciva di valicare sopra una barca, e di guazzare a dorso dei cavalli il torrente là dove mette foce nell’Adige; la costruzione d’un nuovo ponte sopra il distrutto, eseguita dai zappatori italiani durante la battaglia, peggioravano la loro condizione, e mettevano nelle lor file un improvviso rovesciamento, talchè, poche ore dopo, l’importante frontiera dovevano precipitevolmente abbandonare. I napoleoniani vincitori entravano furibondi nel paese dalla parte prima di tutto dei Vodi, e mescolavansi ai vinti uscenti dalle case. Alcuni di questi prodi, che trovavansi nelle case più vicine alla difesa del ponte da essi in parte distrutto, e pel quale entrasi in Lavis, abbandonati dai loro compagni, che alla vista dei pochi napoleoniani, entrati in fondo al paese si lasciarono sopraffare dallo spavento e fuggirono senza dare alcun cenno della ritirata, venivano sgraziatamente assaliti all’improvviso, e fatti prigionieri. Gli sventurati erano sessanta all’incirca, e non cadevano appena nelle mani nemiche, che l’ira vendicatrice del Peyri li condannava alla morte. Da lì a pochi momenti quelli che non furono spenti nel furor dell’assalto, venivano trascinati in vicinanza della antica chiesuola della Madonna di Loreto, posta presso al ponte a destra del torrente, e quivi cominciavasi ad eseguire la cruda sentenza. Quei meschini, ravvolti in mille affanni e lamenti, chi per non poter dare l’ultimo addio o all’amata consorte o ai cari figliuoli, o ai dolenti genitori e fratelli, e chi per non poter acconciarsi dell’anima, un dietro l’altro si presentavano avanti le bocche dei fulminanti moschetti.
Fra costoro annoveravasi un certo Cristiano Mittempergher da Serrada, della compagnia dei tirolesi del capitano Rensi. Non disgradirà al leggitore di qui udirne la lugubre istoria. Era questi fra gli altri il quinto che intrepido cadeva sotto il colpo tremendo. La stessa sua carabina da lui poco prima caricata anzi leggermente che no, lo stesso soldato che gliela tolse, erano appunto quelli che glielo vibravano. Ma benchè la palla colpito lo avesse nella parte superiore della spalla destra, penetrando sino alla cavità del torace, ed uscendo fra le prime coste vere parimente a destra, ciò nondimeno voleva la sua buona fortuna maravigliosamente conservarlo ai viventi: presente a sè stesso, egli si lasciava cader boccone fra i moschettati suoi quattro compagni, e fingevasi morto. Uscivagli il sangue a sgorgo, e crudissimo era lo spasimo che ne provava; tuttavia il sospirato desio dello scampo suggerivagli di tutto soffrire, e a tutto resistere. Terminata l’aspra tragedia, gli esecutori ingordamente facevansi sopra a quel quadro spaventevole di vittime, onde farne bottino. Si avanzava intanto a gran passi la notte, e le tenebre influivano non poco alla salvezza del semivivo e palpitante Mittempergher; non veniva in lui scoperto il debole e breve respiro, che solo restavagli ancora di vita, quantunque al par degli altri fosse stato stazzonato, e per solo modo di dire interrogato da un soldato italiano con queste precise parole: e tu sei morto? o te ne occorre un’altra? Il Mittempergher era lì per rispondergli, anzi pregarlo che torlo volesse dall’insoffribile martirio; ma anche questa burrasca passava felicemente, essendo stato senza più riposto nel primiero suo giacimento. Egli dunque appanciolato fra i cadaveri, e da acutissimi dolori fortemente abbattuto, stavasi taciturno in attenzione di ciò che d’intorno succedeva, ed alloraquando s’accorgeva dell’inoltrata oscurità della notte e del comune riposo, alzava bel bello la testa, alluciando ed origliando se alcuno ravvisare il potesse; accertatosi del no, levavasi immantinente, usciva dall’impaccio tremendo, e camminando a bell’agio e cautamente, andava a coricarsi cento passi circa discosto per ivi passare in guato la notte, giacchè, inoltrandosi d’avvantaggio, temeva d’imbattersi in qualche picchetto di guardia. Passata la notte in angosciosi timori, che ognor nell’animo suo germogliavano, e fra il più crudele tormento che possa soffrire un mortale, alla punta del giorno lasciava quel sito raccapricciando in vedere il lago di sangue uscito dall’aperta ferita. Muoveva indi i primi passi verso la sommità del monte, e mettendo in non cale i dolori, alla sola salvezza tenea rivolto il pensiero. Non esponevasi appena al nuovo cimento, che l’avversa sua stella facealo urtare in altro pericolosissimo scoglio. Tutt’ad un tratto apparivano al suo sguardo le sparpagliate sentinelle nemiche, e una pattuglia di soldati, che alla sua volta difilavano. Ad onta di tutto questo, più morto che vivo, estenuato e scemo di forze, non tanto per la ferita, quanto per lo sangue che andava continuamente spargendo, egli faceasi cuore: portato, per così dire, dall’ali della disperazione, correva a rompicollo per iscoscese balze, sorpassando i più grandi pericoli, di maniera che coloro che voleano raggiungerlo, non solo stancavansi, ma ne perdevano ben anche le traccie, essendosi da essi assai dilungato. Quando finalmente vedeasi pervenuto sur un monte impraticabile, quivi oltre misura languente facea alto e prendeva riposo. In questo mezzo scoprendo poco discosto una caverna, iva subitamente in essa a ricoverarsi, quantunque inviscerata nel monte, e sita in tanta eminenza, che altri difficilmente a sangue freddo andarci potria senza rischiare la vita. In questo nascondiglio passava due giorni e due notti continue in un’angoscia mortale: un tozzo di pane indurito, rimastogli in tasca nel dì della battaglia, serviva al di lui alimento. In questa pietosissima situazione perveniva a discernere in sulla sera del terzo giorno, per certo rumore di moschetteria ed altri indizi, che i suoi potessero avere ricuperate le perdute posizioni, il che realmente era avvenuto. Allora risvegliavasi in lui più che mai la speranza, conforto dei disgraziati, e sembravagli di avere finalmente scoperto il porto della sua definitiva salvezza. Laonde rasserenando alquanto l’incadaverito sembiante deliberava tosto d’uscire dalla spelonca, e dopo breve e non interrotto cammino arrivava al paese di Verla, dove per avventura ritrovava un rimasuglio di cacciatori austriaci con alcune squadre di difensori, ed il meschino avanzo de’ suoi commilitoni, che furono alla difesa del ponte. Da questi veniva egli accolto con quella pietà, che ben meritava l’infelice suo stato, e con somma attenzione e sorpresa ascoltavano essi la dolente istoria del suo terribile caso. Egli venia tantosto visitato dai chirurghi civili e militari, che ivi erano, alla presenza di molta gente accorsa a vederlo ed udirlo; ma a colmo de’ sofferti travagli toccavagli sentire che nessuno ardiva intraprendere la difficile cura, che si giudicava omai disperata, stantechè il male s’era già di troppo radicato. A dispetto però dell’altrui opinione, il medico Luigi Bevilacqua, terrazzano di quel luogo, si accingeva coraggiosamente all’impresa, incitato dallo stesso Mittempergher, e ben presto mitigava egli la acerba sua doglia, facendogli concepire in appresso fidanza di guarigione. Come la ferita fu rassettata, ed egli ristorato con avvertenza di cibo, e riavuto oltracciò dallo smarrimento e dalle durate fatiche, un officiale gli faceva adagiare una vettura, e il giorno seguente veniva trasportato all’ospedale di Bolzano, d’onde in sul finir dell’ultime scene ed emanato il perdono, si restituiva guarito alla patria in seno della sua sbigottita famiglia, che rinasceva alla sua comparsa. Morì ai 11 aprile 1831 in Noriglio, ove colla moglie e coi figli francava la vita coll’arte dell’agricoltore, godendo dalla sovrana munificenza una giornaliera provvisione.
Ripigliando ora l’interrotto filo della proposta narrazione, dirò, che entrati i napoleoniani in Lavis, gli abitanti venivano messi a sacco, col tacito consenso del loro generale. Dopo un’ora suonato a raccolta, il saccheggiamento cessava, e gli abitanti si riavevano dall’avuto spavento. La notte succedente al sanguinoso combattimento offriva ai difenditori tirolesi (che per l’impreveduta entrata dei napoleoniani s’erano nascosti nelle cantine delle case, e perfino nell’acqua della gora che scorre sotto alcune di esse) la propizia occasione di fuggire, e di afferrare in sulle propinque colline la via di salvamento. Quelli che cadevan prigionieri, veniano fucilati, o tradotti in Italia, costume usato dal Peyri anche nell’altre fazioni ch’ebbe in Tirolo. Il corpo maggiore della massa nazionale ritiravasi al di là di San Michele, e sino a questo paese, a cinque miglia circa sopra Lavis, inseguivalo la cavalleria della vanguardia nemica, menando strage di quanti raggiunse per via.
L’arrogante Peyri, conseguita questa vittoria, ritornava trionfalmente al suo alloggiamento di Trento nella sera di questa stessa giornata, e con un suo manifesto così parlava ai tirolesi:
REGNO D’ITALIA
Dal quartier generale di Lavis, li 2 ottobre 1809
LUIGI PEYRI GENERALE DI BRIGATA ECC. ECC.
«Tirolesi! Voi non mi conoscete; vado a farmi conoscere: educato ed incallito nelle fatiche della guerra, la sorte mai mi fu avversa, ma anzi propizia ed amica costante. Anche il resto de’ miei giorni l’ho consecrato al servigio del più grande de’ Sovrani. Il comando della Calabria citeriore mi fu affidato nei tempi più difficili; fui temuto dai cattivi ed amato dai buoni, vi rimisi la quiete e l’ordine: sapete il perchè? perchè i calabresi sono di carattere franco, vivo e risentito; ma capaci del più nobile sentimento, ch’è la ragione, e l’hanno ascoltata.
«Tirolesi; parlo ai traviati, non agli ostinati, ai capi di fazione e del disordine. Quanti sono li disprezzo e non li curo, sebbene taluni mi abbiano mendicato più volte un perdono, volendosene rendere degni col sacrifizio di alcuni lor soci nel delitto; gli ho rigettati, e li rigetterò, perchè saprò raggiungerli da per tutto, immolarli al rigor delle leggi, o pur anche distruggerli. Servano d’esempio le terribili giornate dei 28 settembre e 2 ottobre, l’Adige ancor tinto di sangue, i ponti di Trento zeppi di cadaveri, le contrade della città coperte di semivivi, le vittime di un giusto furore militare al Lavis, e le altre nella scorreria della cavalleria al di là di San Michele.
«Ritorno a voi, o sedotti dalla cabala, dall’ambizione di alcuni pochi, da fanatici senza appoggio, da alcuni Ministri della Chiesa spergiuri ai cattolici principii, e dagli artifizii di sognati emissarii; costoro sono avventurieri, che si servono di nomi rispettabili onde compromettere indegnamente una Corte per fini speciali. Sappiate che la Casa d’Austria, fedele al trattato di Presburgo, ha solennemente dichiarato di abborrire chi si serve del suo nome per accrescere dei ribelli al loro Sovrano. Tirolesi! deponete le armi nelle mie mani, e non riprendetele che per difendere il vostro Governo e gli augusti suoi alleati; ritornate ai vostri focolari; vivete là tranquilli sotto la protezione della legge, riprendete i vostri lavori. Le vostre proprietà e le vostre persone saranno rispettate; le afflitte madri, i teneri figli e le dolenti mogli vi attendono; la santa religione, che rispettarsi con scrupolo devesi da me e da voi, lo esige. Iddio lo comanda. Ascoltatemi.
L. PEYRI.
Nel giorno 3 l’armata napoleoniana concentravasi in sulla sponda sinistra del torrente Avisio, conservando al di là di Lavis alcuni picchetti di guardia per osservare il movimento delle squadre tirolesi. Queste all’opposto, anzichè sviticchiarsi, ingrossavano sopra San Michele, rinvigorivano, e si apparecchiavano per darle la rappresaglia della sofferta perdita, come nel seguente capitolo sarà raccontato.
Ora ad alcune cose contemporaneamente avvenute oltre il Brenner, che, per non interrompere la narrazione di quelle del Tirolo meridionale, s’è indugiato di raccontare.
Alcuni di quei capi tirolesi, che alla conclusione dell’armistizio emigrarono dal Tirolo, ricovrandosi col barone Hormayr in Gross-canischa, pentiti di non avere partecipato alla gloria riportata da’ loro connazionali nelle battaglie combattute contro l’armata del maresciallo Lefebvre, determinarono di ritornare ad assistere la patria, che già credevano perduta; e in fatti, non senza pericolo di dar nelle mani del nemico, essi comparvero il dì 28 settembre in Innsbruck, portando seco molte migliaia di zecchini per continuare la difesa, e delle decorazioni. Sieberer ed Eisenstecken si annoveravano fra i comparsi. Appena arrivati nella metropoli provinciale chiesero questi di essere introdotti avanti il superior comandante. Non avendo Hoffer ancora bandito il corruccio che per la loro fuga avea sentito, mostrava in sulle prime qualche ripugnanza a parlare con essi. Non andò però guari che aderì d’ascoltarli. Lungo fu il loro abboccamento, e molte ed interessanti le cose trattate. Hoffer conchiuse coll’affidar loro un comando. Sieberer fu mandato verso Kuffstein, ed Eisenstecken nel Tirolo meridionale in surrogazione al timido Torgler.
Una gran funzione si preparava intanto nella chiesa di Wiltau. Hoffer, ed il cappuccino Haspingher doveano essere insigniti, il primo, del gran cordone d’oro di grazia colla grande medaglia del merito, ed il secondo della croce ecclesiastica del merito. Il 4 d’ottobre, giorno onomastico dell’imperatore, era destinato alla distribuzione di questi onori, mandati dalla riconoscenza di Francesco. Alla tomba di Massimiliano si cantò un solenne uffizio, e durante la sacra funzione, l’abate Marco Egle benediva quelle decorazioni esposte sur un bacino d’argento; indi pose il cordone al collo di Andrea in un colla medaglia, ed attaccò la croce al cappuccino. Molte furono le lagrime, che per tenerezza si videro cadere dagli occhi delle persone presenti a quest’atto, che, se mal non avviso, è forse l’ultimo d’allegrezza pel Tirolo.