CAPITOLO VI.

Il colonnello francese Livier entra con 1520 uomini nel Tirolo italiano. Suo scontro al ponte del Fersina presso Trento, colle prime quadriglie del tenente colonnello Leiningen. Livier intima la resa del castello di Trento e della città al colonnello Leiningen, ed eccita i cittadini a cooperare in di lui ajuto. Risposta negativa del colonnello Leiningen e del Magistrato. Scaramuccia sotto le mura di Trento. Ritirata di Livier a Rovereto. Suo ritorno a Trento. Suo scontro cogli austriaci presso Mattarello, e nuovo fatto sotto le mura di Trento. Perdita del Livier e sua nuova ritirata a Rovereto, indi fuori del Tirolo. Scorreria de’ sollevati d’oltre Adige in Rovereto. Nuova comparsa in Tirolo del colonnello Livier, e suo ritorno ai confini. I bavari, condotti dal colonnello conte d’Arco, si avvicinano a Mittewald e Valgau. Alcune compagnie di sollevati li affrontano. Queste si ritirano a Scharnitz. Quivi ripulsano i bavari con perdita. I bavari entrano nel Vorarlberg, ed incalzano i sollevati al di là di Hörbranz. Questi in appresso li respingono sino a Lindau, e fanno una spedizione a Costanza con pochi austriaci, la prendono, e fan prigioniero il piccolo presidio.

Incominciava il mese di giugno, e lo strepito dell’armi, lo spargimento del sangue, le stragi, le morti rinnovellavansi nell’infelice provincia. Presagivano anche i meno assennati, che il francese conquistatore non avrebbe lasciato di vista il belligero Tirolo; che la Baviera, insuperbita, e resa gagliarda dai trionfi del potente alleato, non esiterebbe a rivendicare le offese. Di fatto, ne’ primi quattro giorni di questo mese, la provincia venia messa di nuovo alle strette nella valle dell’Adige, e nella valle superiore dell’Enno. In ambidue queste valli ricomparivano le odiate insegne; in ambidue il cannone rimbombava e scuoteva le falde dei monti; le condizioni vieppiù s’aggravavano, ed inclinavano ad un funesto avvenire.

Varii e meno gravi gli accidenti di guerra nella parte del mezzogiorno; di maggior importanza quelli della parte a settentrione.

Ai 3 giugno arrivavano in Rovereto all’improvviso e spartitamente 1480 accogliticci di varii reggimenti francesi ed italiani, con due cannoni e 40 dragoni del reggimento Regina. Il colonnello francese Livier comandava a questo nervo di gente, destinato a riprendere il possesso del Tirolo italiano. Alla punta del giorno 4 partiva Livier alla volta di Trento, ed appressandosi al ponte del torrentello Salè, a un miglio di quella città, egli scorgeva le prime quadriglie austriache, ivi appostate dal Leiningen. Il vederle, il venire con esse a giornata, fu tutt’uno. Affrontavano validamente gli austriaci l’assalto dei napoleoniani; ma dopo forte resistenza, per l’inferiorità delle forze, si ritiravano nel castello, dove il Leiningen stava già bene apparecchiato per iscontrare col fuoco il vegnente nemico. Livier, fatto alto fra il torrente Fersina e la porta di Santa Croce, spediva ad un tempo un araldo all’austriaco colonnello, per intimargli la resa del castello, e un segreto messo al Magistrato della città, eccitandolo ad armare i cittadini per conseguire viemmeglio, col loro mezzo, lo scopo della sua intimazione, qualora negata venisse la resa. Leiningen non solo ricusò la proposta, ma rimandò eziandio colle brusche il parlamentario, dandogli incombenza di riferire al francese, che ben lungi dal venire a tanta viltà, egli era disposto ad affrontare qualunque pericoloso cimento; ed il Magistrato prudentemente rispose, secondo dicevasi, che la città si esporrebbe piuttosto ai disastri d’un bombardamento, che impugnare le armi contro gl’imperiali soldati. Alle quali risposte il francese per alcun tratto temporeggiò; se non che l’ira onde fu preso, li trasse a lanciare alcune bombe sopra l’innocente città. Veggendo il Leiningen, che il nemico niente contro di lui intraprendeva, mandò fuori dal castello, verso le ore quattro della sera, il capitano Hübler con alcuni cacciatori del nono battaglione, confortandoli con virili parole a bersagliarlo colle loro carabine dalle mura. L’ordine del coraggioso comandante ottenne celere esecuzione. Tutt’ad un tratto una tempesta di palle piombava sui sottoposti napoleoniani, la quale continuando per due ore, cagionò loro alcune uccisioni; per lo che declinando essi dal far testa contro gli appiattati avversari, dopo le sei lasciavano la terra di Trento, e intorno alla mezzanotte capitavano all’improvviso a Rovereto, senza che i roveretani scoprissero la causa della subita ritirata.

Il giorno 5 i francesi, salendo il lago di Garda sopra una flottiglia di barche, cannoneggiarono Riva, ch’era tenuta pei sollevati di quei contorni e delle Giudicarie, i quali in grosso stormo fattisi a scontrar l’inimico, lo misero in volta, risalendo poi ad occupare le posizioni di Nago sino a Loppio; ed essendo calati dai monti d’oltr’Adige degli altri difensori, tutte le barche che servivano in varii punti al tragitto del fiume, furono fermate dai francesi alla riva sinistra.

Nella notte che seguì al giorno 6, levatisi dalle alture di Vallunga, e dal Corso nuovo, ove aveano serenato, partivano essi novellamente per Trento, colla ferma risoluzione di espugnare il castello. Il Leiningen, che n’avea avuto l’avviso, veniva coraggiosamente con un distaccamento ad affrontare l’assalto, scegliendo opportuna situazione presso il villaggio di Mattarello. Sull’albeggiare del 7 le due parti si scorgevano, e si salutavano a vicenda con un vivissimo fuoco, che imperversando dalla parte de’ napoleoniani per maggioranza delle forze, faceva prendere al Leiningen il partito d’indietreggiare, badaluccando sin sotto le mura di Trento, ove si accendeva più fiero il combattimento, che inclinava a favore de’ napoleoniani, i quali sarebbero anche entrati in città, se non veniva loro contrastato l’avvicinamento alla porta di Santa Croce dai cacciatori, che dalle merlate mura tiravano, e ferivano terribilmente. In questa fazione i napoleoniani perdettero 30 uomini ed un ufficiale, che arditamente accostatosi alla porta per incendiarla, fu gravemente ferito. I tiri che gli austriaci cacciatori imberciavano dalle mura, ferivano ed uccidevano eziandio gli artiglieri nemici, che con un cannone puntato contro la porta, aveano incominciato a fulminare verso di essa. A fronte di tutto ciò, Livier persisteva nell’azione con tanto fervore, che alle undici obbligava il Leiningen ad incastellarsi con tutta la sua gente. Il dì 8 durava ancora l’assedio, e chi sa quanti giorni avrebbe continuato, se il giorno seguente la milizia provinciale, che dalle stanze di Lavis stava ammirando i successi di Trento, non fosse accorsa in aiuto degli assediati. Ella staccavasi da quella posizione intorno alle cinque del mattino, e guidata dal capitano de Schlager dei cavalleggieri del reggimento Hohenzollern, dal sopra menzionato capitano de Hübler, e dal sottotenente Kukoli del reggimento di linea Hohenlohe-Bartenstein, veniva in tre colonne ad attaccare l’inimico. Nel centro martellavalo l’Hübler; Kukoli col corno sinistro gli tagliava la strada dietro il Fersina, obbligandolo con ciò a lasciare speditamente l’assedio del castello, e Schlager il rovesciava coll’ala destra, di maniera che fu egli costretto a rannodarsi, e quindi a ritirarsi nel massimo disordine, con una perdita di circa 100 uomini, fra morti, feriti e prigionieri. Dopo le due pomeridiane ritornava Livier a Rovereto col suo piccolo corpo d’armata, e per un suo ufficiale mandava eccitando il Magistrato cittadino a voler far sì, che i suoi soldati venissero tostamente vettovagliati. Stavano essi sdraiati prendendo riposo, ed anelando di richiamare con opportuno ristoro le forze dal battagliare e dal cammino fiaccate, quando un suono di tamburi, dato per ordine del colonnello, li chiama a raccolta, e sotto un cocente sole li fa issofatto diffilare alla volta del territorio veronese: la notizia segretamente pervenutagli, che gli austriaci, in un coi difensori del Tirolo italiano, calavano da Trento per circondarlo in Rovereto, dava cagione al subito movimento. Di fatto i napoleoniani non erano ancor molto inoltrati in sulla strada conducente ad Ala, che a Rovereto capitavano 130 cacciatori austriaci, e circa 200 difensori delle compagnie di Lavis, di Bolzano, della Zambana, e dei capitani Danieli e Dalponte, corpo in vero assai debole per cimentarsi col fuggente nemico, e per mandare ad effetto l’accennato disegno, siccome erroneamente fu riferito a Livier, o come il Leiningen aveva divisato di fare, se quegli persisteva in far alto a Rovereto. Il conte d’Andreis capitano imperiale del genio, ed il capitano Müller del battaglione de’ cacciatori, gli tennero dietro sino a Serravalle, con alcuni cacciatori e difensori montati sui carri, e con pochi dragoni, i quali tutti, non meno che una buona mano di sollevati postatisi oltr’Adige in sulla Crona di Mori, tempestarono il fuggente nemico che sparava a mitraglia, e che, preso in Ala breve ristoro, scese a Peri, lasciando 40 de’ suoi fra morti, feriti e rimasti addietro per istanchezza. Stando alla relazione dal Leiningen pubblicata, il nemico avrebbe perduto, dal giorno 4 al 9 di giugno, verso 700 uomini, numero avuto per esagerato, non avendo valicato i 300; gli austriaci ed i sollevati non n’ebbero 100.

Qui non tacerò le brutte scene di cui era spettatrice Rovereto, intantochè i napoleoniani erano all’assedio del castello di Trento. Sino dai passati giorni, alcuni difensori della compagnia Dalponte stavano appostati in più torme sulla sponda destra dell’Adige, guardando i porti ch’eglino avevano fermati in sulla riva, a fine che per opera del nemico non venissero staccati, e con loro pregiudizio condotti alla sinistra. Quelli che erano al porto di Villa Lagarina s’unirono con alcuni altri, e in 50 circa determinarono arditamente di fare una scorreria a Rovereto. Erano le ore 9 di mattina del giorno 8, quando tutt’ad un tratto entrò furiosamente in città per la via di San Rocco quella gente armata d’archibugi in resta, e di appuntati coltelli. Il vedere l’impetuosa corsa, l’udire le grida di – largo, largo! il commissario, il commissario! – e un chiudere di botteghe e di porte, fu una sola cosa. Alcuni corsero le contrade cittadine spargendo ovunque lo spavento, ed alcuni altri entrarono nella locanda della Rosa d’oro cercando del commissario. Era questi Marcantonio Angelini, roveretano, vissuto molti anni in Verona, ed esercitava provvisoriamente in Tirolo l’offizio di commissario di polizia, allorchè il tenevano i napoleoniani nella sua parte meridionale. Persuasi di trovargli qualche grossa somma di pecunia, meditarono la di lui cattura; ma l’Angelini, che ben previde, o gli fu fatto prevedere la visita, si era dianzi partito. Scorrendo l’albergo, s’imbatterono quei facinorosi in certo Francesco Valdambrini di Verona, maestro di violino. Per la simiglianza della persona che egli aveva coll’Angelini, e pel dialetto ch’egli parlava, fu creduto senza più il commissario, e pigliatolo alle strette, cominciarono a minacciarlo. Il cattivello, che tremava a verga verga, s’argomentava di persuadere i furfanti, ch’egli non era il messere da essi cercato, ma le sue furon parole; sin tanto che sopraggiunte altre persone, e data assicurazione del vero, lo lasciarono in libertà, tutto invasato dallo spavento. Ad altro bottino volgevano allora questi difensori la mente. Nella piazza del Podestà, poco prima del loro arrivare, sostava un carriaggio con due artiglieri napoleoniani, che venuti dall’assedio di Trento andavano ad Ala per munizione. Sopraffatto dai sollevati, uno degli artiglieri fu preso; dei cavalli l’uno ucciso, l’altro ferito, due rapinati insieme a due altri levati dalla scuderia postale per trainare il carriaggio. Altri arraffarono i buoi quivi lasciati dal nemico, e vollero vettovaglie. Alla sera una nuova banda, entrata nel palazzo pretorio, volle rilasciati due suoi paesani sostenuti in carcere, e poste loro in mano le armi, li prese seco, dicendoli purgati d’ogni delitto prestandosi alla difesa della patria; e pria ancor che annottasse, un’altra punta di 80 difensori veniva da Riva a provvedersi di polvere, scaraventandosi dappoi tutti quanti al di là del fiume alle lor posizioni, liberando così la città da mille angustie, e dal timore di vederne fatto macello dai napoleoniani, che in 120, scesi da Calliano la notte, alloggiarono per sicurezza nel convento dei Frati minori a San Rocco; ove, sotto la scorta dei soldati, furono chiamati alle 3 del mattino i municipalisti, che ben seppero giustificarsi avanti il comandante delle ruberie commesse dai sollevati. Quale accozzaglia di difensori fosser costoro, vedrassi più sotto; qui basti aver detto che, lungi dall’appartenere alla nazion del Tirolo, erano nella massima parte di quei collettizii stranieri, di cui, con dispiacenza e disdoro dei veri tirolesi, era stato fatto un grosso arrolamento nelle compagnie di nazionale difesa de’ capitani italiani.

Pareva che dopo l’ultima comparsa del Leiningen, e le prove da lui reiteratamente date di una tenace resistenza, dovesse la tempesta, almeno per alcuni giorni, sedare; ma, sia che il francese Livier non fosse ancora convinto che alle sue forze insuperabile era il Leiningen, o che il comando di chi presiedeva al ministero della guerra in Milano così suonasse, egli ricompariva il dì 13 in Tirolo. Due ore dopo il meriggio, 60 cavalieri, fra ussari e dragoni, guerrescamente e di tutto galoppo il precedevano in Rovereto. Ad essi tenevano dietro 1100 soldati di fanteria, con tre cannoni, un obizzo e tre cassoni di munizione; ed altri 200 si postarono a Isera ed al porto di Sacco. I cavalli campeggiarono a Volano e di sopra; l’altra gente sulle vie dei Paganini, di San Rocco e di Sant’Ilario, ed il dì appresso una parte sulle alture di Vallunga, non lasciando il passo a nessuno. Ignoravasi quale determinazione fosse per prendere questa volta Livier, se quella di starsene sulla difesa, o di ritornare all’espugnazione del tridentino castello. In questa vacillante postura rimaneva egli tutto il giorno seguente, in cui molte famiglie trentine si trasportarono a Rovereto, per consiglio dello stesso Leiningen, risoluto di difendersi a tutto potere, ad onta del sacrificio della città: molt’altre si fermarono a Mattarello, per non poter venire a quell’ora più avanti. Nello stesso dì le fuste francesi aveano ritentato lo sbarco a Riva; ma furon tenute addietro dalla moschetteria dei sollevati, che, a cavaliere della montata di San Giovanni, fronteggiavano ben anche i primi picchetti francesi che guardavano Loppio.

Alle ore due del mattino dei 15 arrivava dall’Italia una staffetta a Livier, e tre ore dopo egli con tutta la soldatesca indirizzava il cammino alla volta di Verona. Passando avanti al palazzo del Comune, a certuni, che dal poggiolo osservavano la ritirata: – Perchè non ridete? disse, con cert’aria tutta francesca e piena di disgusto; vi prevengo, che fra tre o quattro giorni saremo di nuovo qui. – Ma i roveretani aveano a que’ giorni poca voglia di ridere, e delle carissime visite eran ben più che ristucchi.

A’ 18 arrivò Leiningen con due compagnie di regolari, altrettanti sollevati, ed alcuni cavalli, e dopo il riposo proseguì verso Ala. Rovereto era guardata a questi dì da circa 500 regolari; i villaggi di Pomarolo, Villa ed Isera dai sollevati: stando ogni spesa di militare precauzione, e le provigioni di tutti, come sotto i francesi, a carico degli esausti Comuni.

Quanto agli armigeri fatti, respirava l’italiano Tirolo, sino al finire del luglio, quell’aura di riposo, che tanto anelava; i napoleoniani si limitavano a difendere i confini del regno, e gli austriaci stabilivano i posti avanzati al di sotto del sobborgo roveretano, postando fra Lizzanella e Lizzana la prima sentinella a cavallo. Talvolta facevano qualche scorreria sino al confine sotto il Borghetto, senza venire però al paragone dell’armi. Per disposizione dell’austriaco colonnello le strade di Rovereto, che oltre la chiesa di Santa Maria conducono una a Lizzanella verso Verona, e l’altra per Ravazzone al Lago di Garda, e quella che dal ponte del Leno conduce alla contrada dei Calcinari, vennero in sul finire di giugno asserragliate agli sbocchi coi sì detti cavalli di Frigia, per trattenere, nell’emergenza d’un’improvvisa invasione, il passo alla nemica cavalleria.

Ma se nel Tirolo italiano romoreggiarono nell’entrare di giugno le armi, non andava esente negli stessi giorni dal malaugurato lor rombo il Tirolo tedesco, a cui l’ordine dell’argomento ci chiama. Il bavaro colonnello Conte d’Arco, con un corpo di truppe da lui comandato, veniva il giorno 2 nei contorni di Mittewald e Valgau molestando la quiete de’ prossimi andati giorni. Le compagnie dei difensori di Latsch, d’Imst, di Landeck, di Laudech, di Scharnitz e di Luitasch si assembravano tostamente, e colla veterana loro franchezza si accingevano a riurtare il nemico. Un aspro azzuffamento in detti contorni accendevasi. I bavari combattevano anche in questa novella occasione colla solita loro bravura; ma non cedevano punto i coraggiosi tirolesi, che in cima dei loro pensieri avevano sempre la beatitudine della loro costituzione, e la servitù a cui il bavaro governo avea già incominciato a sottometterli. I primi, preponderanti in cavalleria ed in artiglieria, riuscivano in sulle prime a far inclinare la tirolese fortuna, e a respingere i combattenti sino verso Scharnitz; ma quando ormai si promettevano di cantare vittoria, vedevansi tutt’ad un tratto assaliti nel fianco dai difensori, guidati dai prodi capitani Falk di Landeck, e Conte di Mohr da Latsch, che sopraggiunti dalla parte del monte Burg, e dal lago di Lauter, tiravano con alcune spingarde e colle loro carabine, bersagliando la cavalleria; impresa invero mirabile, in gente che altr’arte militare non possedeva, che quella del solo coraggio e del natural talento. L’inaspettato assalto non solo dissestava il disegno della bavara colonna, e la metteva nella confusione e nello scoraggiamento, ma obbligavala eziandio a retrocedere, lasciando ventisette morti sul campo, e molti prigionieri, fra i quali un uffiziale di linea, un capitano della milizia cittadina di Monaco, ed un carriaggio di munizione. Il Conte d’Arco, quanto impressionato del tirolese valore, altrettanto avvilito, si rifuggiva a Benedichtbeueren. La sua ritirata, ed una scorreria del maggiore imperiale Theimer con alcune centinaja d’uomini a piedi e a cavallo, e con due cannoni, sino a Murnau e Weiheim, spargevano il timore nei paesi della Baviera. Ciò costringeva il generale Deroy a lasciare Rosenheim e Reifelden, in cui pur esso erasi rifuggito, e a venire a presti passi col suo corpo d’armata per difendere Monaco, se, come il timore, si presentasse il bisogno. Per tal mutazione Deroy fissava il suo alloggiamento a Benedichtbeueren, allungando le sue prime quadriglie sino a Kockel; il generale Vincenti lo aveva fermato in Tölz, e formavano ambidue un cordone ch’estendevasi da Lindau fino ad Eibling.

Il giorno 13, in cui Livier rientrava nel Tirolo italiano, le campane a martello scuotevano e chiamavano novellamente all’armi i vorarlberghesi. Gelosi i bavari di ricuperare quanto avevano perduto ne’ passati giorni, e di rivendicare le sofferte percosse, annodavano di buon mattino le proprie forze con quelle de’ loro alleati, e rispingevano le prime squadre dei difensori, che i confini fronteggianti la Svevia guardavano. Già essi con molto ardire e con maggioranza di forze nel territorio del Vorarlberg s’inoltravano, incalzando i resistenti difensori al di là di Hörbranz nell’interno dei monti. Ma allo stormeggiare continuato delle campane nuovi nazionali combattenti univansi a quelli che con ammirabile virilità sostenevano l’impetuoso urto in un coi pochi regolari del reggimento Lusignan; rimettevano maravigliosamente la cadente fortuna, ricacciavano il furente nemico, e costringevanlo ben presto a trovare un rifugio di salvezza entro le mura di Lindau; per la qual cosa veniva il paese, ancor pria che annottasse, liberato colla sola perdita di sei morti e dodici feriti di Lusignan, e di quattro morti e sedici feriti della valorosa compagnia di Feldkirch, essendo stata la perdita degli avversari molto maggiore.

La vittoria chiama vittoria. Alcuni giorni dopo giugneva a notizia dei vorarlberghesi che la città di Costanza era presidiata e difesa da poca truppa e da sei cannoni, e deliberavano perciò d’impadronirsene mediante una notturna sorpresa. Fra i serotini crepuscoli del giorno 28 il commissario generale Schneider fece a quest’uopo radunare presso Fussack cinque barche di mezzana grandezza, affidando la spedizione al bravo capitano Walser, e al tenente Festenburg del reggimento Lusignan, il primo guidatore di 90 cacciatori, e il secondo di 37 regolari della sua compagnia. La contrarietà del vento impediva al comandante della spedizione di mandare ad effetto nella seguente notte l’ordito disegno; perciò l’esecuzione veniva protratta sino alle ore nove di mattina del dì 29. A quest’ora il Walser e il Festenburg colla maggior parte della loro gente si affacciavano al porto, sbarcavano in vista dell’accorso presidio e di una moltitudine di abitanti, e scacciavano avanti di sè tutti gli oppositori. Un piccolo distaccamento dei cacciatori, smontato a terra in un altro punto del porto, a fine di serrare quelli fra due fuochi, incontravasi coi fuggenti per lo ponte del Reno, e per tale evoluzione tutto lo sgomentato presidio deponeva le armi, e, cessando prestamente dall’insistere col ferro e col fuoco, si dava prigioniero di guerra insieme all’artiglieria. I maggiori Nachbauer, Bredmüller, Ellenson e Müller, che l’accennata spedizione aveano col Walser concertata, non si rimanevano intanto colle mani alla cintola. S’avanzavano essi coi loro battaglioni dalla parte di Lindau, Neuravensburg e Wangen sul fiume Argen sino a Tettuang, e superando bravamente gli opposti trinceramenti nemici, eretti presso Lindau, riuscivano in breve giro di tempo a mettere il blocco a questa città dalla parte di terra. A questo modo ottennero lo scopo, che il nemico non potesse mandare rinforzi al presidio di Costanza, che colla dimostrata bindoleria era già divenuta preda del vincitori vorarlberghesi. Tale fu l’esito della duplice spedizione, senza grave spargimento di sangue maravigliosamente eseguita.

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