III.

Ma non sostenne il nostro cuor mortale

quel silenzio sublime. Si piegò

verso il sorriso delle donne nostre.

E Derbe disse ad Aretusa: «Quando

fiorí di rose il lauro trionfale?».

Era la donna giovinetta alzata,

mutevole onda con un viso d’oro,

tra gli oleandri; ed il reciso ramo

per la capellatura umida effusa,

che fingevale intorno al chiaro viso

l’avvolgimento dell’antica fonte,

intrecciava le rose al regio alloro.

Disse Aretusa: «Bene io te ’l dirò»

mutevole onda con un viso d’oro.

Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafne

lungh’esso il fiume, come si racconta.

La figlia di Peneo correva ansante

chiamando il padre suo dall’erma sponda.

Correva, e ad ora ad or le snelle gambe

le s’intricavan nella chioma bionda.

Ben cosí la poledra di Tessaglia

galoppa nella sua criniera falba

che fino a terra la corsa le ingombra.

Rapido il re Apollo piú l’incalza,

infiammato desio, per lei predare.

All’alito del dio doventa fiamma

la chioma della ninfa fluvïale.

“O padre, o padre” grida “tu mi scampa!”
Chiama ella il padre suo con grida vane.

“Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!”
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce

crescon la furia del desio predace.

“O gran padre Penèo, perduta sono,

ché mi si rompono i ginocchi. Salva-

mi dalla brama del veloce fuoco

cho ora mi giunge, ecco, ecco, ora m’abbranca!”

Ma il dolce sangue suo in altro suono,

la sua bellezza in altro suono parla.

Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.

Ed ecco ella s’arresta, chiude gli occhi

e trema e dice: “Or ecco m’abbandono”.

Una gioia s’aggiunge al suo terrore

ignota che il divin periglio affretta.

Tremante e nuda dentro la chioma ode

la vergine il tinnir della faretra,

sente la forza del perseguitore,

vede l’ardor pe’ chiusi cigli e aspetta

d’essere ghermita, e piú non chiama il padre.

Ma il dio la chiama: “Dafne, Dafne, Dafne!”

Ed ella non udí voce piú bella.

Il dio la chiama: “Dafne, Dafne!” Ed osa

ella aprir gli occhi: la rutila faccia

vede da presso e la bocca bramosa

mentre il dio con le due braccia l’allaccia.

Rapita dalla forza luminosa

gitta ella un grido che per la selvaggia

sponda ultimo risuona, e l’ode il padre.

Avido il dio districa la soave

nudità dalla chioma che la fascia.

Bianca midolla in cortice lucente,

in folti pampini uva delicata!

Tenera e nuda il dio la piega, e sente

ch’ella resiste come se combatta.

Tenera cede il seno; ma dal ventre

in giuso, quasi fosse radicata,

ella sta rigida ed immota in terra.

Attonito, l’amante la disserra.

“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei fatta!”

Subitamente Dafne s’impaura:

le copre il volto e il seno un pallor verde.

Ella sembra cader, ma la giuntura

dei ginocchi riman dura ed inerte.

S’agita invano. L’atto della fuga

invan le torce il fianco. Si disperde

il senso di sua vita nella terra.

E l’amante deluso ancor la serra.

“Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?”

Ma non il suo melodioso duolo

giova a trarre colei dalla sua sorte.

Nell’umidore del selvaggio suolo

i piedi farsi radiche contorte

ella sente e da lor sorgere un tronco

che le gambe su fino alle cosce

include e della pelle scorza fa

e dov’è il fiore di verginità

un nodo inviolabile compone.

“O Apollo” geme tal novo dolore

“prendimi! Dov’è dunque il tuo disio?

O Febo, non sei tu figlio di Giove?

Arco-d’-argento, non sei dunque un dio?

Prendimi, strappami alla terra atroce

che mi prende e beve il sangue mio!

Tutto furente m’hai perseguitata

ed or piú non mi vuoi? Me sciagurata!

Salva mio grembo per lo tuo desio!

Salvami, Cintio, per la tua pietà!

Se i miei capelli, che m’avvinsero, ami,

dè miei capelli corda all’arco fa!

Prendimi, Apollo!” E tendegli le mani,

che son fogliute; e il verde sale; e già

le braccia sino ai cubiti son rami;

e il verde e il bruno salgon per la pelle;

e su per l’imbelico alle mammelle

già il duro tronco arriva; e i lai son vani.

“Aita, aita! Il cuore mi si serra.

Vedi atra scorza che il petto m’opprime!

O Apollo Febo, strappami da terra!

Tanto furente, non sai piú ghermire?

Nuda mi prenderai su la dolce erba,

su la dolce erba e su ’l mio dolce crine.

Ardo di te come tu di me ardi.

O Apollo, o re Apollo, perché tardi?

Già tutta quanta sentomi inverdire”.

Il dolce crine è già novella fronda

intorno al viso che si trascolora.

La figlia di Peneo non è piú bionda;

non è piú ninfa e non è lauro ancora.

Sola è rossa la bocca gemebonda

che del novello aroma s’insapora.

Escon parole e lacrime odorate

dall’ultima doglianza. O fior d’estate,

prima rosa del lauro che s’infiora!

Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue

la bocca che querelasi interrotta-

mente. In pallide fibre il cor si sface

ma il suo rossore è in sommo della bocca.

Desioso dolor preme l’amante.

Guarda ei l’arbore sua ma non la tocca;

l’ode implorare ma non ha virtú.

E chiama: “Dafne, Dafne!” Ella non piú

implora, non piú geme. “Dafne, Dafne!”

Ella non piú risponde: è senza voce.

Pur la gola sonora è fatta legno.

Le palpebre son due tremule foglie;

li occhi gocciole son d’umor silvestro;

bruni margini inasprano le gote;

delle tenui nari è appena il segno.

Ma nell’ombra la bocca è ancora sangue,

sola nel lauro la bocca di Dafne

arde e al dio s’offre, virginal mistero.

Curvasi Apollo verso quella ardente,

la bacia con impetuosa brama.

Ne freme tutta l’arbore; s’accende

l’ombra intorno alla fronte sovrana;

ogni ramo in corona si protende,

e la fronte d’Apollo è laureata.

Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci

or piú non sente che foglie vivaci,

amare bacche. E Dafne Dafne chiama.

“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei tutta!

Ahi chi ti fece al mio desio diversa?

In durissimo tronco e in fronda cupa

la dolce carne tua or s’è conversa.

La tua bocca vermiglia s’è distrutta,

che pareva di fiamma ardere eterna.

Come leggieri i piedi tuoi su l’erba,

or radicati nella negra terra!

M’odi tu? M’odi tu? Dafne, sei muta?

Rispondi!” Abbrividiscono le frondi

sino alla vetta. Nel silenzio un breve

murmure spira. “M’odi tu? Rispondi!”

Move la vetta un fremito piú lieve.

Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi

cieli le rive alto silenzio tiene.

Il bellissimo lauro è senza pianto;

il dolore del dio s’inalza in canto.

Odono i monti e le valli serene.

Odono i monti e le valli e le selve

e i fonti e i fiumi e l’isole del mare.

Spandesi il canto dall’anima ardente

e per tutte le cose generare.

La bellezza di Dafne ecco riveste

la terra; le sue membra delicate

son monti e valli e selve e fiumi e fonti,

il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,

la sua chioma fa l’oro dell’estate.

O Dafne, sempre il dio e l’uom cantando

non vorranno altro onor che un ramoscello

di te! Cosí l’Arco-d’-argento, quando

ha placato il suo cuore nell’immenso

inno, pago si giace sotto il sacro

lauro ad attendere il suo dí novello.

Cade la notte. Sul sonno divino

l’arbore luce d’un baglior sanguigno,

qual bronzo che si vada arroventando.

Scorre la notte. Tra l’Olimpo e l’Ossa

una stella tramonta e l’altra sale.

Misteriosa l’arbore s’arrossa

ma sul suo fuoco piovon le rugiade.

Sogna il Cintio la desiata bocca

di Dafne, e balza il suo cuore immortale.

E’ l’alba, è l’alba. Il dio si desta: un grido

di meraviglia irraggia tutti il lido.

Brilla di rose il lauro trionfale!»

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