L’auletride

Io rinvenni la pelle dell’incauto

Frigio nomato Marsia appesa a un pino,

sul suol roggio il coltello del divino

castigatore e, presso, il doppio flauto.

Questo raccolsi trepidando, o Glauco.

E, immemore del flebile destino,

io son osa talor nel mio giardino

chiuso carmi dedurre sotto il lauro.

Rivolgomi sovente e guardo s’Egli

non apparisca a un tratto, l’Immortale.

Ma non mi trema il mio labbro fasciato.

Vivon nell’orror sacro i miei capegli

ma per l’angustia del mio petto sale

il superbo di Marsia antico afflato.

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