Undulna

Ai piedi ho quattro ali d’alcèdine,

ne ho due per mallèolo, azzurre

e verdi, che per la salsèdine

curvi sanno errori dedurre.
Pellúcide son le mie gambe

come la medusa errabonda,

che il puro pancrazio e la crambe

difforme sorvolano e l’onda.
Io l’onda in misura conduco

perché su la riva si spanda

con l’alga con l’ulva e col fuco

che fànnole amara ghirlanda.
Io règolo il segno lucente

che lascian le spume degli orli:

l’antico il men novo e il recente

io so con bell’arte comporli.

I musici umani hanno modi

lor varii, dal dorico al frigio:

divine infinite melodi

io creo nell’esiguo vestigio.

Le tempre dell’onda trascrivo

su l’umida sabbia correndo;

nel tràmite mio fuggitivo

gli accordi e le pause avvincendo.

O sabbia mia melodiosa,

non un tuo granello di sílice

darei per la pómice ascosa

della fonte all’ombra dell’ílice.

Brilli innumerevole e immensa

alla mia lunata scrittura;

e l’acqua che bevi t’addensa,

lo sterile sale t’indura.

Il rilievo t’è tanto sottile,

dedotto con arte sí parca,

che men gracile in puerile

fronte sopracciglio s’inarca.

A quando a quando orma trisulca

il lineamento intercide;

pesta umana, se ti conculca,

s’impregna di luce e sorride.

Figure di nèumi elle sono

in questa concordia discorde.

O cètera curva ch’io suono,

nè dito nè plettro ti morde.

Io trascorro; e il grande concento

in me taciturna s’adempie,

dall’unghie de’ miei piè d’argento

alle vene delle mie tempie.

Scerno con orecchia tranquilla

i toni dell’onda che viene,

indago con chiara pupilla

piú oltre ogni segno piú lene;

cosí che la musica traccia

m’è suono, e ne’ righi leggeri,

mentre oggi odo ansar la bonaccia,

leggo la tempesta di ieri.

Che è questo insolito albore

che per le piagge si spande?

Teti offre alla madre di Core

dogliosa le salse ghirlande?

L’albàsia dè giorni alcionii

anzi il verno giunge precoce

e dagli arcipelaghi ionii

attinge del Serchio la foce?

Il molle Settembre, il tibícine

dei pomarii, che ha violetti

gli occhi come il fiore del glícine

tra i riccioli suoi giovinetti,

fa tanta chiaría con due ossi

di gru modulando un partènio

mentre sotto l’ombra dei rossi

corbézzoli indulge al suo genio.

Respira securo il mar dolce

qual pargolo in grembo materno.

La pace alcionia lo molce

quasi aureo latte, anzi il verno.

Onda non si leva; non s’ode

risucchio, non s’ode sciacquío.

Di luce beata si gode

la riva su mare d’oblío.

La sabbia scintilla infinita,

quasi in ogni granello gioisca.

Lúccica la valva polita,

la morta medusa, la lisca.

In ogni sostanza si tace

la luce e il silenzio risplende.

La Pania di marmi ferace

alza in gloria le arci stupende.

Tra il Serchio e la Magra, su l’ozio

del mare deserto di vele,

sospeso è l’incanto. Equinozio

d’autunno, già sento il tuo miele.

Già sento l’odore del mosto

fumar dalla vigna arenosa.

All’alba la luna d’agosto

era come una falce corrosa.

Di Vergine valica in Libra

l’amico dell’opere, il Sole;

e già le quadrella ch’ei vibra

han meno pennute asticciuole.

Silenzio di morte divina

per le chiarità solitarie!

Trapassa l’Estate, supina

nel grande oro della cesarie.

Mi soffermo, intenta al trapasso.

Onda non si leva. L’albèdine

è immota. Odo fremere in basso,

a’ miei piedi, l’ali d’alcèdine.

Bianche si dilungan le rive,

tra l’acque e le sabbie dilegua

la zona che l’arte mia scrive

fugace. Sorrido alla tregua.

A’ miei piedi il segno d’un’onda

gravato di nero tritume

s’incurva, una màcera fronda

di rovere sta tra due piume,

un’arida pigna dischiusa

che pesò nel pino sonoro

sta tra l’orbe d’una medusa

dispersa e una bacca d’alloro.

Vengono farfalle di neve

tremolando a coppie ed a sciami:

nella luce assemprano lieve

spuma fatta alata che ami.

Azzurre son l’ombre sul mare

come sparti fiori d’acònito.

Il lor tremolío fa tremare

l’Infinito al mio sguardo attonito.

(Composta alla Capponcina di Settignao il 4 novembre 1903)

Share on Twitter Share on Facebook