IL CONVEGNO

Ero appena arrivato col treno alle due di notte e a stento avevo potuto trovar posto in un albergo di terz’ordine.

Non avevo sonno, e però indugiavo nella mia stanzetta, senza decidermi a coricarmi, intento a vuotare la valigia di tutte le piccole cose indispensabili o inutili che io avevo l’abitudine di recare sempre con me: una collezione di forbicine di tutte le grandezze, una piccola tartaruga viva, una bambola e un pappagallino imbalsamato. Disponevo queste cose bene allineate sul marmo del cassettone, come se non avessi dovuto, in quell’albergo, fermarmi pochissime ore. Ma ero certo che se non avessi fatto così non sarei riuscito a prender sonno. E poichè il sonno pareva che dovesse arrivare da una stazione lontana anche lui – anzi non era certo che fosse pure partito – io seguitavo a camminare per il lungo e per il largo, quasi che non bastassero i chilometri che avevo percorso in treno e fosse necessario aggiungerne altri.

Infine, per commiserazione di chi occupava la stanza sotto di me, e di chi occupava la stanza attigua (dalla luce che filtrava dalla porta di comunicazione si capiva che anche quello vegliava o stentava ad addormentarsi), mi risolvevo a mettermi a letto, quando sentii picchiare dolcemente a quella porta. Chiesi, avvicinandomi:

— Chi è? Ha bisogno di qualche cosa?

Rispose una voce leggermente affannata:

— Signore... Signore... venga da me per piacere...

E mentre io, perplesso, stavo pensando se fosse possibile passare per l’uscio di comunicazione o se fosse necessario girare dal corridoio, la voce suggerì:

— Giri la chiave dalla sua parte, poichè io ho già tolto il paletto dalla mia...

Entrai e vidi un uomo dal volto pallidissimo (poteva avere la mia età) che giaceva sul letto e aveva l’aria molto affaticata. Appena mi vide mi squadrò da capo a piedi, poi mi fissò coi suoi occhi grigi così acutamente che io ne ebbi una impressione leggermente fastidiosa.

— Perdonate se vi ho disturbato, signore... Non volevo farlo, ma poi ho sentito che passeggiavate per la stanza.

— Non importa, non importa... Ditemi che cosa posso fare per voi... Vi sentite poco bene?

— Non si tratta di questo... Sì, sto male, ma ho ancóra qualche ora di vita. Non si tratta di questo... No, mettetevi a sedere, è inutile, per ora, chiamare alcuno. Quando sarete rientrato nella vostra stanza, farò venire un cameriere perchè chiami un dottore... L’importante è di non perder tempo. Sedete, vi prego, su quella sedia dinanzi a me.

Io obbedii docilmente.

Mi piacevano le avventure stravaganti. Le avevo sempre cercate e più spesso inventate per mio conto. Il caso ora me ne offriva una il cui inizio non mancava di una certa drammaticità. Attesi dunque col cuore trepidante che quello strano uomo, il quale fisicamente mi somigliava, cominciasse il racconto.

— Mi chiamo Eller: Davide Eller. Sono nato a Pennapiedimonte (sapete dov’è?) trent’anni fa... Da dieci anni mi sono dedicato ardentemente agli studi spiritici... Ho partecipato a tutti i congressi internazionali e sono oggi considerato tra gli studiosi della nostra scienza uno degli sperimentatori più attivi e intelligenti. Sono anche direttore di una rassegna occultista a cui ho sempre collaborato con grandissima fede. E poichè abbiamo proseliti in tutto il mondo, si può dire che io sia stato in corrispondenza epistolare con lettori e studiosi d’ogni regione d’Italia. Una delle maggiori fatiche della rassegna è stata sempre quella di dover rispondere alle domande degli abbonati che chiedono delucidazioni, prove, testimonianze, e portano d’altronde un prezioso contributo alla popolarità della scienza. Tra questi abbonati uno dei più assidui era il giudice a riposo X... abitante in questa città, via Y... numero tale... Sua figlia, da due anni a questa parte, aveva sostituito il padre nella corrispondenza, e s’era anzi messa in diretta comunicazione con me rivelando un’acutezza di osservazione e una sensibilità squisita. Vi dirò che le nostre lettere, in questi ultimi tempi, avevano assunto una cordialità quasi sentimentale, ma appena appena, sapete... Una sfumatura. Quasi sempre riguardavano i problemi della reincarnazione, essendo la signorina un’ardente reincarnazionista. Io dovevo conoscerla oggi... Sì, oggi ella mi aspetta nella sua casa, alle cinque, ma non farò in tempo, perchè tra poco avrò una nuova crisi del mio male a cui sarà impossibile che io sopravviva. Io, dunque, morirò prima di vederla, prima di conoscerla. Vogliate per cortesia portarle i miei saluti. Ditele che l’estremo mio pensiero fu rivolto a lei. Spero, signore, che vorrete consentire a recare questo messaggio.

Io risposi:

— Certamente, signore.

— Prima che entraste in questa stanza – aggiunse con maggiore fatica il moribondo – non ero sicuro che vi avrei affidato una simile missione. Ma appena vi ho visto ho capito che avrei potuto fidarmi di voi. Addio, signore...

Uscendo da quella stanza ebbi l’impressione di aver conosciuto un pazzo, più che un moribondo. Ma poche ore dopo quell’uomo era morto.

Io uscii dall’albergo senza essere notato da alcuno. A causa della grande folla di viaggiatori, nessuno, nè prima nè poi, si accorse di me.

Per prima cosa andai a deporre la valigetta alla stazione. A mezzogiorno pranzai in un ristorante del centro. Alle cinque del pomeriggio ero dinanzi alla villetta della signorina X. Dal sorriso di soddisfazione con cui la cameriera venne ad aprire il cancello, capii che ero atteso.

Sùbito per le stanze echeggiò una lieta voce che pronunziava il nome dell’altro. Ma quel nome, non so perchè, non suonò estraneo al mio orecchio. Mi parve, confusamente, che mi appartenesse. E io stavo per pronunziare le parole di circostanza con cui mi ero proposto di eseguire il messaggio, allorchè l’apparizione radiosa della signorina finì per immobilizzarmi. Fu un istante di perplessità che m’imprigionò per sempre. L’istante che seguì era troppo tardi. Io mi chiamavo Davide Eller!

Fui invaso da una gioia sconfinata. Mai più nella vita io ne provai altra eguale.

Non già la gioia di rubare la felicità nei giardini altrui o di prenderla d’assalto allo svolto d’una strada come si faceva una volta alle diligenze; bensì la gioia di dare un volto a una misera ombra; riprendere il filo di un’esistenza, congiungendolo con un’altra anima, e farlo rifulgere al sole; superare la morte contendendole il diritto di chiudere un uomo nella tomba: ecco di che era fatta la sconfinata gioia di cui si abbeverava la mia mirabile avventura!

Fu questa condizione spirituale di superamento, quasi di estasi, che diede alle mie parole una vastità pittoresca e alla mia voce una risonanza fantastica che giungeva perfino nuova al mio orecchio.

Solo quando vidi che quella donna si avvicinava a me con la sua anima trepida – quella donna che sùbito mi apparve come l’unica che forse avrei amata – solo allora capii che s’iniziava per me il dramma della mia esistenza. Io avevo voluto contendere la felicità alla morte, e la morte stava per imprigionare in una delle sue tombe la mia nascente speranza!

Un’ora era trascorsa quando il padre della ragazza mi chiese se consentivo a rimanere a pranzo con loro.

Fu come se qualcuno mi avesse frustato la schiena all’improvviso.

Qualcuno infatti mi aveva preso per le spalle e mi attirava a sè come per dirmi: «Vieni, è la tua ora».

Risposi:

— Non posso. Ho un impegno all’albergo.

— Quale albergo?

Io dissi il nome. Poi il giudice mi chiese sorridendo se per avventura il mio impegno fosse di quelli che si potevano sciogliere facilmente, poichè tanto lui che la signorina desideravano vivamente che io rimanessi con loro.

Io dissi:

— Alle sette devo farmi seppellire.

Entrambi scoppiarono a ridere, e forse trovarono lo scherzo (e avrebbero avuto ragione, se in realtà fosse stato tale) di pessimo gusto.

— È dunque un convegno coi vostri funerali?

A mia volta sorrisi e risposi di sì, mentre una fitta ombra, che io non dimenticherò mai, scese come una cortina di lutto sui dolci occhi e sul volto radioso di colei ch’era l’unica al mondo che avrei forse amata...

Sùbito dopo la mia partenza, il giudice e la figlia scrissero a Davide Eller una lettera in cui, dopo aver scherzato sul suo lugubre impegno, rinnovarono il loro invito a pranzo. E stavano per chiamare il servo per incaricarlo di recapitare la lettera, quando la fanciulla propose di andare a portarla lei stessa insieme col padre. L’avrebbero lasciata al portiere.

E avendo consentito il padre, entrambi si diressero a piedi verso l’albergo, dove arrivarono nel momento preciso in cui sulla stessa strada passava un convoglio funebre.

Disse il padre:

— Guarda che strana coincidenza! — mentre la figliuola con un brivido gli si stringeva al fianco.

Poi consegnò la lettera al gallonato portiere, il quale, avendone con stupore letto l’indirizzo, additò con melodrammatico gesto il convoglio e disse:

— Eccolo là che parte!

— Chi?

— Il signor Davide Eller.

Il giudice balbettò: — Non capisco —, mentre il feroce portiere spiegava:

— Se ne va... Se ne va... La lettera sarebbe meglio spedirla per la posta...

— Morto?

— Morto.

— Quando?

— Stamane alle cinque. Era appena arrivato questa notte.

Ma sùbito dovettero occuparsi della signorina che cadeva a terra svenuta.

Si persuasero, infine, di aver avuto la visita di uno spettro.

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