IL GIURAMENTO

Non è una prova della benignità celeste chiamarsi Ismaele; ma egli s’era abituato a portare quel nome con umiltà sin da ragazzo, e lo conservò anche nell’adulta età.

Era nato per sopportare, e sopportò anche una moglie la cui purezza aveva trasmigrato qualche anno prima ch’egli la sposasse, per il vivo interessamento personale di un bellimbusto del paese. Dopo averla sposata, ne diventò geloso.

Questo fu l’inizio d’una lunga serie di guai per Ismaele, il quale aveva anche il vizio di ubbriacarsi: e non volendo far torto a nessuno dei giorni della settimana, si ubbriacava tutte le sere.

Ubbriacarsi ed essere geloso! Il vino annebbiava i suoi atroci dubbi sulla fedeltà della consorte e, annebbiandoli, li moltiplicava. Tutte le sere, quando tornava a casa barcollando, vedeva anche due campanili invece di uno: e due campanili eran troppi per quella piccola città di provincia.

Ora avvenne che una sera egli dimenticò di bere, perché aveva un’idea straordinaria nella testa. Rientrò in casa dopo aver osservato, con stupore, che esisteva un campanile solo, fece inginocchiare la moglie dinanzi al crocefisso e la obbligò a giurare che sarebbe stata fedele per tutta la vita.

Stupita dall’intempestività di quel comando maritale, e, più ancóra, dal fatto che quella sera egli non puzzasse di vino, la donna giurò: anche perchè non avrebbe potuto fare altrimenti. Poi si mise a piangere per l’umiliazione – disse – di dover vivere così miseramente sospettata dal marito mentre ella era, in fin dei conti, una donna onesta. E poichè, in fin dei conti, poteva aver ragione, il marito si commosse e cercò di consolarla.

A sua volta poi volle che il marito giurasse la stessa cosa, con una complicazione di voti ancor più ardua:

— Giuro che non ingannerò mia moglie. Giuro che, se mai l’ingannassi, non potrò arrogarmi il diritto di muoverle rimprovero anche se la trovassi abbracciata con un altro uomo.

Data la solennità del giuramento, convenne a tutti e due mettersi a letto.

Ora avvenne che nei primi giorni di agosto di quell’anno, molta gente si recasse, com’era l’usanza, in pellegrinaggio a Miglianico, al santuario di San Pantaleone.

Negli anni passati Ismaele aveva lasciata andar sola la moglie, in compagnia di parenti e amiche. Quell’anno decise di accompagnarla perchè, non essendosi più ubbriacato, doveva ringraziare il santo di quel miracolo ottenuto per divina grazia del Cielo. E così andarono in grossa comitiva su due mambrucche tirate da asini, cantando nenie sacre sotto la sferza del sole.

A Miglianico trovarono una folla enorme e la chiesa invasa dai fedeli, che entravano, uscivano, si pigiavano, si urtavano, disordinatamente.

Ismaele, dopo aver raccomandato alla moglie di non allontanarsi troppo dalle amiche, volle anche lui entrare in chiesa, tenendosi per mano a un suo compare che aveva nome Gianluca, il quale si era partito con la stessa comitiva dal suo paese. Era questo Gianluca basso di statura col viso acceso, e bevitore straordinario. Dopo un lento giro per la chiesa (Ismaele si era anche inginocchiato a ringraziare il santo) Gianluca lo prese sotto il braccio e lo trascinò in cantina.

Non ostante i suoi buoni propositi, dopo di essersi sempre più debolmente schermito, Ismaele bevve, bevve, mentre Gianluca gli decantava le virtù del vino.

— Non arrivo a capire come mai tu abbia smesso di bere. Un uomo come te! L’acqua è un castigo del Signore, e infatti fu data a bevere per distruggere l’umanità al tempo del diluvio... Io per conto mio ho sempre onorato la mia botte, e tu sai che in cantina, nella mia cantina, è il più gran tesoro che io abbia nella casa. E il più bel giorno dell’anno è quello della svinatura quando io mi metto dinanzi a lei con la mia fisarmonica e le suono e le canto la serenata! Di tanto onore non è degna che la botte, che ti dà l’allegria, mentre se canti la serenata a una donna, essa ti dà dei dispiaceri...

— Tu hai un bel dire – obbiettava Ismaele – ma io devo sorvegliare mia moglie...

Gianluca scoppiò a ridere.

— È meglio che tu lo faccia quando sei ubbriaco, però che sorvegliare una donna è una impresa a cui si accinge chi è svanito di mente...

— Tu credi che non si possa sorvegliare una donna?

— Io credo che ognuno è padrone di perdere il suo tempo.

— Anche se c’è di mezzo un giuramento, Gianluca?

— Quale giuramento?

— Tutti e due abbiamo giurato...

— Ah sì? Anche tu? Sei proprio ingrullito del tutto! E che hai giurato, si può sapere?

— Ho giurato che se io dovessi mai confondermi con altra donna non avrei più il diritto di bastonarla, ancorchè avessi a sorprenderla nelle braccia di un altro uomo...

— Che bestia! Che bestia!

— Il giuramento, Gianluca!

— Non ho mai conosciuto una bestia che ti somigliasse!

Ismaele vedeva ora due Gianluca dinanzi a sè, alla stessa guisa che, quando rincasava in paese, vedeva due campanili.

Intanto sopraggiunse la notte: una notte illune, sorrisa da miriadi di stelle.

I pellegrini dormivano all’aperto, a gruppi sparsi qua e là: e appena le masse nere s’intravedevano nell’ombra. Dormivano o bivaccavano sopra un vasto prato non lungi dalla chiesa. Ogni tanto si accendeva una piccola luce. Qualcuno vegliava fumando la pipa.

Ma a poco a poco tutte le voci cessarono. Anche i venditori ambulanti, dopo essersi sgolati per un intero giorno, russavano dolcemente distesi sopra i carretti. Alcune donne sedevano col dorso appoggiato a tronchi d’alberi e dormicchiavano con la testa reclina sul petto, mentre sostenevano con le ginocchia i bambini attaccati alle mammelle. Qualche bambino vagiva debolmente, e sùbito il vagito si spegneva nel gorgoglio del latte che lo consolava. Uomini e donne giacevano per terra disordinatamente, oppressi dalla stanchezza, dal sole e dal vino. Alcuni gemevano o sospiravano nel sonno come turbati da visioni incresciose. Qua e là, accanto ai carretti, le mule mangiavano il fieno. Qualche altra brucava l’erbe del prato: e, se avevano al collo una campanella, ogni strappo era una scampanellata.

Voci fioche, soffi, sospiri nella gran caldura. Fluttuava nell’ombra come un sottile velario caliginoso che faceva apparire più nera la notte e più lontane le stelle.

Quando Ismaele si diresse, brancicando, verso il prato per cercare sua moglie, questa doveva essere addormentata da gran tempo in qualche angolo, in compagnia delle amiche. Non gli rimaneva, dunque, che distendersi sotto un carretto e farsi prendere dal sonno che già pareva che lo accecasse.

E così fece. Se non che, destato forse di soprassalto dallo scampanio della mula, cercò con le mani accanto a sè, credendo forse di essere nel suo letto. E afferrò il manico di un bidente – gli parve – mentre era invece la caviglia di un piede, cercò ancóra incespicando nel groviglio delle gonne e allora pensò che sua moglie sbadatamente s’era distesa sul letto senza svestirsi... Quando capì che quella non era sua moglie, ch’egli non era sul suo letto e che si trovava invece disteso sul prato, era troppo tardi, perchè la donna ch’era accanto a lui, dopo essersi bruscamente schermita, o fosse troppo assonnata, o troppo stanca, o fosse anche una mala femmina, non volle più saperne. Intendo dire che non volle più sapere di schermirsi.

E già Ismaele si apparecchiava a lacrimare, irreparabilmente, sul suo adulterio, quando udì sua moglie che gli gemeva tra le braccia:

— Chi sei tu? Chi sei? È possibile che mi debba capitare tutti gli anni la stessa cosa?

Ismaele ghermì al collo la sciagurata, deciso a strangolarla, quando qualche cosa gli sferzò le reni: ed era il ricordo del suo giuramento.

Così ella fu salva. E che poteva egli fare?

In alto, sul loro capo, era il pio sguardo e il luccicar velato delle stelle divine.

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