LE GHIANDE

Un giorno della mia vita in cui più che mai mi sentivo disposto ad ascoltare gli ammonimenti primaverili della terra, trovai la vecchia quercia troneggiante sul colle assai malinconica.

Una quercia centenaria dovrebbe rassegnarsi a quella compostezza sorridente che è una specie di grazia della vecchiaia. Vederla così triste mi fece l’effetto di una sciagura quasi anacronistica, e però le rivolsi alcune parole di rampogna, temperate da quel certo rispetto che il padrone accorda al fittavolo onusto di anni e di servigi.

— Tu lo vedi – mi disse – sono carica di ghiande, e nessuno più le raccoglie. C’è penuria di porci, nel mondo, amico mio: e questa è una grande sciagura per la terra.

— Credo che tu sia in errore – risposi – : i porci non mancano. Solo è un po’ difficile oggigiorno riconoscerli per il fatto che non mangiano più ghiande. Ma tu non ti crucciare. Io raccoglierò i tuoi frutti che mi vengono richiesti da un negoziante il quale li smercerà come nocelle americane, e li insinuerà nel cioccolato, nel caffè e in altre droghe.

— Se tu credi che questo mi possa consolare! — obbiettò la quercia.

Allora cominciai a infastidirmi.

— Infine – dissi – non posso inventare dei porci per farti piacere!

— Ahimè! – gemè la pianta. – Dopo tanti anni da che faccio la quercia, devo vedermi umiliata a tal punto?

— C’è della gente, amica mia, che per strappare la vita giorno per giorno deve ingoiare delle pillole più amare delle tue! Lo so, lo so che era una delizia degli occhi e dello spirito vedere tutti i giorni sotto la tua grande ombra raccogliersi i bei maialini ridanciani, vecchissimi negli occhi e fanciulli in tutto il resto... Io stesso li guidavo fino a te, ben felice di potermi sedere sopra una zolla, a una certa ora del giorno, mentre tutti quei ragazzi si aggiravano qua e là, a loro modo ruzzando e cicisbeando; e tu maternamente facevi cadere a terra le tue dovizie, felice di pascere una così ricca folla: intendo dire una folla ricca di code ricciolute, la cui arguzia è celebrata anche nelle antiche favole...

— E allora?

— Allora, che vuoi che ti dica? Ho visto la mia mandra diventare sempre più esigua di numero e a poco a poco scomparire. Ognuno ha scelto un altro mestiere. Non voglio dire quale, perchè sono diversi ed è impossibile enumerarli. Infine, tutti si vergognano di fare il porco.

— E che mi consigli di fare?

— Io ti consiglio, o mia vecchia quercia, di seguitare a fabbricar ghiande. Qualcuno le raccoglierà. Se potessi mangiarne io, per farti piacere, lo farei con tutto il cuore: ma tu sai benissimo che certe cose sono impossibili a compiere se non si è nati per farle. E io sono un povero fattore che vive del suo modesto pane, e non ha alcuna speranza di comprarsi un giorno, col frutto delle sue piraterie amichevoli, le terre del padrone. Dunque mettiti l’animo in pace e pensa, se vuoi consolarti e se vuoi inorgoglire, che sei la pianta più ragguardevole del colle, e forse del mondo. Pensa che sei stata scelta come modello di corone illustri. Pensa che sei simbolo di forza, e che gli usignoli si posano sui tuoi rami per inaugurare la primavera.

Avendo ascoltate queste parole, la quercia inorgoglì: e sparse ghiande fin dai culmini dei suoi rami per l’allegrezza. Ma tutti sanno che la quercia, da che mondo è mondo, non è stata mai di legno dolce. Ecco perchè, persuasa più che mai di aver ricevuto un affronto, insistette nei suoi dinieghi:

— Tutte belle cose – disse –, ma io voglio che si faccia un’inchiesta. Voglio che si nomini una commissione e si veda fino a che punto è consentito ai porci di disertare le ghiande...

— Se proprio ti fa piacere – risposi – interrogherò i personaggi più cospicui del paese, farò nominare una commissione d’inchiesta col preciso incarico di arrivare fino in fondo: e spero che tu sarai soddisfatta.

Tornato in città, compilai un elenco di gentiluomini scelti tra il fior fiore dei cittadini.

Volli anche interrogarli uno per uno, prima che partissero per un sopraluogo, com’era stato deciso, avendo io in animo di condurre l’inchiesta con estremo rigore.

Il primo dei commissarii, presidente della società di protezione degli animali, contrappose ai miei ragionamenti melliflui un’argomentazione non priva di acume:

— C’è nel mondo, egregio signore, una dovizia di ghiande superiore alla richiesta che se ne fa sul mercato, e questo dovrebbe ammonire sensibilmente la gravità delle quercie. Il nodo della questione è tutto qui. Se i porci hanno disertato le ghiande, è perchè si è effettuato un enorme progresso nella razza, mentre le quercie sono rimaste tali e quali, e per dei secoli si son lasciate cullare dall’illusione di aver sempre una mandra sotto di loro. Invece no. L’umanità è progredita. I porci rifiutano le ghiande per il semplice fatto che non sono più tali. Altrimenti le appetirebbero. Ecco perchè io ritengo che la quercia, pianta quasi apollinea, è anacronistica nei suoi frutti, e perciò meritevole del graduale deprezzamento a cui è andata incontro.

Un altro membro della commissione, vicesegretario di una società di propaganda per la intemerità dei costumi, si mostrò ancóra più severo:

— Queste dispensatrici di ghiande – disse – dovrebbero capire che coi tempi che corrono, sarebbe onesto chiudere l’esercizio. Quando un albero non possiede la decenza dei suoi frutti, si faccia fulminare dalla folgore, divenga sterile, si faccia ardere nei camini delle case, ma non offenda l’umanità.

Una signora perbene che, per giudizio unanime, dato il suo passato impeccabile e il suo avvenire malinconico, era entrata a far parte della commissione quale modello di purità, mi parlò bonariamente:

— Senta, signore. Io non ho idee preconcette in proposito. Ma posso assicurarla che di quelle creature cui alludono le quercie io non ne ho mai incontrate nella vita: segno è che se ne è spenta la razza. È vero che ho finito col non trovare marito, ma questo è dipeso dal fatto che io ho incessantemente aspirato alla purezza. E la purezza, signore, non si pasce di ghiande.

Chinai il capo e porsi l’orecchio al quarto commissario.

— Bisogna convertire le quercie in nespole del Giappone, mediante sapienti innesti: però che ciascuna pianta ha la reputazione dei frutti che dà.

Dato l’eccellente risultato degli interrogatorii, e il buon affidamento che io ne trassi, incaricai senz’altro la commissione d’inchiesta di procedere a un sopraluogo. E per correttezza volli avvisare anche la quercia.

— Domattina – le dissi – avrai la visita della commissione d’inchiesta. Essa è formata dal fior fiore del paese, e tu potrai fiduciosamente assoggettarti al suo giudizio.

In quei giorni io dovetti sovraintendere alla potatura di parecchie centinaia di pioppi del Canadà: alberi alteri, dignitosi, i quali seguono i corsi dei fiumi con austerità, e disdegnano qualsiasi conversazione con gli uomini.

Ma, terminata la potatura, per prima cosa mi recai in cima al colle per avere dalla quercia notizie della famosa visita. E cammin facendo chiedevo a me stesso:

— Come sarà andata? L’avranno tramutata in nespola? L’avranno rasa al suolo? L’avranno obbligata a qualche crudele sottomissione?

Fu dunque con una grande ansietà nel cuore che raggiunsi la sommità del colle: dove mi accorsi sùbito che la quercia era raggiante.

Fu tale il mio stupore che rimasi parecchio tempo col naso in aria prima di poter articolare una parola.

— Ma come! – esclamai alla fine. – Ti hanno dato ragione!

— Tu lo vedi – rispose la quercia: – non solo mi hanno dato ragione (io del resto li avevo riconosciuti alla prima occhiata): ma hanno finito col divorare tutte le mie ghiande!

Per fortuna, a consolare il mio stupore, si posò in quel momento sopra un ramo della quercia un usignolo che diede col suo canto l’annunzio ufficiale della primavera.

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