I due amici si prepararono a passare la notte in quella città di provincia con molta allegria.
Non già che avessero in mente di divertirsi nella ricerca di qualche silfide del luogo. Erano per conto loro così burloni, e ameni, e grassi, che non avevano bisogno di altra compagnia per passare il tempo con piacevolezza.
Anche i loro nomi erano scorrevoli e placidi. Pareva che, appena pronunziati, rientrassero nel grasso cuore dei loro legittimi proprietari.
— Pilade...
— Saverio...
Per maggiore comodità, quando uno degli amici riceveva il nome pronunziato dall’altro, lo inghiottiva come un dolce. Poi, avendolo assaporato, dava una risposta confortevole, rispondente alla sua giovialità.
— Pilade...
— Saverio...
— Saverio, questo alberghetto mi pare alquanto ammuffito...
— Hai ragione: ma possiede un bel campanile che lo ringiovanisce: e un orto, accanto alla chiesa, che lo odora, lo imbalsama, gli insegna i buoni costumi...
— Sentiremo la campana suonare il mattutino...
— Dio, che bellezza! Il mattutino, suonato da una campana di provincia... Mi troverai disteso sul letto, morto dalla gioia!
— Adesso, intanto, andiamo a dormire...
— Hai niente da leggere? Nemmeno un giornale? A me basta qualunque cosa per prender sonno... Anche il listino della Borsa...
— Guarda nel cassetto del comò. Ci devono essere delle vecchie carte.
Tirarono fuori dal comò un vecchio catalogo di fucili da caccia. Nessuno dei due aveva mai preso in mano un fucile. Ma Saverio osservò:
— Questo va benissimo per me.
Pilade fu più fortunato. Scovò un vecchio dizionarietto tedesco a cui mancava la metà delle pagine.
— Che bellezza! – esclamò – non capirò un accidente. Ecco un sonnifero coi fiocchi!
E andarono a letto. La mattina dopo la campana suonò puntualmente il mattutino. Pilade si alzò ed entrò nella camera dell’amico per rimettere il dizionario nel cassetto.
— Altro che Veronal, mio caro! Effetto mirabile, immediato! E il tuo catalogo d’armi?
— Al terzo fucile, non ostante che il catalogo fosse inumidito, avevo già sparato l’ultima cartuccia...
A un tratto Pilade, che seguitava a rovistare nel cassetto, esclamò:
— Per bacco! Ecco un bel pacchetto di biglietti da visita! Peccato che non c’è scritto il mio nome! Li avrei sùbito adoperati!
— Li avrà dimenticati qualche cliente.
— E sai come si chiama questo cliente? Peppino Speranzella!
— Ah! ah!
— E sai che professione esercita? «Gerente della Società Saponi da bucato e affini»...
— Ah! ah! Peppino Speranzella!
I due amici si misero a ridere così nutritamente che era quasi inutile, ormai, ordinare il caffè e latte...
— Mi sai dire quali sono gli affini del sapone?
— La liscivia, la pietra pomice, la radica saponaria...
— Allora bisogna giocare un bel tiro a questo signor Speranzella!
— Certamente! Comincia col metterti in tasca cinquanta biglietti. Gli altri cinquanta li metto in tasca io...
— Ah! ah! L’avrà a che fare con noi il signor Speranzella!
— Giura che non gli darai tregua!
— Lo giuro perchè non merita nessun riguardo!
— Tutti quegli affini!
— Un donnaiuolo! Non può essere che un donnaiuolo!
— Gli regalerò le mie avventure galanti!
— Anch’io! Del resto, presentandoci con un nome simile saremo affascinanti! Nessuna donna dirà di no.
— Peppino Speranzella!
— E poi... Gli affini del sapone!
— Hai ragione – concluse gravemente l’amico. – Sono di quelle seduzioni a cui è impossibile resistere.
Con questi piacevoli conversari i due amici, essendo obbligati dai loro affari a prendere i due treni che avevano direzioni opposte, si augurarono l’un l’altro un’allegra fortuna e si lasciarono.
E fu così che dopo alcuni giorni si iniziò la fortunosa odissea sentimentale del signor Speranzella...
Sua moglie, che aveva nome Zerbina ed era grassotta, piacente e gelosa, quando vide arrivare il primo biglietto profumato, coi «memori saluti» di Mimì Calabresi, fece al marito una di quelle scene madri che si chiamano tali perchè non restano mai sole e generano sempre una lunga figliuolanza di altre scene che superano per violenza l’infausta genitrice.
— Ti giuro che non ho colpa di niente. Ti giuro che non conosco neppure di nome questa Mimì Calabresi.
Dinanzi a una menzogna così spudorata, la signora Zerbina straripò dal busto e uscì dai gangheri.
— Si tratterà di un equivoco. Questo bigliettino viene da Vicenza. Io non sono stato in questi giorni a Vicenza.
— E che vuol dir questo? La signorina sarà andata a Vicenza per suo conto! Questo non esclude che possiate esservi trovati in qualche altro posto!
Pareva impossibile! Un uomo così placido che, tra le altre cose, stava impiantando nell’orto un pollaio moderno con luci artificiali che dovevano illuminarlo giorno e notte! (Pare assodato che le galline non fanno l’uovo di notte, sapete perchè? Non già che non l’abbiano pronto, ma perchè non ci vedono. Illuminare il pollaio anche nelle ore notturne vuol dire perciò obbligare le galline a un lavoro doppio). Il signor Peppino fu distolto dalle oneste cure del suo allevamento razionale. Due ore dopo aver sostenuto il fuoco a ripetizione della scena madre, dovette prendere il treno e partire per Rovigo, non senza aver salutato con mestizia le sue dilette, ossia le sue «Crèvecœur», le «Faverolles», le «Amburgo Argentate» e due magnifiche «Guance Paffute di Turingia»...
Al ritorno da Rovigo trovò il finimondo.
Erano arrivate, durante la sua assenza, una cartolina illustrata («Baci dalla tua Clara») e una busta misteriosa che odorava ancor più di peccato.
— Mi farai la cortesia di provvedere a tutte le pratiche occorrenti alla nostra separazione legale.
— Ma no! Che ti ho fatto?
Innanzi che l’ira divampasse dal volto della signora Zerbina si accesero due rose rosse tra il collo e le mascelle: terribile avvisaglia di bufera intransigente che dava sùbito fuoco a tutto il resto.
— Che hai fatto? Che hai fatto? Prendi!
E gli gettò in faccia la busta fatale contenente qualche cosa ch’era legata a un nastrino celeste.
Il marito aprì la busta tutto trepidante: c’era una ciocca di capelli!
L’infelice mirò il corpo del reato con l’opaca distanza con cui avrebbe osservato un insetto infilato a uno spillo, ed ebbe la sciagurata innocenza di chiedere:
— Di chi è?
— A me lo domandi? A me? A me?
Botte da orbi. Due casseruole, tre piatti, un forchettone, una bottiglia di acqua antisterica.
Peppino mormorò, mezzo accoppato:
— Ci deve essere una omonimia.
— Ah sì? Una omonimia anche nell’indirizzo di casa?
— Ci deve essere qualche cosa!
— C’è che domani andremo dal Presidente del Tribunale.
— Pazienza!
— E presto sarai libero di fare quel che più ti aggrada con le tue sgualdrine!...
— Ci deve essere qualche cosa...
Quando Peppino Speranzella tornò alla sua vita da scapolo, si dedicò sul serio all’allevamento razionale delle galline. Nella calma della sua nuova esistenza fece venir su un pollaio coi fiocchi.
La vecchia governante, che era rimasta con lui, andava ogni giorno a trovar la padrona, rifugiatasi in casa della madre, e magnificava la vita esemplare del coniuge.
— Signora, che santo uomo!
Tutte le galline avevano un nome: Mimì, Clara, Fanny... Erano i nomi delle sue ipotetiche amanti che onoravano il suo pollaio di lusso!
Gli pareva, così, di solennizzare con rassegnata umiltà il suo destino. Quelle sue amanti ingabbiate erano il suo harem! E bisogna aggiungere che, per una bizzarria sua particolare – e forse per una beffarda irrisione di sè – aveva messo anche Peppino in mezzo a loro: Peppino era il gallo.
Poichè la governante aveva avuto l’incarico d’intercettare tutta la corrispondenza, la moglie lontana era al corrente delle missive amorose che sopraggiungevano. E ogni tanto saltava su un nome nuovo che faceva inviperire la tradita.
— Diglielo al tuo padrone! Che non dimentichi di chiamare Fifì la sua prossima pulcina...
E Peppino, sempre più ostinato nella sua rassegnazione, chiamava Fifì la nuova pollastra che era ancòra da battezzare.
Ma ecco il dramma. Peppino Speranzella morì di un aneurisma, all’improvviso, mentre una mattina chiamava le sue odalische per porger loro il becchime. Morì come un martire indiano tra gli idoli della sua rassegnazione animale.
La moglie subitamente accorsa svenne mentre invocava il fedifrago marito lungo disteso e immobile sul talamo deserto.
Due giorni dopo, mentre si celebravano i funerali, due bellissime corone arrivarono chi sa da dove e furono deposte sul feretro. La signora Zerbina, insospettita, fu molto sorpresa quando seppe che i nastri recavano due nomi maschili: Pilade e Saverio.
— Saranno due compagni di bagordi – mormorò involontariamente la vedova.
Il grottesco retaggio per la vedova fu il pollaio.
Era destino ch’ella dovesse con le sue mani nutrire le sue rivali? E c’era Peppino che seguitava a cicisbeare in mezzo a loro, e ogni tanto per darsi importanza abbassava un’ala a terra come una saracinesca e la trascinava a passi di danza.
— E dire – sospirava la signora – che non ho neanche il coraggio di tirare il collo a queste sciagurate!
Due mesi erano trascorsi quando arrivò una lettera profumata di Fanny (quella della ciocca di capelli legati col nastrino celeste), la quale si lamentava così:
«Dopo le nostre pazze ore d’amore, una settimana è trascorsa che...».
La povera donna per poco non seguì il marito con un altro colpo apoplettico.
Nello stesso tempo un sospetto, un barlume di speranza e di letizia, e infine una gioia, una gioia improvvisa e certa le allargò il cuore.
Oh Peppino! Peppino era stato vittima di una macchinazione infernale! E sùbito un acuto rimorso cominciò a torturarla: rimorso che si accrebbe quando arrivarono altre lettere che parlavano di convegni recenti e a venire.
Lacrimando ella si avvicinò al pollaio.
Oh come le sue rivali le apparvero improvvisamente irradiate dalla più chiara innocenza! Tutte la guardarono volgendo le teste da un lato, con l’aria di aspettare ch’ella dicesse qualche cosa. Ma la sciagurata non potè che singhiozzare, il che agitò alquanto Peppino.
La vedova visse nel culto e nell’espiazione religiosa del marito morto. La prosperità del pollaio fu la missione di suffragio per le torture immeritatamente imposte al defunto. Ogni tanto veniva ospitata una gallina nuova, a cui si imponeva un nome nuovo di donna: l’ultimo arrivato dei nuovi messaggi alati d’oltre tomba. Ed erano le frecce intrise di veleno che trafiggevano ed esaltavano sempre più la memoria del martire.