Alla Corte del re del Camboge

PNOM-PEN, 2 luglio.

Venticinque anni fa, quando Pierre Loti rivelò anche a coloro che non s’interessavano di archeologia le smaglianti bellezze di Angkor Vat, il viaggio da Saigon alla capitale del Camboge era un piccolo problema che richiedeva, oltre ad una certa dose di spirito avventuroso, diverse protezioni e commendatizie. Erano ancora i tempi in cui il buon re Sisovat ed il suo predecessore Norodom inviavano immancabilmente un paio di elefanti reali incontro al viaggiatore bianco per facilitargli le ultime tappe. Venticinque anni sono un secolo per una colonia di buon rendimento economico! Oggi il tragitto Saigon-Pnom-Pen è altrettanto facile del percorso Milano-Venezia. Un servizio automobilistico pubblico trasporta i viaggiatori a Banam sul fiume Mekong, dove trovano un comodo vaporetto delle «Messageries» fluviali che con cinque ore di navigazione, li sbarca in faccia alle pagode di Pnom-Pen.

Anche la vecchia capitale s’è trasformata. È diventata una città moderna. I suoi trentamila abitanti sono divenuti centoventi mila, fra cambogesi, annamiti e cinesi, ed aumentano sempre, di mano in mano che la risaia conquista altre terre incolte sviluppando l’importanza commerciale ed economica di Pnom-Pen. I prezzi degli alberghi sono degni di Ostenda o di San Remo.

Alla popolazione fissa va aggiunta quella del fiume, cioè i battellieri delle giunche e dei canali che hanno a Pnom-Pen il loro porto di appoggio. Fra una e l’altra delle interminabili navigazioni fluviali nelle quali s’esaurisce la loro povera esistenza di tritoni d’acqua dolce, i battellieri fanno sosta, per abitudine secolare, a Pnom-Pen, vi celebrano in genere i matrimoni e vi seppelliscono i morti, eseguono il calatafaggio dei «sampan» e le grosse riparazioni di bordo, comperano tutte le piccole cose di cui hanno bisogno, consultano le veggenti ed i dicitori di buona fortuna, vendono le figlie da marito, danno da fare per nove mesi alle mogli che abitano la terra ferma, celebrano nelle pagode reali i riti ai quali ogni indo-cinese resta fedele di padre in figlio, anche se ladro o contrabbandiere, e se hanno qualche rancore di bordo da regolare lo liquidano con due coltellate nei caffeucci della suburra. Si calcola che non meno di ventimila persone di passaggio si trovino permanentemente a Pnom-Pen che è il centro di tutte le innumerevoli comunicazioni fluviali fra il Camboge, la Cocincina, il Laos, l’Annam e le Provincie orientali del Siam.

Nella via Ohier, che è il corso di Pnom-Pen, s’incontrano non solo tutte le razze dell’Indocina ma anche tutti gli incroci delle alcove d’Estremo Oriente, tutti i prodotti meticci del Siam, del Tonkino, dell’Annam, della Birmania, del Laos e della Cina meridionale: figli di bianchi, di gialli, di Mongoli, d’indiani, di malesi, di giapponesi, di mois, di indigeni dell’Equatore; mescolanze complicatissime che s’ingarbugliano sempre più di generazione in generazione e finiscono col creare per esempio dei gialli col naso aquilino e cogli occhi celesti o degli indiani cogli occhi obbliqui ed i capelli biondo oro.

A volte il caso si diverte a concentrare i difetti fisici di quattro o cinque razze in un unico esemplare da baraccone di fiera: altre volte invece tutte le grazie dell’India, della Cina e dell’arcipelago equatoriale, ingentiliscono un ovale femminile, facendone una affascinante bellezza d’oltre mare che s’imprime nella memoria e non si scorda mai più.

La leggendaria avvenenza delle danzatrici del re del Camboge dipende appunto dal privilegio che hanno questi fortunati monarchi di potere scegliere per le loro serre nel grande giardino dell’Indocina, fra i risultati di tutti gli innesti, i più bei bocciuoli della flora asiatica.

Fra cinquant’anni Pnom-Pen sarà forse una bella città. Per ora è troppo nuova. I francesi che l’hanno ricostruita di sana pianta con l’intenzione di gettare le basi d’una metropoli si sono preoccupati di rispettare il colore locale. I palazzi, le case, i ponti, i monumenti, le caserme, il giardino pubblico, perfino i casotti dei doganieri e gli sbarcatoi delle «Messaggeries», rivelano il concetto lodevole al quale hanno obbedito architetti e costruttori di non ripetere l’errore di Saigon, di non edificare cioè una brutta città di Occidente in mezzo agli scenarii naturali dell’Indocina ed ai ruderi meravigliosi dell’arte «kmèr».

Quando s’arriva da sud per via d’acqua la città vista da lontano coi suoi tetti aguzzi, colla mole dei palazzi reali, colle cupole bizzarre delle sue innumerevoli pagode offre un colpo d’occhio di grande effetto scenico. Noi abbiamo avuto la fortuna d’arrivare a Pnom-Pen verso il crepuscolo, mentre impazzava uno di quei fantastici tramonti di rame dell’Indocina che caricano l’orizzonte di lacche gialle e di fiori di zolfo. Sulla campagna allagata per l’inondazione delle risaie, rigata dai bambù e dai salici piangenti, la città costruita su un rialzo del terreno librava nell’atmosfera intrisa di zafferano il blocco dei suoi edifici monumentali color tartaruga, dominati dalla freccia fiammeggiante del Pnom.

Il grande letto del Mekong incendiato dal sole spiegava ai piedi della città i quattro ventagli scintillanti dei suoi mille canali irradiati verso nord e verso sud, verso oriente e verso occidente. I «sampan» imbandierati e le giunche con le vele al vento formavano come una corona di scogli e d’isolotti in festa intorno alla visione mentre la sterminata specchiera delle risaie rifletteva la paradossale colorazione del cielo.

Pnom-Pen dava l’impressione fallace d’una metropoli, d’essere veramente quella «grande capitale dei quattro bracci» sognata dal suo fondatore Ponea-Yat, re del Camboge quando nell’anno del Tigre, sesto della decade del Pizak, (1430 dell’era volgare) trasferì a Pnom-Pen la capitale del regno abbandonando la vecchia e gloriosa Angkor troppo esposta alle invasioni dei siamesi.

Solo sei secoli più tardi incomincia a realizzarsi la previsione reale, non per rigoglio di potenza militare o politica, che anzi il Camboge ha perduto la sua indipendenza, ma per le favorevoli circostanze del commercio il quale s’appresta a fare di questa città che domina le vie fluviali la Milano dell’Indocina.

Dove sono state sconfitte le armi ed è fallita la politica, il riso risuscita la prosperità dei millenni scomparsi, quasi per compensare il popolo gentile ed affabile che lo ha adorato durante i secoli come una divinità. All’epoca del raccolto i sacchi del prezioso prodotto s’ammassano a milioni e milioni sui moli del fiume e nei colossali depositi delle banchine. In mezzo all’oro liquescente del Tropico, il ventunesimo secolo sposa le giunche inverosimili dell’Annam alle gru potenti dell’Europa. Il rombo vellutato dei «gong» delle pagode si confonde col martellamento titanico dell’arsenale. La sera, mentre sui «sampan» s’accendono i lampioni centenarii di seta con l’effige del drago di Cina o del serpente del Camboge, i globi elettrici imbiancano con la loro incandescenza anacronistica le imbarcazioni vetuste del fiume.

Col tempo i monumenti e gli edifici acquisteranno senza dubbio quella patina indefinibile che aggrazia squisitamente le altre capitali dell’Estremo Oriente. Per ora Pnom-Pen è ancora troppo nuova, troppo inzaccherata di calce fresca e di cemento. L’oro delle cupole è troppo violento, il lucido delle porcellane troppo abbagliante, troppo linde le facciate, troppo verniciate le porte, troppo vivaci le decorazioni murali. Le proboscidi di elefante e le code di serpente che penzolano da tutti i tetti non hanno la potenza evocatrice delle terrazze meravigliose di Angkor: hanno piuttosto l’aria di pompe da incendio e di copertoni d’automobile lasciati ad asciugare. L’occhio si sente a disagio in mezzo a tanto luccichio di colori e di stucchi che dà l’impressione d’una esposizione universale organizzata dalle industrie dello smalto, delle pitture, delle vernici e delle mattonelle.

Anche il palazzo reale, ricostruito dalla Società Archeologica francese in perfetto stile «kmèr», ha ancora l’aria troppo di caramella per piacere al nostro buon gusto latino, reso più esigente dalle finezze veneziane e fiorentine di casa nostra e dalle stesse raffinatezze della vecchia Cina.

Gli architetti francesi hanno certo fatto assegnamento sulla incuria cambogese e sulla lenta limatura dei secoli per far rivivere a Pnom-Pen le bellezze dell’antica edilizia «kmèr». Pel momento questa città di finto granito, di «ripolin» e di mattonelle igieniche prepara male il viaggiatore alla formidabile visione di Angkor Vat che a mezza giornata di distanza erge sul mistero della foresta tropicale le sue meravigliose mitre di granito.

S. M. Sisovat, re del Camboge, il quale dopo un brutto tiro giuocatogli da un corrispondente americano non concede più interviste, ha voluto gentilmente farmi assistere ad una udienza pubblica che m’ha permesso di vedere il Palazzo in tutto il fasto d’un giorno di ricevimento e d’ammirare la Corte in tutta la pompa asiatica d’altri tempi.

Sisovat è un eccellente monarca coloniale che ha adottato l’automobile con la «condotta interna», il mobilio Luigi XV, le scarpe con la suola di gomma vergine e lo champagne cordon rouge. Nel suo appartamento privato, il tradizionale «altare degli antenati» è sostituito da una argentiera di mogano coi cristalli molati, nella quale arde pallidamente un opulento servizio di Sèvres regalato dalla Repubblica e scintilla una superba collezione di bicchieri d’ogni formato, coll’elefante imperiale del Camboge, fabbricati a Murano.

Sisovat è un re moderno che veste all’europea, col cappello a cencio ed è un vecchio saggio del Camboge che ha ereditato dai padri il dono di giudicare con filosofia gli alti ed i bassi del mondo. Ordinariamente vive per conto suo nella tranquilla atmosfera dei palazzi reali, lasciando ai suoi ministri ed agli onnipotenti funzionari francesi le cure dello Stato; però egli è anche il conservatore ufficiale di una tradizione secolare che pel momento fa comodo alla Francia, per cui ogni tanto in certe occasioni protocollari che sono state ridotte al minimo, torna ad essere per un’ora o due il grande monarca del Sole Eminente ed a mostrarsi ai suoi sudditi in tutto lo splendore antico della porpora.

S. M. è del resto un curioso miscuglio di tradizionalismo e di modernismo che compromette qualsiasi profilo psicologico. Mentre infatti ha adottato personalmente molti usi ed abitudini europee, obbliga la Corte a seguire le vecchie usanze, ha riorganizzato il corpo reale di ballo secondo le più antiche tradizioni e si occupa quasi esclusivamente d’una riforma religiosa dei bonzi. Nella gerarchia dell’Indocina, il rango di re del Camboge viene immediatamente dopo quello dell’imperatore dell’Annam che risiede ad Hué.

Ogni mattina S. M. riceve immancabilmente i novanta bonzi del Palazzo e distribuisce loro l’offerta abituale, consistente in un mestolo di riso, in una banana ed in una candela. Dopo si reca nella pagoda d’argento ad offrire piamente la classica tazzina di riso all’ombra del padre, il re Norodom, il quale è raffigurato da una gigantesca statua d’oro alta due metri e mezzo – una vera fortuna all’aggio attuale del prezioso metallo – con gli occhi fatti da due enormi diamanti e ricche incrostazioni di pietre preziose sul manto reale.

Lì Norodom, beatificato dai bonzi del Camboge, si mostra ai visitatori sotto il baldacchino di nove parasoli bianchi in compagnia di numerosi Buddha coi quali presumibilmente conversa nel grande regno delle Ombre. In alto, dentro una piccola nicchia scavata a giorno nella muraglia, uno strano Buddha di cristallo azzurro investito dalla luminosità esterna fa pensare alla vegetazione vischiosa delle risaie ed ai giuochi del sole nell’acqua morta.

— Questi principi gialli — mi diceva ieri un colonnello francese — sono indefinibili. Se non riusciamo a comprendere il segreto del nostro boy annamita dopo venti anni che è al nostro servizio, come possiamo leggere dentro gli occhi di smalto di questa aristocrazia impenetrabile che vive isolata e che da secoli di padre in figlio ha fatto consistere la perfezione nel nascondere agli estranei il proprio «io»?

Pian piano il salone delle udienze reali si riempie di dignitari e di mandarini in tuniche sgargianti di seta gialla e di raso violetto a ricami d’oro, ognuno col parasole colorato rispondente al suo rango. Dietro il trono s’allineano le guardie personali del re con le uniformi guerriere del tempo antico e lo scintillante casco cambogese a testa di serpente, i «cortigiani della spada» che portano su preziosi cuscini le innumerevoli sciabole della dinastia dalle impugnature d’avorio e di giada, i «conducenti del soglio» coi ricchissimi palanchini di corte sormontati dai baldacchini a sette e nove parasoli, i funzionari dell’Elefante con superbe zanne dei sacri pachidermi finemente scolpite, gli scudieri coi sette ombrelli simbolici adoperati dal sovrano, uno per ciascun giorno della settimana: giallo canarino il lunedì, violetto il martedì, giallo uovo il mercoledì, verde il giovedì, azzurro il venerdì, nero il sabato e rosso la domenica. Ed ogni giorno il colore delle vesti reali deve essere intonato secondo la tradizione alla tinta del parasole.

Nei quattro angoli della sala del Trono giganteschi idoli di granito – i Garuda del Camboge – sostengono il bizzarrissimo tetto «kmèr» di legno intagliato, formato da diverse tettoie soprastanti che man mano s’abbassano e s’allargano, ognuna terminata da una frangia di serpenti dorati e di proboscidi che sporgono all’esterno le loro appendici contorte, dando all’insieme dell’edifizio l’aspetto caratteristico ed un po’ sconcertante dell’architettura «kmèr». Lungo le pareti quattro file di donne alate di granito aiutano gli idoli a sostenere la mole del tetto. Il pavimento è di mosaico. Molto oro è profuso per ogni dove.

Lacche ornamentali di tinte vivacissime – gialle, rosse, violette, verdi – decorano fantasticamente il salone con un’orgia pazza di colori violenti che turba il nostro concetto d’arte, ma quando la sala è riempita di parasoli e di dignitari in tuniche di seta, le forme ed i colori della decorazione si fondono armonicamente con le fogge degli oggetti e con le tinte degli abbigliamenti.

Il trono di legno di tek con incrostazioni di sandalo e di cedro, è tutto un paziente intaglio, come quegli avorii giapponesi che riuniscono cento figurine scolpite in venti centimetri di superficie. Nove parasoli bianchi sovrapposti, sormontati da quattro maschere di Brahma, formano il baldacchino: nove ordini di gradini conducono al seggio reale: i tappeti sono sostituiti da specchi bordati d’oro.

Ai lati del trono due cappelle in penombra ardono cupamente: in una sono raccolti i Buddha e le divinità tutelari del Camboge, idoli di bronzo, d’argento, di giada e d’avorio: nell’altra riposano le ceneri degli antenati reali dentro urne funerarie verdi ed azzurre che formano una specie di piramide, sul vertice della quale l’urna vuota del re Sisovat aspetta le ceneri del monarca regnante.

La sala strabocchevolmente gremita di ufficiali, di mandarini, di bonzi e di cortigiani, offre un colpo d’occhio magnifico dell’Estremo Oriente che fu.

Quando entrano le famose ballerine del corpo reale del Camboge – sessanta fragili bellezze esotiche vestite d’oro, col viso porcellanato dal belletto millenario e gli occhi di giada smisuratamente allargati dal «kol» – s’ha l’impressione che le divinità tutelari abbiano abbandonato le nicchie delle pagode e si siano messe in moto per render omaggio al re Sisovat.

Arrivano in sedia portativa la regina e le principesse. Il martellamento vellutato del «gong» avvolge l’immenso salone in una calotta ancestrale di rombi. Poi il monarca del Sole Eminente fa il suo ingresso in un palanchino di cedro azzurro sotto i nove parasoli bianchi. È un vegliardo di novanta anni! Sotto la corona ed il manto reale la sua figura immobile non pare più di questo mondo. Io che ho visto ieri Sisovat nel giardino del Palazzo in giacchetta e col cappello a cencio, non immaginavo che potesse assumere insieme alle insegne del potere reale una così grande maestà.

Quando il monarca ascende i gradini del trono tutti i parasoli s’inchinano: si abbassano i baldacchini della regina e delle principesse: gli stendardi coi draghi e coi serpenti si curvano; bonzi e dignitari si prosternano, ministri e mandarini si genuflettono: le sessanta ballerine piegano fino a terra le loro mitre.

Una musica dolce scaturisce dal mistero dei tendaggi. Il Residente Generale ed i colonnelli francesi che gli fanno corona s’irrigidiscono sull’attenti. Le mille e mille campanelle del palazzo suonano a distesa. I cannoni del forte fanno tremare l’atmosfera dorata di Pnom-Pen fatta pei brividi di velluto dei «gong» millenari.

Saliti i nove gradini di specchio, Sisovat resta un momento in piedi prima di prendere posto sul trono. Gli occhietti nocciuola che ieri m’erano parsi pieni di bontà e d’intelligenza, hanno in questo momento la fissità vitrea dello smalto. I gesti lenti e meccanici fanno pensare ai movimenti paradossali d’una statua.

La presenza degli ufficiali francesi dovrebbe gettare un’ombra d’ironia su questo simulacro di potenza. In India bastava l’uniforme «kaki» di un maggiore britannico accanto al trono scintillante d’un maradjà per rompere ogni incanto. Qui no. Il vecchio re Sisovat non ha nulla d’un uomo. Ha l’immobilità d’una effige e l’irrealità d’un simbolo.

Tutto l’orgoglio d’una dinastia centenaria che fu potente, gloriosa e magnifica, che la devozione dei sudditi divinizzò durante i tempi fino ad unificarla con la religione e con la patria, stilizza sul volto ieratico di Sisovat la maschera dei secoli.

Pei bianchi della colonia, pei cinesi intraprendenti dei mercati e delle compagnie di navigazione, forse anche pei cambogesi di Pnom-Pen educati a Parigi, questo sovrano senza sovranità è una semplice comparsa. Ma per le umili genti delle risaie e dei «sampan», per i pescatori del grande Lago, per la piccola folla minuta che vive di formalismi e di tradizioni, per la grande massa dei suoi sudditi è sempre il monarca glorioso del Sole Eminente, l’erede dei dieci re di Angkor, il figlio di Norodom, colui nel quale per volere di Buddha sono assopite tutte le forze dell’antica possanza «kmèr», in attesa dell’immancabile risveglio del Camboge!

Il trono è come l’altare d’una pagoda. Se il re non comanda, l’idolo impera.

In fondo alla loro coscienza i colonnelli francesi debbono sentire che se il vecchio e buon Sisovat non discute le decisioni del Residente, avrebbe ancora il potere di mettersi alla testa d’un popolo insorto.

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