La pianura degli specchi

DAI-NGAI, 29 maggio.

Abbiamo lasciato tre giorni fa Saigon con una flottiglia di «sampan» annamiti, diretti verso occidente lungo le «vie d’acqua» millenarie, tracciate da tempo immemorabile nella bassa Cocincina.

Dal canale di Cholon, zeppo di rimorchi, d’imbarcazioni e di giunche, siamo entrati nel grande canale di Mintho, dietro una processione di barconi a vela e di «sampan» anch’essi diretti verso occidente. Ogni tanto una giunca isolata od una flottiglia scantonavano silenziosamente in un canale laterale. Per un po’ si vedevano i draghi d’oro delle prue e le vele dipinte sguisciare fantasticamente in mezzo alla campagna come calabroni e farfalle giganti, poi le foglie dei banani li inghiottivano nella moltitudine dei loro ventagli.

Via via la processione s’accorciava dinanzi a noi, finché i nostri «sampan», che all’uscita di Cholon erano quasi in coda, hanno finito col prendere la testa del corteo. Dietro di noi invece, fin dove l’occhio arrivava, il canale era tutto rigato d’altri convogli e d’altre giunche in cammino che incessantemente uscivano dai porti di Cholon e di Saigon a sparpagliarsi in tutte le direzioni dell’Indocina.

Ieri poi nella pianura dei giunchi anche noi abbiamo abbandonato il grande canale per una via d’acqua ausiliaria che taglia il fiume Posteriore, dirigendosi verso la provincia di Cap-thò.

Tutta la campagna è coltivata a risaie. Si può dire che le provincie di Cap-thò, di Soc-trang, di Bac-lieu e di Long-suyén, vaste pressapoco quanto l’Italia settentrionale, sono una unica immensa risaia. Il grande fiume Mekong, dopo aver fecondato il Camboge, s’allarga in un gigantesco delta, che coi suoi tre bracci principali abbraccia quasi tutta la Cocincina. I corsi d’acqua maggiori, resi navigabili fin dalla più remota antichità, sono stati allacciati, durante le ultime dinastie, da una rete formidabile di canali d’ogni grandezza che s’irradiano e s’intersecano in tutti i sensi.

Dopo la occupazione europea la tecnica francese ha aggiunto solo qualche ritocco moderno all’opera meravigliosa dei gialli, i quali, con mezzi rudimentali, guidati da un misterioso «istinto idraulico», hanno piegato l’acqua durante i secoli ai bisogni della coltura e delle comunicazioni, facendo retrocedere il mare come in Olanda, trasformando paludi salmastre e foreste inondate in fertili risaie, risolvendo, a forza di pazienza e di costanza, le grandi difficoltà opposte dai terreni mobili, dalle infiltrazioni marine e dalle piene disordinate del Mekong.

La sistemazione idraulica della Cocincina è, senza dubbio, una delle più poderose affermazioni della civiltà gialla. Di fronte ad essa il nostro spirito resta perplesso come dinanzi a certi squisiti gioielli dell’arte cinese ed a certi istituti giuridico-sociali che la Cina millenaria possiede già da più di dieci secoli.

Gli annamiti hanno la risaia nel sangue. Ancora oggi basta che una draga si metta in movimento per aprire un nuovo canale in un terreno incolto e malsano, perchè misteriosamente compaiano coloni annamiti i quali improvvisano un villaggetto di bambù e si pongono chetamente al lavoro, come una colonia d’insetti. In pochi mesi addomesticano l’acqua e creano la risaia. Uomini, donne, vecchi, ragazzi, hanno ognuno il loro lavoro stabilito da una norma ereditaria che nessuno insegna ma che tutti sanno. Prima che intervengano le autorità, la proprietà è suddivisa e gli abitanti eleggono i loro capi. Così si sono formate nei secoli la Cina e l’Indocina: così continuano a svilupparsi!

Il riso è l’elemento principale e quasi unico dell’alimentazione indigena. Si può dire che per l’annamita tutta l’agricoltura è concentrata nella coltivazione del riso. Tradizioni antichissime mescolate a riti, superstizioni centenarie regolano la preparazione della terra, le semine ed i raccolti, facendone quasi una pratica religiosa. Grandi feste in onore del riso sono celebrate ogni anno con pompa solenne nelle città e nelle campagne, feste prescritte dagli antichi imperatori dell’Annam, specialmente da Tai-Tong che regnò nel 1250 e che fece raccogliere tutti i riti in un testo sacro al quale gli annamiti si attengono tuttora scrupolosamente. Certi audaci lavori di sistemazione idraulica eseguiti in quell’epoca dagli ingegneri della corte di Tai-Tong empiono di stupore gli ingegneri moderni per la genialità delle concezioni e per la grandiosità delle imprese condotte felicemente a termine senza mezzi meccanici.

Quegli sforzi immani d’intere moltitudini che in India si esaurivano sterilmente a cesellare un tempio in una montagna di granito, sono stati adoperati dai tiranni della Cina e dell’Annam ad abbattere foreste, carpire al mare ed ai fiumi vaste provincie, disciplinare l’acqua con dighe e canali, fecondare le sterminate steppe del Mezzo con la laboriosità di formica delle genti gialle. Rari sono i monumenti di lusso e di orgoglio – qualche palazzo, qualche muraglia – numerose le opere di pubblica utilità compiute da intere generazioni a vantaggio delle generazioni successive, con quel senso profondo di continuità che caratterizza la civiltà delle razze d’Estremo Oriente.

Il culto del riso si confondeva per gli antichi annamiti con quello della dinastia imperiale e della divinità stessa. Gli antenati, l’imperatore ed il riso erano le tre grandi «forze motrici» dell’Annam e forse lo sono tuttora nel profondo delle coscienze.

Per avere una idea del posto che occupa il riso nella vita annamita, basti dire che nove decimi della popolazione dell’Indocina vive con la coltivazione e col commercio di questo prezioso prodotto che fornisce agli abitanti il pane, il vino, il foraggio, il concime, il combustibile e la carta. L’anno scorso, oltre l’enorme fabbisogno del consumo locale, ne sono state esportate un milione e seicentomila tonnellate.

Il raccolto ha luogo da dicembre a maggio. Le terre si preparano in giugno. Gli annamiti non conoscono ancora le falciatrici e le battitrici. Il raccolto è fatto a mano con la falce, è battuto dalle donne sulle stuoie con le verghe di bambù, poi rimane esposto per venti giorni ai venti che s’incaricano di spiumare le pagliuzze ed i chicchi vuoti.

Se la coltivazione del riso è in mano degli annamiti, il commercio ne è invece monopolizzato dai cinesi, che sono in ultima analisi quelli che ne ricavano i maggiori vantaggi. Prima della guerra il gruppo tedesco Speidel era riuscito ad accaparrare gli otto decimi del lavoro di scorticatura e di brillatura del riso, comperando dai cinesi quasi tutte le officine che aveva modernizzato con materiale proveniente dalla Germania. Ora i francesi hanno ereditato in parte gli interessi tedeschi, in parte essi sono ritornati nelle mani intraprendenti dei cinesi di Cholon.

In questo periodo di stagione secca che finisce coi primi di giugno, gli annamiti lasciano invadere le risaie dall’acqua benefica del Mekong. La campagna ha quindi l’aspetto d’un immenso lago, curiosamente ricamato a disegni geometrici dai filari di bambù che segnano i limiti dei campi. I tratti di terreno asciutto coltivati a banane formano macchie violenti di verde lucido in mezzo all’immensità allagata che si stende a perdita d’occhio. Qua e là un villaggio di bambù costruito su d’un terrapieno, riflette nell’acqua la sua sagoma bigia, oppure una casa isolata erge, sul riverbero dei campi la sua fantastica feluca napoleonica. Ogni cinque o sei ore di navigazione la mole bizzarra d’una pagoda interrompe lo scenario uniforme coi suoi coni inverosimili d’oro e i suoi tetti contorti di porcellana.

Il cielo limpidissimo della Cocincina specchia nella campagna inondata la purezza del suo azzurro come in un mare. Pare che nell’acqua siano stemperate magiche misture d’indaco e di cobalto.

Dall’alba al tramonto il sole formidabile del Tropico mitraglia furiosamente il grande acquitrino. I vapori incessantemente pompati dalla aspirazione solare tengono sospeso nell’aria un velo attraverso cui tutto l’orizzonte si mostra come attraverso un vetro appannato.

Certe lacche acquose della Cina e certe pitture sfumate di Canton, che a noi sembrano concepite durante i fumi dell’ubriachezza, con le loro atmosfere opache e le loro figure di traverso, riproducono esattamente l’aspetto incerto e fluttuante di questi paesaggi. I disegni strambi di certi ventagli, le linee storte e paradossali di certi paraventi rispondono agli effetti di quest’aria accesa e velata sulla natura e sulle cose. L’alto silenzio, cullato dallo sciabordìo impercettibile dell’acqua, è interrotto durante ore intere solamente dal brivido dei bambù che paiono tremare assiderati dalla troppa acqua. Nell’immensa solitudine l’occhio segue, sul dorso dei bambù, il cammino del vento che curva le canne, che scompiglia le foglie, che punteggia i campi inondati di cerchietti e di stelline. Dove i soffi increspano la superficie, il barbaglio del sole crea uno scintillìo di punti d’oro e di virgole d’argento che trasformano fantasticamente l’immensa pianura in un paese di sogno. Allora le grandi giunche col drago rabbioso sulla prua, le gondole d’Estremo Oriente, dipinte a cento colori, con a poppa la coda di pavone, gli zatteroni dell’Annam con l’alberatura bizzarramente riunita da una tettoia a frontone di pagoda, tutte queste imbarcazioni d’altri secoli e d’altri millenni, che altrove sembrano strane e un po’ ridicole, s’intonano al paesaggio irreale. Paiono grandi rospi verde-rame cogli occhi di cristallo usciti dai misteri dell’acqua a muoversi nel sole.

Vengono istintivamente alla mente le leggende dell’Annam e le fole della Cina. Non sembra più inverosimile che la campagna sia popolata di genii e di draghi, che i morti rivivano nei nenufari bianchi e nei fiori di bambù nelle notti di bufera, che spiriti folletti scorrazzino fra le foglie piangenti dei salici acquatici. Si comprende come a bordo delle giunche e dei «sampan» la gente che trascorre la sua povera vita in mezzo alla pace ed ai silenzi delle lunghe navigazioni fluviali finisca col formarsi una filosofia particolare fatta di pazienza, di rassegnazione e di attesa, alla quale l’oppio aggiunge la colorazione poetica dei suoi splendidi miraggi.

In pieno mezzogiorno, quando il sole batte perpendicolarmente sui campi allagati, si ha l’impressione di attraversare un paesaggio fantastico di specchi. Ogni campo colmo d’acqua è una lastra nella quale si rifrangono le luminosità dell’aria e del cielo. E l’insieme dei campi accesi dà alla sterminata distesa l’aspetto di una pianura di vetro in mezzo alla quale i canali giallastri srotolano i loro nastri di topazio.

Se una nube passa un istante dinanzi al disco solare subito tutta la campagna s’oscura, trascolora, si fa bigia o corrucciata secondo la densità e la tinta dello schermo. Se uno stormo d’uccelli migratori solca l’infinito la sua ombra smisuratamente ingrandita si riflette nella specchiera della terra.

Quest’acqua immobile, senza vita e senza vegetazione, arabescata geometricamente dalle canne di bambù, non è nè un mare nè un lago nè una palude: è una cosa a sé, vaga, indefinita, dalla quale emana un senso potente di pace, di solitudine e di lontananza. Sembra d’essere distanti assai da ogni luogo abitato ed abitabile, sperduti in una immensità che non è di questo mondo. Lo spirito s’adagia su se stesso ed il cervello irrequieto d’un latino conosce le riposanti soste dei gialli, le parentesi senza pensiero.

Abbiamo fatto «alt» oggi a Dai-ngai, importante centro di commercio e di produzione del riso posto a cavaliere delle provincie di Cap-thò e di Soc-trang, Prenderemo dopodomani un’altra flottiglia di «sampan» che torna a Saigon. La nostra continua oggi stesso la sua rotta di lumaca pei canali silenziosi, attraverso le campagne inondate, fino alle risaie salmastre di Camau ed alla baia di Cum-lon dove arriverà fra un mese.

A Dai-ngai siamo nel grande regno del riso. Tutte le terre sono risaie senza nemmeno un’oasi di banane o di caucciù. Tutto il lavoro umano è asservito alla coltivazione tirannica. Si può dire che il pensiero stesso degli uomini è interamente assorbito dal riso. Non si vede altro, non si sente parlare d’altro.

La cittadina è in festa. Nelle cinque pagode di Dai-ngai si celebra oggi un rito propiziatorio per invocare la protezione delle divinità tutelari sul lavorìo dell’acqua che sta fecondando la terra delle risaie. La cerimonia finale che inaugura la stagione del riso si svolge, secondo l’usanza secolare, a cielo aperto dinanzi alla campagna inondata. Ad essa assistono ufficialmente, oltre a tutte le autorità europee ed indigene del distretto due alti funzionari di Saigon venuti espressamente, uno in rappresentanza del governo francese, l’altro dell’imperatore dell’Annam.

E fra dieci o quindici giorni, appena incominceranno le grandi pioggie di giugno, gli agricoltori inizieranno le prime semine.

Tutti i villaggi del distretto hanno inviato per l’occasione a Dai-ngai il loro altare degli antenati coi Buddha e le immancabili bandiere di seta. Diverse centinaia d’altari dorati e di Buddha panciuti e parecchie migliaia di stendardi gialli sono allineati nella strada principale del paese, la quale termina in una specie di piazza d’armi circondata di risaie allagate.

Oggi in tutta la Cocincina, nel Laos meridionale, nell’Annam e nel basso Tonkino, s’inaugura, con la medesima cerimonia, la lavorazione del riso. Ad Hué il primo solco è scavato dall’imperatore con un aratro di lacca rossa e d’oro ereditato di dinastia in dinastia dalla notte dei tempi. Il monarca arriva in pompa magna col corteo degli elefanti, con i dignitari e le ballerine di corte, coi «mandarini maggiori» e gli alti ufficiali della Residenza francese. Giunto sul luogo, l’imperatore, che indossa l’uniforme di grande gala con la corona di Hué, si spoglia dei suoi ornamenti, veste la tunica grigia del contadino e prende posto dietro l’aratro al quale è attaccato un bufalo nero. Colla mano sinistra impugna il vomere e nella destra tiene una frusta. Dopo la tradizionale invocazione agli antenati perchè benedicano la fatica dei loro discendenti, l’imperatore traccia il primo solco dell’annata fra le ovazioni dei sudditi, il rombo dei mortaretti e le salve dei cannoni francesi mentre le truppe presentano le armi.

È un primo maggio annamita, più simpatico di quello sovversivo!

A Dai-ngai invece dell’imperatore è il primo mandarino della provincia che guida l’aratro simbolico, assistito dai due più vecchi coltivatori del distretto e dai due più alti funzionari dell’Amministrazione. Ed il primo solco è copiosamente inaffiato d’acquavite di riso per restituire alla terra-madre una parte delle ricchezze che essa prodigalmente dispensa ogni anno agli abitanti.

V’è indiscutibilmente una grande bellezza di pensiero e di sentimento in questa cerimonia millenaria che nella sua solenne semplicità fa pensare alla Roma di Cincinnato.

Quando il bufalo nero, stimolato dalla frusta e dagli incitamenti della folla, entra nell’acqua e l’aratro di lacca rossa si solleva a dare il primo morso dell’annata, alla terra, la moltitudine s’inginocchia in silenzio.

Innanzi a noi è la campagna sterminata intrisa di acqua, nuda ancora e senza ricchezze, quasi palude. Il piccolo aratro rosso affonda nella sua desolata sterilità il vomero fecondatore.

Il vento giuoca pigramente con le lunghe foglie dei bambù.

Dietro la folla prosternata la strada degli altari e delle bandiere allunga il corridoio dei suoi tabernacoli e dei suoi vessilli. In mezzo agli incensi, alle dorature ed ai fiori di carta, i Buddha d’avorio e di legno sorridono beatamente al lavoro che rinnova la terra e le generazioni.

Secondo la convinzione profonda delle moltitudini ereditata di padre in figlio col latte e con la vita, questo vomere imperiale non sommuove soltanto una gleba ma s’affonda nella polvere degli incalcolabili milioni di esseri che sono morti durante i secoli e sono ritornati nel grembo della terra. V’è nei gialli un rapporto diretto fra i morti nutriti di riso che si sono stemperati nella madre terra ed il riso che rigermina ad ogni stagione per nutrire la generazione vivente. E questo rapporto è, in fondo, la base di tutte le credenze religiose e di tutti gli ordinamenti sociali dell’Asia gialla.

Perciò quando, durante la cerimonia, un soffio più forte di vento increspa l’acqua dei campi, la folla abbassa paurosamente il capo e si rannicchia sgomenta.

È il «kuèng-fùi»! Sono le anime degli antenati che vivificano la terra perchè dia il pane quotidiano ai discendenti.

Nel silenzio sepolcrale si sentono distintamente il fruscio delle foglie e gli schiocchi dei vessilli. I rumori della natura hanno la potenza delle voci d’oltre tomba.

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