Angkor-Vat

ANGKOR, 11 giugno.

Venticinque anni sono trascorsi da quando il pellegrino d’Angkor giungeva in vista del monumento formidabile in un carro annamita tirato da due buoi e chiedeva ospitalità per la notte ai bonzi del Tempio!

Nel crepuscolo tropicale la grande foresta dell’alto Camboge stendeva a perdita d’occhio la sua immensità carica di mistero. E le genti sorridenti del luogo, abituate a vivere in mezzo alle macerie solenni della razza, guardavano con curiosità l’uomo bianco che s’aggirava fra i loro alberi ed i loro macigni, che vagava la notte sulle terrazze imbiancate dalla luna, che rimaneva ore ed ore estatico a contemplare le quattro mitre di granito come se i suoi occhi fossero affascinati da un magico incanto.

Ora quegli occhi si sono chiusi per sempre in un meriggio ambrato della Bidassoa. Qui una lapide banale ricorda il soggiorno del poeta: una frase retorica su una lastra di marmo. Pian piano la figura di Pierre Loti s’affonda nelle lontananze del tempo, superata ormai dalla storia del mondo che incalza e dallo sviluppo commerciale delle colonie che deforma irreparabilmente le sue visioni. Anche i piccoli uomini gialli che di padre in figlio abitano da secoli le rovine stanno cambiando, Cook civilizza i maschi e le case di tè s’incaricano d’aprire gli occhi alle femmine. Il Progresso ha già installato accanto ai ruderi imperiali della potenza «kmèr» i suoi piccoli templi: un posto di guardia, un albergo, un bar, un ritrovo ospitale. Uomini di scienza ed uomini d’affari s’occupano alacremente ad organizzare lo scenario d’Angkor per i turisti dei cinque continenti.

La critica letteraria – un’altra divinità dei tempi moderni – che, quando il poeta era vivo, aveva rispettato la sua prosa luminosa, oggi lo ha classificato brutalmente fra i «decadenti», perchè amò i silenzi della natura in un’era assordata dal rombo dei cantieri, perchè dipinse l’India senza accorgersi degli inglesi, presentì il risveglio dell’Islam e la Turchia di Kemal pascià, trovò innumerevoli bellezze dove gli altri non vedono che cimici, scoprì infiniti misteri d’anime e di popoli dove gli altri non scorgono che una plebe selvaggia e miserabile di facchini. Questa classifica di «decadente» è la corona mortuaria che il mondo ha deposto sulla tomba solitaria del poeta che con le sue opere palpitanti fece amare l’oltre mare a tutta una generazione occidentale; che abbellì di dolci visioni e d’affascinanti miraggi la vita grama di tanti funzionari e di tanti soldati baciati dalla morte negli acquitrini del Laos e nei deserti del Senegal; che dette viso di donna ed ali di farfalla alle sirene esotiche senza delle quali le Banche e le Società Anonime non avrebbero trovato la carne bianca necessaria per concimare le «azioni privilegiate» ed i «titoli» coloniali produttori di tagliandi.

La società che sfrutta la potenza animatrice dei poeti finché essa può servire ai suoi fini politici ed economici, ha collocato Pierre Loti fra i visionarii. E coloro i quali ripercorrono a soli venticinque anni di distanza le strade battute dal pellegrino d’Angkor, muniti d’un biglietto Cook e d’una tessera Duchemin, debbono ridere della fantasia dello scrittore che attraversava in una giunca dorata il Lago dei pesci rossi, che arrivava ad Angkor in un carro dipinto tirato da buoi neri e chiedeva ai bonzi un piatto di riso per la cena mentre i «gong» delle quattro piramidi martellavano i silenzi misteriosi del Camboge...

Tutto ciò è infatti lontano assai. Storia di un altro secolo, quasi si direbbe di un altro millennio!

Oggi i pellegrini di Angkor, dopo aver consumato un succulento «breakfast» in un «albergo-palace» di Pnom-Pen, trovano un autocarro del Touring che a sessanta chilometri l’ora li trasporta a Kampong-luong sulle rive del grande lago. Là Cook ha già fatto preparare la colazione compresa nel prezzo del biglietto, vino e caffè esclusi. Un piccolo piroscafo, che rassomiglia come una goccia a un’altra goccia d’acqua, a quelli dei laghi di Ginevra e di Como, trasporta i viaggiatori alla riva opposta del To-lè. Il pranzo a bordo è servito con tutte le regole del «Palace». L’orchestrina permette alle misses di sgranchire con due passi di «fox-trot» le gambe mascolinizzate dallo sport. A sera tarda, quando il lago diventa una lastra di vetro nero nel quale si riflettono le stelle del sud, l’immancabile serenata di Toselli crea l’atmosfera propizia pel «flirt» anglo-sassone o per la «bagatelle» parigina.

Il mattino dopo si è giunti a destinazione. Dinanzi allo sbarcatoio romba un altro autobus che in venticinque minuti appena depone i pellegrini ai piedi dell’Angkor-Vat!

La vecchia strada imperiale, aperta nella foresta millenaria, la quale non aveva conosciuto durante i secoli che il rullo epico delle invasioni siamesi e delle controffensive cambogesi – lotta ciclopica fra due razze pel possesso di Angkor-Tom – è oggi levigata dai rulli stradali a vapore che impastano la fanghiglia sacra del Mekong con le macerie reali dei monumenti.

Ogni tanto una epigrafe gialla spezza la fuga rettilinea dei tronchi. Lapidi che ricordano un tempio o celebrano un re? No, avvisi di pubblicità d’un albergo di Pnom-Pen, d’un negozio cinese d’antichità, d’un grasso per radiatori, d’un «garage» per automobili. A volte pare da lontano che un elefante in gualdrappa rossa si sia messo da canto sul ciglio dello stradone per lasciare passare il mammuth moderno di Ford o di Agnelli. Errore! Quando passiamo vicino ci accorgiamo che si tratta semplicemente di pompe, di «radioil» o d’altro carburante a disposizione dei motori assetati.

Pnom-Pen – La strada delle stoviglie.
Pnom-Pen – Barca della polizia.

A trecento metri dalle rovine del grande tempio, all’ombra stessa delle quattro mitre d’Angkor, un albergo ha allineato, sotto graziosi parasoli cambogesi, le tavole del «lunch», tavole con la tovaglia bianca, col vasetto di fiori, col recipiente nichelato nel quale diaccia lo spumante, col «maitre d’hotel» poliglotta in «frak» e sparato bianco. Un avviso a caratteri cubitali informa che le camere sono fornite di elettricità, acqua corrente, ventilatore, telefono interno, doccia e bagno.

Bisogna sbrigarsi a liquidare il «menu» perché all’una parte l’autocarro del primo circuito col quale si visitano l’Angkor-Vat, le rovine d’Angkor-Tom, i monumenti di Ta-Kéo e di Ta-Pròm. La giornata successiva è riservata al secondo circuito che passa in mezzo alle rovine di Néak-Péan, di Prah-Kàn, di Pre-Rùps e di Me-Bòn. Nomi che furono imperi, macerie che furono capitali! Il mecenate Cook fornisce i ciceroni, le cartoline illustrate, i sassi ricordo, un concerto di chitarristi cambogesi con danze del Siam, una fotografia in gruppo, occhiali affumicati contro il sole, ventagli di carta con la reclame d’un «pippermint»...

Per coloro che amano la malìa dei secoli morti, Cook tiene pronti quattro malinconici elefanti ed otto stallieri cambogesi in uniforme di mandarini. Un piccolo supplemento permette alle misses romantiche ed ai viaggiatori in fregola di poesia di credersi per un paio d’ore tante incarnazioni degli antichi autocrati del Siam.

Mentre i pesanti autocarri empiono di rombi la foresta, sfilano cinematograficamente i ruderi d’Angkor-Vat e d’Angkor-Tom, le torri, le piramidi, i mausolei, i monumenti in rovina, i templi sepolti dalla vegetazione tropicale, i conventi dei bonzi, le pagode siamesi con la cupola d’oro, i villaggetti indigeni in bilico sulle palafitte, uno spicchio di lago, una fetta di foresta inondata, una porzione di stagno tappezzato di muschi e di fiori di loto, obelischi, torrioni, archi trionfali, mozziconi di forti, scheletri di castelli... un millennio di storia, di gloria, d’amori e di sventure.

In piedi accanto al conducente il cicerone illumina l’ignoranza dei visitatori.

— Ecco la Porta della Vittoria... la Torre dei Brahma... la Terrazza degli Elefanti... il Padiglione del Re... il Palazzo della Regina madre...

Madre di chi? Regina di che?...

Il «camion» strombetta per far scansare un bufalo del Camboge che è saltato fuori improvvisamente dall’ombra della foresta e si è piantato in mezzo alla strada. Qualcuno brontola contro il «disservizio» della polizia che dovrebbe sorvegliare meglio la passeggiata delle rovine; un anglo-sassone evoca la strada delle Piramidi coi «policemen» in motocicletta; una miss, che fa indubbiamente parte, nella natia Chicago, della Società Protettrice degli animali, manda un urlo di raccapriccio per le sorti del toro cambogese... È un momento emozionante per lei e per tutti, episodio indimenticabile che la fantasia e il tempo non mancheranno d’ingigantire, nel quale quasi rivivono le misteriose battaglie della foresta millenaria: cozzo di due civiltà; il bufalo delle caverne contro Isi Fiat, la foresta vergine ed il pneumatico Pirelli, un bove e la «quaranta cavalli»! L’autocarro si ferma a pochi passi dal mostro leggendario ed il bufalo, soddisfatto del successo, s’allontana pigramente fra gli alberi, scodinzolando...

Forse anche l’animale nero è agli stipendi di Cook.

Ora a destra, ora a sinistra, ora di fronte, ora alle spalle, le quattro mitre di granito dell’Angkor-Vat mostrano, nell’atmosfera dorata dal crepuscolo, le loro sagome bizzarre e potenti: spettri dominatori del luogo che impediscono ai gitanti di credersi per distrazione al «Bois de Boulogne» o nell’orto botanico di Filadelfia.

Il breviario del pellegrino d’Angkor tradotto in inglese è sulle ginocchia di un reverendo pastore rasato di fresco. Dietro gli occhiali azzurri cerchiati di tartaruga gli occhietti grigi contemplano con padronanza anglo-sassone il panorama fuggente. Stasera dopo cena nella sua camera fornita di telefono e d’acqua corrente, egli leggerà le pagine del poeta e compiangerà il disgraziato cui capitò d’arrivare ad Angkor in un carro di buoi, quando ancora i sotterranei d’Angkor non ospitavano il wiski diplomatico dell’ambasciatore Buchanan e lo champagne araldico del conte di Saint Marceau.

E se per caso un giorno gli capiterà di leggere in un Magazine od in una qualunque Lettura per tutti che Loti è uno scrittore decadente, egli penserà che veramente il poveretto doveva essere caduto molto in basso per ridursi a viaggiare in un carro di buoi!

Verso le tre del mattino, quando le ventiquattro persiane dell’albergo d’Angkor ancora ermeticamente chiuse proteggono il sonno pacifico della carovana turistica, quando i bonzi di Cook non hanno ancora indossato l’uniforme del servizio archeologico, e le automobili sonnecchiano pigramente nei «garages» ed i motori non hanno ancora incominciato a stuprare il silenzio della foresta cambogese, io sgattaiolo dal giardino dell’albergo dirigendomi verso le rovine. L’esperienza di Costantinopoli, di Dakar, di Benares, d’Yejpore, m’incoraggia ad aver fiducia nel poeta. Veramente le pagine del pellegrino d’Angkor sono troppo pregne di bellezza e troppo cariche d’emozione perchè io abbia ad accettare senz’altro le pillole turistiche dell’industria Cook.

Nel cielo tremolano le stelle del Tropico, ricamo d’oro e di perle su un velluto fosco, ma già un indefinibile biancore incomincia a schiarire la notte profumata del Camboge.

Il ponte di pietra che conduce al tempio maggiore specchia le arcate massiccie in uno stagno color verde bottiglia. I nenufari e le calle giganti dell’Indocina disegnano sull’acqua morta bizzarri tappeti bianchi e le stelle vi riflettono un po’ del loro lontanissimo oro. I mostri di granito che da dieci secoli montano fedelmente la guardia all’ingresso sembrano più grandi nella penombra. La notte non mi permette di vedere le loro ridicole barbe di lichene. Ogni tanto un tonfo secco nell’acqua esprime la diffidenza dei rospi e delle rane d’Angkor per questo passo che risuona ad ora insolita sulle pietre millenarie svegliando gli echi del tempo.

Per la porta della Vittoria, sormontata da due grandi mitre di granito che fanno pensare al portale d’un fantastico arcivescovado bizantino, entro nel recinto del tempio.

I gelsomini selvaggi mi sbuffano in faccia il loro soffio lussurioso.

Attraverso un giardino incolto, ingombro di statue e di ruderi, passo accanto alle abitazioni silenziose dei bonzi ancora sepolte nel sonno, sfioro le alte muraglie: per una scala laterale salgo fino alla prima terrazza ed aspetto pian piano che l’alba tiri fuori dall’ombra, senza il permesso del Cook, le torri, le piramidi, le pagode, i mausolei, gli stagni, le risaie, il fiume, la foresta inondata, le città sepolte, le reggie risuscitate, i villaggi di palafitta, la strada imperiale del Siam, la strada reale del Camboge, il grande lago, i monti, tutto lo scenario del poeta.

E la meravigliosa visione d’Angkor, sapientemente dosata dal mattino nascente, emerge dai crespi della notte in tutta la sua formidabile maestà ed in tutta la sua magica bellezza.

Le prime a mostrarsi sono la tiara e le quattro mitre gigantesche del mausoleo di Angkor-Vat. Il chiarore mattutino che scaturisce a sbuffi larghi e regolari dai recessi dello spazio incomincia col profilarne le nioli potenti, poi ne precisa il ciclopico intaglio. Sembrano veramente oggetti da tesoro di basilica, amorosamente ricamati da Clarisse nell’uniforme succedersi delle giornate claustrali, ma sono di granito e di proporzioni monumentali. La cupola centrale sovrasta di settanta metri i cornicioni del tempio.

Le cinque torri sono formate da una sovrapposizione di tronchi di piramide che si affinano verso il vertice. In origine dovevano essere intagliate semplicemente a gradinata per permettere ai pellegrini di salire fino alla cima. Poi la pietà di diverse generazioni d’adoratori di Brahma ha scolpito le muraglie; le ha cesellate, ricamate e traforate come un gioiello; le ha bucherellate di nicchie, di scale interne e di corridoi; ha popolato pareti e gradini d’un esercito tumultuante di statue; ha riprodotto in miracolosi bassorilievi tutti i fiori e tutte le foglie della foresta, tutti i rettili, gli animali e gli uccelli, per magnificare nel granito la grandezza del Dio quadrifronte. Tutta la letteratura sacra dell’India è scritta a punta di scalpello su queste muraglie.

Più tardi è sopraggiunto il buddismo trionfatore che ha rispettato l’edifizio, ma vi ha aggiunto con la stessa pazienza e con la stessa prodigalità i simboli del suo culto, un altro esercito di Buddha tranquilli e sorridenti che tengono compagnia alle divinità terribili dell’India, una quantità pazza di fregi, d’altari, di draghi, di simulacri, di figure convenzionali. Non solamente la pietra è sparita sotto gli ornamenti, ma ha perso anche l’aspetto caratteristico della materia. Le torri dell’Angkor-Vat non fanno pensare al granito, ma ad una composizione di stucco, di pizzi e di cartapesta.

Un tale eccesso di decorazione dovrebbe determinare un complesso barocco e pesante, qualche cosa di pretenzioso e di barbarico; invece l’insieme è d’una armonia meravigliosa che fa pensare alla grazia della Rinascenza ed evoca nel medesimo tempo la maestà dei monumenti romani. Ciò soprattutto differenzia questo capolavoro dell’arte «kmèr» dai monumenti affini dell’India. Un soffio sublime di bellezza anima questo sforzo ciclopico.

La torre più vicina mi mostra il groviglio fantastico dei suoi serpenti di pietra, che salgono con le morbide spirali dei loro torsi inanellati verso la cima dell’edilizio, ed ogni tanto aprono nel vuoto il fiore delle sette teste viperine. Sembra che la torre sia un unico intreccio di serpenti. Ma no, a guardarla meglio, ci s’accorge ch’essa è fatta anche di dee di granito, tutte eguali, fosche e misteriose, messe una sull’altra, su, su, fino alla cima... Ed anche di Buddha pazzerelloni, ed anche di draghi minacciosi, d’elefanti solenni, di fiori di loto, d’altre infinite immagini che sono riprodotte identicamente a migliaia d’esemplari lungo linee ascendenti che convergono all’apice. È un lavoro immane, una fatica quasi inconcepibile, una cosa enorme e tremendamente asiatica che sbalordisce.

L’Angkor-Vat non è nè orientale, nè indiano, nè cinese, nè classico, nè esotico: è «kmèr»: è l’apoteosi artistica di una civiltà misteriosa che ha brillato di luce fulgidissima in quest’angolo del mondo, poi s’è spenta, senza lasciare altra traccia di sé che una immane rovina!

Il mattino allarga la visione. Tutta la mole del tempio esce dall’ombra, coi suoi terrazzi, i suoi edifizi, le sue scalinate, le gallerie interne gremite di statue, le muraglie che sono un solo bassorilievo, i torrioni, le pagode, le piscine, quattro chilometri quadrati d’area edificata, ottomila metri di sasso scolpito, tutto d’Angkor-Vat. E che cosa è l’Angkor-Vat? Nulla! L’alba che conquista velocemente lo spazio scopre altre ricchezze, altre rovine monumentali, tutta una pianura di ruderi e mausolei, l’Angkor-Tom, i resti d’una grandiosa capitale che si è sbriciolata nel volgere dei secoli. E più lontano ancora altre città morte, più antiche, più vaste, altre rovine colossali, altri monumenti favolosi, altre mitre di granito, altre tiare di sasso, altri fantastici triregni di macigno, parte in piedi, parte messi da secoli a giacere in mezzo alle foglie della foresta. Scomparsi gli uomini, la selva ha invaso le città ed i cimiteri, non un bosco addomesticato d’Europa, ma la foresta vergine del Tropico Asiatico, cioè una marea irresistibile di rami e di tronchi che secondo la legge dell’universo ha incominciato a seppellire nella sua immensità i capolavori della potenza umana.

Tutta la pianura d’Angkor è un campo di battaglia nel quale da otto secoli il marmo lotta contro gli alberi, il granito contro le foglie, il porfido contro i virgulti, il sasso contro i funghi; le colonne cercano di divincolarsi dall’amplesso micidiale delle liane, i basamenti duellano con le radici, gli archi trionfali con la lebbra vegetale che li soffoca e li stritola, le muraglie coi filamenti che pian piano le trapanano, le rosicano e le abbattono: battaglia titanica e paradossale nella quale ogni minuto segna miliardi di sforzi impercettibili e formidabili.

Ed il granito è vinto dai bocciuoli! I mausolei sono scalzati dal polline dei fiori! Ora l’umanità è accorsa con la tecnica dei grattacieli in aiuto della pietra sconfitta...

L’alito sublime de l’aurora patina di rosa il campo di battaglia. Il lago, il fiume, le risaie, i canali, gli stagni, la foresta inondata, le vasche monumentali riflettono nelle loro mille specchiere il sorriso del mattino. Migliaia d’uccelli s’alzano a turbinare intorno alle mitre. I cornicioni dei templi si popolano di corvi. Scimmiette giocherellone danno la scalata ai Buddha ed ai Brahma. Stormi di cicogne manovrano nell’aria luminosa.

Un enorme sopracciglio scarlatto s’alza sulla linea dell’orizzonte. Il primo sole occhieggia, ed il barbaglio della sua palpebra empie d’un brivido d’oro la mirabile visione d’Angkor.

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