Alla Corte di Soerakarta

SOERAKARTA, 20 febbraio.

Benché l’udienza sia alle dieci, le zanzare mi costringono già alle sette a gironzolare intorno al palazzo degli imperatori di Giava.

Una capanna di bambù m’offre l’ospitalità ed una panca. È un caffeuccio indigeno, frequentato dai soldati della Guardia e dal personale di Palazzo. Cinque armigeri ammazzano il tempo giuocando al «bacàn» con un pugno di fagiuoli ed un bicchiere di latta. A pochi passi un messere, che a giudicare dai galloni dev’essere un pezzo grosso della Corte, succhia con dignità un metro e quaranta di canna da zucchero, seminando il terreno di bioccoli di legno masticato che le labbra esperte irradiano con tiro rapido all’intorno. Un fiocchetto è quasi finito sui miei pantaloni bianchi fiammanti, tirati fuori dal baule proprio per l’udienza, ma siamo a Giava e non si fa caso a certe sciocchezze. I masticatori di betel hanno sputi ben più pericolosi! Accanto al dignitario un collega di pari grado è già arrivato a venti centimetri di canna e s’affretta a masticare voluttuosamente i resti del mozzicone.

In una pentola all’aria aperta bolle una broda verdastra destinata alla clientela di passaggio. Ogni tanto una bisavola dal muso appuntito e dalla faccia di cartapecora, dà una mescolatina all’intruglio, lecca diligentemente il mestolo, poi riprende la sua occupazione principale che è quella d’intrecciare una stuoia di paglia.

I girasoli aprono lentamente le loro corolle al bacio tiepido del mattino.

Per la strada passa una donna con un branco di bufali. Un animale si ferma a far colazione con le foglie d’un ramo. La donna continua il suo cammino, poi quand’è già un pezzetto avanti, si volta indietro a sollecitare il ritardatario con un lungo trillo squillante. Par che chiami: Gennarì, Gennarì... e il bufalo docile raggiunge al galoppo la comitiva.

In un canale pieno di sole, diguazzano donne e bambini in costume adamitico. Nessun passante è incuriosito dalla carne giovane e sgocciolante. Ognuno tira dritto per la sua via senza degnare i gruppi nemmeno di uno sguardo. L’indigeno è abituato al nudo e non vi fa caso.

Altri canali brillano fra gli alberi, strade d’argento che si perdono nel verde.

Il sole è già alto sull’orizzonte ed avviluppa la jungla nella sua fiamma calda. Molte mosche e zanzare frequentano il mio caffè.

Soerakarta è una capitale di duecentomila abitanti, sparpagliata in un perimetro di circa trenta chilometri, ma bisogna aver fede nelle statistiche per crederci, giacché non si vedono più di centocinquanta case. Veramente dovrei dire capanne! Tutto il resto è invisibile, nascosto nella folta jungla equatoriale che stende a perdita d’occhio l’ondulamento delle palme-cocco con qua e là un mausoleo di varinghi giganti od una cattedrale di fichi-bania.

A cento metri un soldato con la picca passeggia avanti, indietro, lungo un muro di fango battuto che, ad una certa altezza, sparisce sotto le abbondanti ramaglie d’una fuga d’alberi piangenti. È il muro di cinta del Kraton, il quartiere imperiale dentro il quale sono riuniti il palazzo privato dell’imperatore, la reggia del Seshenàn, i dalem dei principi, il Krapokten o grande harem, i geladàg con i cavalli, cervi e le bestie feroci del monarca, il parco delle scimmie, le abitazioni dei ministri e dei dignitarii. Ventimila persone abitano il Kraton, tutto un piccolo mondo di cortigiani, di soldati e di servi, sulle soglie del quale si fermano la civiltà occidentale e la dominazione olandese.

La sentinella, compresa della sua importanza, batte la picca con fragore sul selciato spaventando ogni tanto un uccello.

Civiltà e dominazione sono rappresentati nello scenario da una fortezza di mattoni con quattro pezzi di artiglieria cortesemente puntati in direzione del Kraton. Ai piedi della fortezza è il palazzo del Residente Generale. Il Residente di Soerakarta è uno dei più alti funzionari della colonia. Infatti il posto richiede oltre a notevoli doti di vigilanza e di diplomazia, una perfetta conoscenza della mentalità indigena per poter fronteggiare le infinite risorse del sovrano asiatico e dei suoi consiglieri.

Il Seshenàn di Soerakarta – questo è il titolo ufficiale dell’imperatore – ha, cinquanta chilometri più lontano, un rivale in potenza nel sultano di Jokakarta. Entrambi rappresentano gli ultimi resti del grande reame di Mataram che un tempo estendeva il suo dominio su tutta l’isola.

Con fine senso politico gli olandesi hanno lasciato ai due sovrani l’apparato esteriore della loro potenza. Lo stesso Residente olandese non è che il «fratello maggiore» del monarca, al quale fraternamente assicura i lumi dei suoi consigli. È un genere d’illuminazione che costa parecchio, in quanto il Residente s’occupa della successione al trono, della nomina e della revoca dei ministri, nonché dei loro stipendii, dell’amministrazione della giustizia civile e penale, della polizia, delle imposte e delle forze armate. Al sovrano restano insomma l’harem e i parasoli!

Lo stesso sistema è applicato nelle altre provincie, le quali, agli occhi degli isolani, sono governate dal Reggente che è sempre un indigeno di famiglia principesca o nobile del luogo. In realtà il potere è in mano del Residente o «fratello maggiore» che è sempre un olandese. Lo stipendio del Reggente indigeno è più forte di quello del Residente europeo, tutte le spese di rappresentanza e gli attributi esteriori dell’autorità essendo prerogativa del funzionario di colore. Il rappresentante della regina Guglielmina è, in genere, un uomo di costumi semplici, alieno dal fasto e dalle cerimonie, che vive appartato nel suo bungalow. Gli ordini del Residente ai principi ed all’imperatore sono dati sotto forma di raccomandazioni, le quali però hanno forza di legge secondo il buon diritto del «fratello maggiore», cui spetta nella famiglia giavanese l’esercizio onnipotente della patria potestas in mancanza del padre.

Gli olandesi non hanno fatto altro che rispettare l’organizzazione feudale dell’isola, lasciando ai principi indigeni l’illusione di continuare a governare ed ai sudditi il conforto d’essere tiranneggiati da uno della loro razza; viceversa hanno provveduto in maniera da avere ovunque alla testa delle provincie un fedele e docile servitore. Ad un osservatore attento non sfugge l’affinità esistente fra l’ordinamento di Giava e gli antichissimi statuti del Giappone, ai quali il governo dell’Aia si è ispirato per governare senza grattacapi cinquanta milioni di asiatici, adattando abilmente le necessità e gli organismi della colonia alla psicologia della popolazione, con maggiore finezza di quanto abbiano fatto gli stessi inglesi nell’India e negli Straits Setllements.

Di tutti i potentati indigeni, il più importante è precisamente il Seshenàn di Soerakarta, il quale gerarchicamente viene prima anche del Sultano di Jokakarta, benché la questione complicatissima della precedenza non sia stata risolta ufficialmente dall’abile governo di Batavia che conosce i suoi polli. Il Seshenàn ha il rispettabile stipendio di tre milioni di fiorini all’anno, (col cambio s’arriva quasi agli appannaggi del Re d’Italia!) i quali gli permettono di mantenere una Corte fastosa, d’assicurare riso ed oppio a tutti gli abitanti del Kraton, d’avere alcune migliaia di servi, diverse centinaia di consorti ed una innocua quanto pomposa Guardia imperiale. L’autorità temporale dell’imperatore è ristretta alla sola provincia di Soerakarta, ma la influenza religiosa si estende a buona parte di Giava ed è probabilmente questa che gli olandesi pagano così profumatamente.

Alle nove e mezzo lascio le mosche, le zanzare, gli armigeri ed i dignitarii alle loro canne da zucchero e profondamente ossequiato dalla megera del mestolo, raggiungo i miei compagni dinanzi all’albergo Vari Slier, donde, accompagnati da un funzionario olandese della Residenza, ci avviamo verso il Kraton.

All’ingresso della Reggia la sentinella ci presenta le armi alla giavanese, sollevando cioè la gamba destra ed attorcigliandola intorno all’asta inclinata della lancia. Due ufficiali di Palazzo scambiano con la nostra guida una lunga mimica di saluti militari imposti dal protocollo. Rullano diversi tamburi. La scena sarebbe quasi solenne se l’ufficialità dell’impero non fosse scalza e non si grattasse ininterrottamente tutte le parti del corpo. Finalmente, preceduti da un picchetto di armigeri e seguiti da un altro codazzo di guerrieri, ci avviamo in pompa magna attraverso le strade del quartiere reale verso il castello degli Seshenàn.

Oggi non solamente è giorno d’udienza pubblica, ma è anche una grossa festa indigena, per cui le vie del Kraton sono animate di cortei che vanno e vengono dal Palazzo con sfarzo d’armati, di parasoli e di pennacchi. Le donne del Kraton s’affacciano sulle soglie delle case ad ammirare l’andirivieni della festa. Peccato che le levatrici abbiano dato indistintamente a tutte un colpetto sul nasino, altrimenti sarebbero graziose coi grandi occhi a mandorla cerchiati di lilla e la pelle bruna ambrata dal sole dell’Equatore.

Le abitazioni dei sudditi di S. M. Graziosissima non sono eccessivamente eleganti. Come genere edilizio sarebbero da classificare nella categoria stamberghe! Qualche caseggiato più grande ricorda le stalle di certe masserie lombarde. V’abita in genere un pezzo grosso, un Raden od un Pangeram nobile di corte. Molte biche e pagliai fanno pensare ad un abbondante raccolto. Sono invece le dimore dei liberti. Se non ci fossero gli alberi, il Kraton rassomiglierebbe ad un paesone indigeno dell’Uganda o ad un accampamento colonico sul lago Nyanza, ma la lussureggiante foresta equatoriale decora pomposamente i truogoli dell’imperatore.

Intorno alle miserabili bicocche, i giganti delle Canarie formano maestosi baldacchini di verde spiovente, dai quali precipitano i rampicanti a cestire di principesche mantiglie i muretti, mentre le orchidee si incaricano di stendere dappertutto superbi tappeti. La Natura copre colle sue meravigliose bellezze il sudiciume e la miseria degli uomini. Ed il sole profonde il suo pulviscolo d’oro che imporpora i cenci e la mola.

Non vi meravigliate, dunque, se v’assicuro che in complesso il Kraton è bellissimo, superiore assai al pessimo albergo nel quale siamo alloggiati, tra due canali popolati di rane che hanno sempre qualche cosa da dirsi, fra alberi carichi di cicale che resistono a tutti gli accidenti e poderosi eserciti di zanzare che sono in periodo di grandi manovre.

Se i dignitari del Kraton sono scalzi od in ciabatte sdruscite, i loro parasoli sono in compenso di seta rossa ed azzurrina, con ciondoli, con frangie, con campanelli; se i soldati sono pezzenti dalla cintola in giù, splendono di galloni e di fregi dalla vita in su, con un pennacchio sul cappello, un altro sulla lancia, un terzo in cima ad un tappo nella bocca dei fucilacci preistorici; se le mandrie ed i cavalli di S. M. lasciano abbondanti traccie del loro passaggio sulle strade che conducono alla Reggia, anche gli alberi vi lasciano cadere le loro foglie ed i loro fiori; se da certe porte socchiuse esce un tanfo d’ovile mal governato, sono stemperati nell’aria tutti gli effluvii soavissimi della foresta. Come vedete c’è la... contropartita.

La popolazione mi sembra diversa da quella di Buitenzorg e di Batavia. Infatti il funzionario olandese ci spiega che nel Kraton sono rigorosamente proibite le mescolanze coi cinesi, coi malesi, con le genti stesse dell’arcipelago della Sonda. I ventimila abitanti del quartiere sono tutti giavanesi puri, figli della jungla, diretti discendenti dei primi abitatori dell’isola.

Slanciati gli uomini, magri, nervosi, con molti tratti che li fanno rassomigliare agli indiani del Travancore. Piccole le donne, ben fatte, fornite, coll’ovale delle giapponesi e le reni falcate delle arabe. Viste di profilo sono in genere belle: di fronte ci rimettono per lo scherzetto delle levatrici e diventano discretamente brutte ai nostri occhi quando aprono la bocca, per la disgraziata abitudine d’annerirsi i denti con una pasta di tabacco, calce e scorza d’arec. Insomma sono donne che... ciccano e sputano nero. Pel nostro stomaco europeo è un tantino troppo! Ma la Moda cammina e chissà che un giorno, dopo i tessuti cinesi e la musica dei pellirosse, la grande Parigi non prenda l’iniziativa dei denti d’onice e della cicca au parfum d’Orient.

Una fanfara di casseruole e di catini ci annunzia che ormai ci avviciniamo. Il viale dei varinghi è spezzato da un pretenzioso muretto tutto merli, al di là del quale incomincia la Reggia.

Entriamo per la porta bassa, attraversiamo un cortile fra due ali di soldati, passiamo una seconda porta, un secondo cortile, poi un terzo, un quarto, un quinto, tutta una fuga d’ingressi e di cortili, sempre fra due file d’armati che di mano in mano sfoggiano uniformi sempre più scintillanti come nelle Riviste dei music-hall, quando ci s’avvicina al quadro finale. La Guardia imperiale ha il copricapo giavanese di paglia intrecciata, il kelok, che ha una stridente rassomiglianza con certi arnesi che in Europa si nascondono di solito nei comodini. Piccole musiche di pentole, di pifferi e di tamburi, rallegrano la marcia.

Infine arriviamo in una grande corte quadrata dominata da una torre cinese di quattro barche rovesciate con la cocca in aria. In alto al torrione sventola la bandiera imperiale di Soerakarta. Il luogo è gremito di personaggi e di parasoli che aspettano il loro turno per entrare nel salone delle udienze.

S. M. riceve oggi i notabili indigeni e le personalità europee. Il sottoscritto è l’unico rappresentante del quarto potere alla corte degli eredi di Mataram. E S. M. lo sa!

Dopo cinque minuti un cerimoniere vestito di rosso ci introduce al cospetto dell’imperatore di Giava, re di Soerakarta, «chiodo del mondo», «primo servitore del Misericordioso», comandante in capo degli eserciti e della flotta (!), gran maestro dei culti, custode del Merapi e del Sombing...

Non mi aspettavo un salone così degno. Un magnifico soffitto di lacche celesti e oro è sostenuto da un duplice ordine di colonnine azzurre, intorno alle quali sono scolpiti fiori, uccelli e scimmiotti dorati. Il monarca è seduto alla giavanese sopra una specie di dado azzurro senza spalliera, sotto un imponente baldacchino d’oro, formato da sei ombrelli sovrapposti a lunga frangia. S. M. veste l’uniforme da generale olandese del ’600 col famoso kelok nazionale aggraziato da una spilla di brillanti. Intorno al trono sono disposte venti poltrone di sala d’aspetto di prima classe, riservate ai personaggi europei. Il Residente ha il privilegio d’un baldacchino con tre ombrelli.

I dignitari indigeni sono seduti per terra su stuoie di cocco, con le gambe incrociate, le mani raccolte sul ventre, il capo basso in segno di profondo rispetto, i piedi scalzi e... puliti. Qualunque sia il loro rango il cerimoniale impone a tutti un’uniforme d’udienza che lascia nude le spalle ed il petto, in modo che S. M. possa vedere battere i cuori dei suoi fedelissimi sudditi.

Il sovrano, che dimostra una quarantina d’anni, è pitturato come una bambola di porcellana. Ha il naso appiattito ed i denti neri dei suoi sudditi. Mastica continuamente pallottole di betel ed ogni tanto si degna di sputare. Ogni volta che sua maestà ha bisogno di compiere questa graziosa operazione, quattro cortigiani, i quali seguono attentamente, direi quasi spasmodicamente, i movimenti del gorgozzule e delle labbra del beneamato monarca, si precipitano ad offrirgli una sputacchiera d’oro.

Dietro il trono è, bellamente allineata, una rappresentanza dell’harem. Conto trentasette capi di bestiame. Un ciuffo di penne di pavone è l’insegna del loro grado. Due, quasi bambine, sono proprio ai lati del re. Nude le spalle, nude le braccia, il piccolo seno compresso da una piccola striscia di batista trasparente, i capezzoli acerbi bucano la seta. Il resto del corpo è infagottato nel «sarrong» nazionale che nasconde gelosamente i piedi sui quali non deve mai posarsi sguardo d’uomo, tale privilegio essendo prerogativa esclusiva del «chiodo del mondo» e dei suoi eunuchi.

Pian piano il salone si riempie di personaggi indigeni che si presentano curvati e, giunti a pochi passi dal trono, si buttano in ginocchio prosternandosi con la fronte contro terra. Quando sono stati un pochino così il cerimoniere agita un campanello. La udienza è finita ed i dignitari si ritirano rinculando fino al loro posto. Per gli europei il protocollo è più spicciativo: un inchino, un sorriso-smorfia di S. M., secondo inchino senza la smorfia, e la poltrona. Il Residente olandese fa finta di non conoscerci secondo le regole dell’etichetta. È maestoso il Residente: un metro ed ottanta di altezza, con un petto da lottatore. Si vede che è il fratello maggiore! Visti uno accanto all’altro l’olandese e S. M. sembrano veramente il burattinaio e la marionetta. Pei meticci detta legge il cognome: se il Cognome è indigeno, i meticci seguono la sorte degli isolani, se è europeo possono fare a meno di prosternarsi ed hanno diritto ad una rapida contrazione delle narici imperiali in segno di risposta.

Tutte queste sciocchezze sono importantissime per la tranquillità della colonia.

Fra i diversi dignitari v’è anche una deputazione di mandarini cinesi in costume nazionale, col parasole ed il ventaglio. Avanzano con passetti corti e prima d’inginocchiarsi eseguono sveltamente due piroette che fanno sorridere di disprezzo l’assemblea. Sono i sindaci del quartiere cinese di Soerakarta e dei villaggi «celesti» della provincia. I cinesi sono un po’ gli ebrei dell’Asia equatoriale. Malvisti dagli indigeni e dagli europei, monopolizzano quasi interamente il commercio minuto ed esercitano su larga scala l’usura. Laboriosi, attivissimi, intelligenti, potentemente organizzati e solidali fra loro, costituiscono una delle maggiori forze economiche della colonia, ed il maggior pericolo politico del suo avvenire.

Quando tutte le razze, le cariche e le confraternite dell’impero di Soerakarta hanno deposto l’omaggio della loro fedeltà ai piedi del trono, varie bande ed orchestre, le quali finora hanno avuto l’eccellente idea di non farsi vive, si svegliano di soprassalto intonando ognuna per conto suo, marcie militari e sinfonie di guerra. Primeggia la banda reggimentale olandese che ha un manipolo infernale di pifferi.

Il momento deve essere solenne. Me ne accorgo dalla precipitazione degli indigeni nel buttarsi bocconi contro terra. Il ministro della Guerra ed il comandante della Guardia imperiale, che fino adesso sono rimasti in piedi accanto al trono con le sciabole sguainate, si lasciano letteralmente cadere con la faccia sulle stuoie. Che diavolo succede? Il rappresentante dell’Olanda s’irrigidisce in una posa napoleonica. S. M. rivela la propria emozione con un tiro accelerato nelle quattro sputacchiere d’oro.

E sfila il grande harem: le trecentocinquanta mogli ufficiali, le centocinquanta principesse del sangue, le centotrenta principesse di mezzo sangue, i terzi, i quarti ed i quinti, le dodici favorite, le non so quante madri dei figli legittimi. Chiude il corteo la prediletta dell’ora, regina dell’alcova imperiale di Soerakarta.

Tutte le sacerdotesse dell’harem hanno in mano un flabello di piume di struzzo. Lo spettacolo è pittoresco quanto mai. I «sarrong» a colori vivaci sono finemente ricamati con incrostazioni di coralli e di pietre. Molte principesse inalberano fieramente un diadema scintillante o una piuma paradiso o una coda di fagiano azzurro. Nude tutte le braccia, nude le spalle, quasi nudi i seni, ben falcate le schiene, le anche inguantate dai «sarrong», agili le movenze, felino il passo che fa pensare all’incedere vellutato dei giaguari sui tappeti di foglie, è una sfilata di bellezze asiatiche che appartengono per intero a S. M. È veramente il terreno della sua potenza, l’unico del quale non deve rendere conto al «fratello maggiore». L’Olanda non ha diritto di ficcare il naso nelle gonnelle di corte.

Dinanzi al trono i flabelli s’inchinano, le fronti si curvano con rispetto, le collane di giada scintillano, i piumaggi frusciano, i braccialetti birichini dicono tante cose. Nello scatto delle riverenze piccoli seni scappano fuori dai «sarrong» troppo stretti e le proprietarie li ricacciano giù con un buffetto. Peccato che le labbra sorridano tutte scoprendo i denti neri!

Passa la guardia femminile dell’imperatore: cento vergini aspiranti all’harem. Diane equatoriali della jungla, armate d’archi, di freccie, di spade, di tagàn e di pugnali kris: in capo un elmo di bambù con la coda di pelo di scimmia.

I tripodi che bruciano intorno al trono avvolgono il monarca in un velario grigio-azzurro. Rigido, immobile, compreso della sua maestà, idolo asiatico dalle guancie dipinte e dalle dita scintillanti di gioie, l’imperatore di Soerakarta dimentica la realtà e immagina d’essere come i suoi antenati: l’onnipotente signore di Giava, padrone della vita e della morte di tutti i suoi sudditi, rappresentante di Dio ed egli stesso investito dal soffio sovrumano della divinità, il «chiodo del mondo», il fior di loto della jungla, così come cantano le canzoni della foresta nelle notti di luna sulle soglie delle capanne....

Quando sotto un parasole color ciclamino tintinnante di sonagli compare la prediletta, nuda dalla vita in su, senza un velo, senza un gioiello, senza un fiore, altro che la sua turgida bellezza meticcia, con un «sarrong» di piume di struzzo che la fa parere una fantastica libellula, vien voglia di battere le mani.

Quante migliaia di fiorini ha ricevuto il ministro degli Interni per aver saputo scovare nelle serre dell’Equinozio questa superba corolla?

L’idolo s’alza accompagnato dal «fratello maggiore» per assistere dalla veranda del Kraton alla rivista dell’esercito.

Nella grande piazza in fondo alla quale sono allineati i reggimenti delle palme-cocco, sfilano le forze armate dell’imperatore: un battaglione olandese con la bandiera della lontana Regina, un battaglione misto di indo-giavanesi, la Guardia a cavallo, le amazzoni, i cervi del Re, i cacciatori, i buffoni, i nani, gli aborti ed i pazzi di Corte; le insegne della sovranità, un gruppo di maschere colla testa di tigre e d’elefante, le pipe del Re sotto parasoli verdi, le sputacchiere, i ventagli, i pugnali, i ministri, i dignitari, i servi, le truppe scalze, ombrelli d’oro, d’argento, rossi, violetti, gialli, verdolini, bandiere, labari, oriflamme, stendardi, musiche, musiche. Ultima la plebe, tutti i ventimila abitanti del Kraton ognuno con un ramo di palma.

Per un istante anche noi dimentichiamo il «fratello maggiore», i cannoni dell’Olanda, i milionari di Batavia e Surabaya, l’infinita miseria di questo imperatore che è più schiavo dei suoi schiavi, la bassezza di questa plebe superstiziosa e codarda, tutto l’immenso ridicolo dello spettacolo e dei suoi personaggi, per evocare la reale potenza degli Antenati quando i despoti innalzavano colle glebe dell’isola i mausolei del Borobodor.

L’uniforme di generale olandese diminuisce la solennità dell’idolo, ma il volto dipinto secondo la tradizione secolare e gli occhi trasfigurati dall’orgoglio, ricostruiscono l’antica maschera imperiale. È ieratico l’imperatore di Soerakarta e non stonerebbe sull’altare di una pagoda fra gli incensi dei bonzi in uno sfondo di porcellane e di lacche. Veramente egli è il discendente di quegli uomini-dio che nel lontano passato decidevano col loro capriccio le sorti dell’umanità asiatica ed il cammino stesso della storia.

Quando tutta la mandria umana è sfilata, la folla si ordina in formazione di piramide con la cavalleria alla base e la prediletta sul vertice della figura. Un comando, un urlo simultaneo delle ventimila bocche, e l’intera piramide si prosterna nella polvere ad adorare il Re.

La banda reggimentale olandese che non prende parte all’esercizio, intona l’inno nazionale di Nederlandia. Rombano i cannoni del forte. Il Residente olandese si irrigidisce germanicamente sull’attenti, con la mano alla visiera.

E per un istante il fantoccio incoronato ha l’illusione d’essere veramente imperatore!

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