Il tempio di Borobodor

JOKAKARTA, 9 febbraio.

Siamo arrivati a Borobodor ieri sera ad ora tarda e siamo andati subito a letto per essere svegli stanotte alle due.

A Batavia chi ci aveva consigliato di visitare le grandi rovine al chiaro di luna, chi in pieno sole. E gli uni erano altrettanto categorici degli altri.

«Senza luna il Borobodor è una disillusione» aveva sentenziato un grosso mercante olandese che si picca di mecenatismo perchè ha ereditato da una zia di Utrecht una galleria di brutti quadri e di belle cornici!

«Soprattutto che sia una giornata di sole!» aveva raccomandato un francese di Pondichery che ha un cognato all’Accademia delle Belle Arti! Avevamo la suprema risorsa del pari o dispari, infallibile in simili frangenti, ma non volevamo scrupoli di coscienza. D’altra parte non potevamo dedicare più di dieci ore, contate contate, ai monumenti di Borobodor.

Alla fine abbiamo preso una decisione salomonica: trovarci sul luogo alle tre del mattino e restarvi fino all’ora del sole, filare poi in automobile a Jokakarta in modo d’essere puntuali a mezzogiorno alla colazione offerta dal Presidente olandese; ripartire nel pomeriggio in ferrovia per la città rivale Soerakarta dove siamo invitati ad un ricevimento indigeno della casa imperiale – un vero terno al lotto – con probabile intervento di S. M. graziosissima l’imperatore di Giava. Udienza col monarca l’indomani mattina alle dieci e rivista militare a mezzogiorno nella piazza del Kraton per la fortunata coincidenza d’una cerimonia nazionale.

Due belle giornate piene nelle quali il sonno sarà un po’ strapazzato, ma quando s’è nel cuore dell’Insulinda e si può in quarantott’ore mettere nella bilancia i mille Buddha di Borobodor, il sole, la luna, una colazione olandese, un ricevimento principesco, una udienza imperiale e, per giunta, una rivista di soldati scalzi col parasole, non si deve essere troppo difficili in materia di riposo. Non capitano sovente nella vita programmi di questo genere e chissà quante volte, ritornati ai domestici lari, toccherà contentarsi d’assai meno, per esempio d’un forbito discorso del segretario comunale, d’un ricevimento della sindachessa durante il concerto della filarmonica in piazza del Municipio, la sera fuochi d’artifizio o rappresentazione del Padrone delle Ferriere con «due parole» dell’assessore anziano all’inclito pubblico e gentili signore!

Approfittiamo, approfittiamo. Il destino è così dispettoso coi giramondo che un giorno si diverte ad impeciarli in un appartamento di tre stanze con le finestre sul cortile, magari fra moglie e suocera, e la condanna perpetua di restar lì fino agli ultimi reumatismi.

Avremo tempo in ogni modo di dormire a Kadika dove ci fermeremo una settimana ospiti d’un ricchissimo piantatore, a studiare le scorze e le foglie dei guttaperka. Un’idea come un’altra di chi paga le spese del nostro viaggio ed ha a sua disposizione un telegrafo in quel di San Francisco.

La grande lampada imbianca la notte equatoriale quando arriviamo dinanzi ai centoventi gradini del tempio di Borobodor. Due leoni montano la guardia ai piedi dello scalone. La luna allunga smisuratamente le loro ombre. E s’incomincia a salire verso la cima.

Il grande tempio indo-giavanese contemporaneo di Carlo Magno, fu edificato, secondo gli archeologi, da una dinastia indù che fu poi detronizzata dai principi maomettani del Sultanato indigeno di Mataram, anch’esso scomparso.

Delle splendide città di quell’epoca, nulla resta: tutto è stato distrutto dai secoli, dai terremoti, dalle eruzioni del Merapi, dalla inesorabile sovrapposizione della foresta equatoriale; solo rimane questo tempio di ciclopi che ha resistito alle ingiurie degli anni, degli uomini, dei lapilli e della jungla.

Forse per questo le foreste di Giava hanno un curioso odore di roba morta.

Il tempo ha fatto cadere in rovina torri e muraglie, i terremoti hanno schiantato i macigni, il Merapi ha sepolto sotto le sue scorie infuocate chioschi e pagode, il vandalismo mussulmano ha mutilato i Buddha e le sculture, le erbe potenti dell’Equatore si sono intrufolate senza rispetto dappertutto, fino a sotterrare statue e cappelle, anche il fuoco e le saette si sono accaniti contro il mausoleo, ma l’edificio resta in piedi. Costruito per sfidare i secoli e le lave, ha assolto il suo compito. I molteplici scempi non sono riusciti a deturpare il solenne insieme delle sue linee. Così com’è attualmente, tutto in pezzi, è ancora uno dei massimi monumenti innalzati dalle folle umane alla Divinità.

Lo hanno edificato con sangue e sudore di plebi quei formidabili creatori di templi che sono gli indiani; tozzo, pesante, massiccio e, secondo la loro consuetudine, ne hanno intonato l’architettura alla fisonomia del paesaggio. Quando si osservano le fiancate del monumento, la sua cima mozza ed appiattita, la sua struttura di piramide tronca, che pare schiacciata dal peso d’un invisibile fardello, è evidente il rapporto d’armonia fra la sagoma del mausoleo e la forma del vulcano Merapi che domina paurosamente l’orizzonte, accigliato gigante della vallata.

Mentre le chiese cristiane e le stesse moschee mussulmane danno in genere una sensazione di slancio, quasi vogliano figurare l’aspirazione dell’anima verso l’Infinito, con le cupole aeree ed i campanili librati arditamente nel vuoto che fanno pensare all’ascesa degli incensi verso le incommensurabili altezze del mistero, i monumenti buddisti danno l’impressione diametralmente opposta di rassegnazione e di annientamento. Sono i mausolei della «rinunzia» di Cakia-Muni.

La filosofia buddista soffoca gli impeti dell’arditezza umana, tarpa le ali ai voli d’Icaro, fa consistere la perfezione non nel mistico balzo sempre più in alto, ma nella umiliata discesa in profondità fino all’immedesimazione negativa dello spirito col Gran Niente. Tutti i monumenti buddisti cercano di rendere nella loro struttura architettonica questa visione caratteristica dell’esistenza, nessuno vi riesce quanto il tempio dei Mille Buddha di Borobodor, che sotto questo aspetto supera, a mio parere, lo stesso prodigioso Angkor Wat del Camboge.

I viaggiatori occidentali, abituati alla fisonomia diversa dei colossi del cristianesimo e del paganesimo mediterraneo, rimangono, di primo acchito, un po’ sconcertati dalla monca pesantezza di questa mole che, innalzatasi dal suolo con le assise potenti di una piramide faraonica, par debba arrivare chissà dove, ed è invece bruscamente spezzata a metà. Eppure la suprema bellezza del Borobodor è appunto questa sua pesante incertezza che così bene s’inquadra nello scenario delle montagne vulcaniche troncate dai crateri, soprattutto se si pensa all’ispirazione fondamentale del mirabile architetto, il quale volle da una parte edificare un tempio che potesse sfidare i terremoti di Giava, dall’altra contrapporre alle mistiche angoscie del brahmanesimo ed ai suoi templi paurosi, zeppi di divinità terribili, un monumento raccolto e maestoso, che rivaleggiasse con quelli per mole e ricchezza e nello stesso tempo esprimesse la grande pace nella rinunzia buddista che annulla il tormento degli uomini, annientando l’umanità nel Niente donde è uscita e dove ritornerà.

Allo stato attuale dei ruderi nessuna fotografia può dare un’impressione esatta del Borobodor, perchè i terremoti e la vegetazione hanno infranto la simmetria delle linee. Solo il chiarore lunare, attenuando le rovine e l’invasione delle foglie, mostra il monumento nella sua maestà originaria quale doveva essere nel periodo del suo splendore.

Immaginatevi una collina vulcanica che gli uomini, con immane fatica, hanno trasformata artificialmente in una piramide regolare, livellandone i fianchi e squadrandone le falde. Nove grandi terrazze sovrapposte scalano la montagna: le prime sei, poligonali, con trentasei angoli ognuna; le ultime tre, circolari, con in cima all’ultimo cerchio la pagoda principale a cupola schiacciata.

Il materiale adoperato è una pietra vulcanica, plumbea, porosa, che sembra cenere impastata con lieviti di metallo. I massi sono sovrapposti senza cemento come nelle costruzioni pelasgiche.

Lungo ogni terrazza corre un largo cornicione di pietra addossato alla muraglia del terrazzo superiore. Quando il luogo era frequentato da milioni di pellegrini, quelle erano le strade seguite dai fedeli per salire di piano in piano fino al vertice del tempio. Le alte muraglie sono minuziosamente scolpite a scene ed episodii della vita di Buddha. L’immagine del maestro, dall’eterno sorriso, è ripetuta uniformemente quattrocentotrenta volte in altrettante nicchie, nelle quattro pose simboliche della contemplazione, dell’insegnamento, della preghiera e della rinunzia. Ed ai piedi d’ogni Buddha sono modellate a migliaia figure di animali e di uomini che ascoltano le parole del Saggio dei Saggi.

Le settantadue nicchie dell’ultimo girone sono sormontate da un cupolotto a forma di campana, sotto il quale i Buddha, imprigionati dentro una specie di gabbia di pietra, erano in origine quasi invisibili, ma i venti si sono divertiti, durante i secoli, a suonare le campane di granito, frantumandone una buona metà. Ora dalle celle scoperchiate emerge la grande testa del Maestro sorridente e dove lo scampanìo del vento è stato troppo brutale, anche la statua del filosofo è ghigliottinata, quasi ad affermare che il Nulla è la fine inesorabile d’ogni cosa, comprese le più preziose e le più sante.

Nel centro dell’ultimo cerchio, che è anche il punto più alto del monumento, sotto una campana più grande delle altre, v’è un blocco informe di sasso, nel quale l’artista ha appena accennato l’effige di Buddha per raffigurare nell’abbozzata imprecisione delle linee, il supremo annientamento del Maestro nel mondo senza forme, nel grande Nada dell’empireo Buddista. Secondo la leggenda, sotto questo macigno sono conservate una parte delle ceneri di Buddha.

Quando arriviamo in cima all’edifizio, dentro la pagoda mortuaria, il Filosofo ci accoglie col suo tragico sorriso che dura da un millennio, terribile smorfia che ha assistito, nell’impassibilità della pietra, alle collere del Sombing e del Merapi, alla distruzione dei villaggi, alla sepoltura delle genti addormentate, alla fuga pazza delle folle e degli animali attraverso la jungla arrossata dai bagliori delle lave, alla scomparsa di razze e di civiltà, alla fine stessa del buddismo. I raggi lividi che investono il macigno fanno risaltare il gran testone beato del Filosofo, il suo grosso ventre di priore asiatico, le enormi coscie, le gambaccie incrociate che si confondono incertamente nel sasso, col pollice consunto dai baci di generazioni e generazioni. È lui, proprio Lui, il Buddha del Tibet, di Ceylon e di Singapore! E più di tutti i Brahma dell’India incarna potentemente il mistero dell’Asia.

Moltitudini venute d’ogni parte dell’isola e dell’arcipelago australe, dalla Malacca, dalla Birmania, si prosternavano riverenti dinanzi al Profeta dell’idulgenza e bruciavano le «cartine della preghiera senza fatica» mentre sulla vetta del Merapi ardevano i fuochi dei cataclismi. Ed il Maestro insegnava agli uomini a sorridere dinanzi ai boati ed ai rigurgiti minacciosi del vulcano, alla miseria, alla morte, alla schiavitù, all’ingiustizia, a tutte le incognite dell’Enigma che incombono sul cammino delle genti, a contentarsi d’un pugno di riso cotto e d’un po’ di sogni, i sogni dell’oppio che ingannano i bisogni e soddisfano i desiderii...

Piccole piante dell’Equatore sono nate negli interstizii delle pietre vulcaniche e tengono compagnia al Solitario; pianticelle che la luna inargenta, che il vento agita con dolcezza. Sostituiscono col loro omaggio le moltitudini che hanno cambiato strada.

Colgo una foglia, così, senza motivo, per conservarla insieme a tante altre che raccolgo, chissà perchè, in una vecchia scatola da sigari – stupida collezione da giramondo – e dal gambo reciso sprizzano poche gocce d’un latte gommoso, quasi per dire che accanto all’altare del «supremamente buono» anche il pianto delle foglie ferite è una grande dolcezza!

Dal vertice della piramide l’occhio abbraccia tutta la mole. La luna metallizza le pietre. Bastioni e gradini sembrano scavati in un fantastico aerolite. Quando dalle basi all’apice del mausoleo le scalinate ed i gironi erano carichi di draghi, di leoni e di elefanti di granito, secondo la descrizione del viaggiatore cinese Fu-Hien che visitò il Borobodor nel 1400, ed i pellegrini pavesavano i nove cerchi dei loro cenci e dei loro parasoli, e fumavano i tripodi delle settantadue nicchie, e le pancie dei bonzi contemplatori decoravano i merli della pagoda superiore, e tutt’intorno templi e città fiammeggiavano nel sole di Giava, questo luogo doveva essere uno dei più grandiosi scenarii del mondo di allora. Ora è lugubre e freddo. È il sepolcro di tutto un passato.

Che cosa resta della dominazione indiana su Giava? Qualche servo bengali a Batavia e qualche facchino malabar a Surabaya. Resta anche una placca di rame col nome del maradjià Sri Mataram che le guide mostrano dentro una vetrina del museo di Batavia alle coppie anglo-sassoni di passaggio!

Per avere un’idea della colossale fatica che è stata necessaria per condurre a compimento il Borobodor, bisogna seguire la strada dei pellegrini lungo l’immensa spirale della muraglia. Per una lunghezza di un chilometro e mezzo la parete è tutta scolpita a bassorilievo. Se si aggiungono le gallerie interne e i pannelli ornamentali, l’area scolpita è, secondo l’archeologo Groneman, di oltre tre chilometri quadrati. E le mille e mille figure non sono trattate superficialmente, ma cesellate con infinita minuzia nella lava trachitica in ogni loro particolare fino ai disegni delle vesti ed ai ricami delle selle.

Lo spirito evoca l’immane pena delle plebi che l’implacabile ambizione di pochi principi indiani condannò alla mola. Quante migliaia e migliaia di schiavi e per quanti anni? Quanto sudore, quanto pianto e quanto sangue hanno bevuto le pietre grigie per soddisfare l’orgoglio d’un sol uomo il quale volle in piena jungla giavanese sorgesse un monumento più grande e più splendido dei templi stessi della madre India?

Ancora la notte è fonda e nessuna lucentezza nuova imbianca l’orizzonte. Solo la luna inonda il creato del suo biancore. E s’abbassa sull’orizzonte.

La foresta preme intorno al mausoleo, aspettando il momento di poter seppellire sotto l’oceano delle sue foglie la gigantesca piramide. Intanto ha mandato innanzi le sue avanguardie, i terribili «fichi delle rovine» che si insinuano in tutti gli intagli ovunque un fremito di terra ha schiantato i macigni od un muro s’è incrinato sotto il peso dei secoli. Distruttore inesorabile il fico continua silenziosamente l’opera di morte, allarga le crepe, aggrava le fenditure, scalza, slabbra, trivella, finché i macigni, messi fuori d’equilibrio, non precipitano provocando altre rotture ed altre rovine od i muri, spostati dalla formidabile leva che completa l’opera dei terremoti, non crollano fragorosamente.

Il vento, complice compiacente, si diverte a sparpagliare un po’ dappertutto i semi della dinamite vegetale fino in alto sui terrazzi e sulle cupole delle pagode. Negli interstizii dei massi vulcanici i minuscoli grani trovano sufficiente terriccio ed umidità per mettere al mondo un ciuffetto di foglie, poi lavorano in profondità con filamenti sottili che sanno trovare la strada fra le pietre, strisciano, s’attorcigliano, si allungano, raggiungono la terra grassa e bagnata. Allora ingrossano rapidamente in tutta la lunghezza e finiscono collo sventrare le più grandi muraglie. Tutti i templi e le città dell’epoca indo-giavanese sono finiti così, sepolti dalla jungla nei suoi sudari verdi.

La notte è torbida, piena di languori e di profumi. Notte dell’Equatore, notte di Giava! La grande Orsa dei cieli d’Italia è tutta inclinata a levante, quasi rasente alla linea dell’orizzonte. Splende invece la Gran Croce del Sud, celeste regina dell’Equinozio.

I raggi della luna incipriano di polvere di perla la folta oscurità della foresta. Il fogliame li spegne nella sua ombra. Dardeggiano invece sulle pietre e le lave del Borobodor con ombre lunghe e più lunghi riflessi. La piramide par fatta d’un metallo vergine e grezzo che fa pensare alle profondità del globo. Il lividore attenua i disegni ed annebbia gli intagli. Solo i settantadue faccioni, dalla smorfia statica, sono avviluppati in un bagliore di latte. Sorridono, sorridono... Dominano la notte e le rovine.

Ed il tempo passa. Pian piano la luna trascolora come colta da un’improvvisa anemia. Il suo disco d’argento luminoso si trasforma gradatamente in un globo di vetro opaco.

E s’attenua il bagliore delle stelle.

E dagli angoli lontani dell’orizzonte si sprigionano sbuffi d’una bianchezza diversa, più calda, con un non so che d’oro nel suo pallore.

Sul mausoleo fa meno chiaro, quasi si direbbe che la penombra è diventata più smorta, che stia per incominciare una più profonda notte, ma dagli spazi una grande chiarezza s’avanza e s’avvicina.

Appare uno scenario inaspettato di montagne. Il Merapi precisa la sua ossatura potente. Come evocati da una forza medianica compaiono ai suoi fianchi i fratelli finora invisibili, il Merbaboc ed il Sombing, feroci distruttori di campagne e di villaggi.

Verso la vallata il cielo si colora dolcemente di rosa con fiocchi di garza verdolina e sfilacciature di porpora.

Verso i vulcani, dov’è addensata una coda di temporale, prevalgono le tinte cupe, l’acciaio, il nero-pece, il grigio granitico, il violetto carico dei velluti, tutto un fantastico caos di forme mostruose, intassate, sovrapposte, come montagne di minerale e di carbone sospese nel vuoto che stiano lì per precipitare sulla terra e subissarla.

La lunga alba equatoriale s’attarda ad illuminare i due quadri. Il vertice della piramide è un fantastico belvedere aperto sulla grandiosità del mattino.

Nessun uccello saluta il giorno che nasce.

Forse nella foresta s’aprono le case degli uomini, ma le foglie nascondono i risvegli. S’ha la sensazione d’essere soli, soli fra i ruderi e soli nell’orizzonte, testimoni tutt’occhi e senza fiato.

Dov’è lo sfondo fosco, s’abbassa una piccola luna di stagno, sinistra come la faccia della morte. Dove sono i veli e le frangie d’oro, s’innalza un disco smisuratamente grande, giallo, opaco, indefinibile. C’è una paratia di vapori tra la terra e il sole. Per un momento i due astri sono entrambi senza luce, lontani lontani, poi i primi dardi solari forano il velario, lo stracciano, lo sfioccano, precipitano vittoriosi alla conquista dell’infinito, avviluppano la foresta, snidano i villaggi, investono il Borobodor che s’indora, incoronano i quattrocentotrentadue Buddha della piramide, svegliano le mille figure dei bassorilievi, irrompono all’assalto dello scenario fosco e lo mitragliano di saette.

I preti buddisti sapevano scegliere i luoghi per i loro templi!

Il pellegrino antico che durante le ultime ore della luna saliva di terrazza in terrazza fino alla cima del Borobodor soffermandosi a bruciare i sacri incensi dinanzi ad ognuna delle quattrocentotrentadue stazioni, che arrivava così colle prime evanescenze dell’alba ai tre cerchi superiori dove di girone in girone il sorriso dei settantadue Buddha gli appariva sempre più splendente, e che giunto al vertice della piramide, dinanzi alle ceneri del Saggio dei Saggi, si volgeva intorno a contemplare le magnificenze dell’Equatore, doveva veramente sentire l’annientamento della propria piccolezza nella grandiosità del creato!

Giava – Indigeni nella jungla.
Giava – Mercato di villaggio.

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