Danze e amori d’Asia

SOERAKARTA, 24 febbraio.

La Corte Imperiale di Soerakarta ci ha mostrato col ricevimento pubblico di S. M. e colla festa militare del Kraton, la grande società indigena ufficiale di Giava che è rimasta fedele alla mentalità ed alle costumanze degli antenati, nascondendo sotto i parasoli d’oro e dietro i paraventi di lacca la sua attuale servitù politica e la sua miseria economica.

I saloni giavanesi del principe milionario di Kaporo-Pendopo ci mostrano stasera in tutto il suo fasto una grande famiglia asiatica, la quale invece di raccogliersi fra gli stracci di porpora, nel ricordo dello splendore passato, ha scaltramente sposato da secoli la causa dei conquistatori olandesi, ha venduto al governo di Batavia la propria influenza politica, ha rindorato, coi fiorini della Regina Guglielmina, il vecchio blasone di Mataram, ha fatto educare le giovani generazioni in Europa, addestrandole ai traffici ed alla malizia dell’Occidente. Mentre quasi tutte le famiglie nobili di Giava sono finite nell’indigenza e debbono mendicare a Batavia un modesto impiego di Reggente, i principi di Kaporo-Pendopo sono multimilionari di fiorini, hanno piantagioni di zucchero e raffinerie, piroscafi di cabotaggio, azioni delle diverse «Matchappy», e colle rendite favolose dei loro possedimenti possono permettersi il lusso d’offuscare la povera Corte imperiale con ricevimenti di straordinaria opulenza, nei quali rivivono i fastigi dell’antico reame di Mataram.

Quando la nostra automobile si ferma dinanzi al palazzo dei Kaporo-Pendopo sono quasi pentito d’aver accettato l’invito, tanto è terribilmente olandese l’atrio della villa e più olandese ancora il salotto nel quale un domestico bianco ci introduce con la classica alterigia dei lacchè di grande casata: poltrone e divani di cuoio color avana, marina d’Amsterdam, e canali d’Utrecht alle pareti, v’è perfino un monumentale camino di «polder» batavo con una collezione di vecchie pipe del Bramante. Ci si crederebbe a Leida in casa d’uno scabino della Corona. Bei tulipani completano il quadro facendo pompa dei loro velluti in vecchi vasi di porcellana del Limburgo. S’aspetta di vedere entrare una forosetta dalla cuffia inamidata e gli zoccoli di legno ad annunciare un personaggio di Rembrandt. Entra invece S. A. imperiale il principe di Kaporo-Pendopo, piccolino, giallognolo, incartapecorito, cerimoniosissimo. Lo «smoking» europeo lo fa rassomigliare a quei giapponesi che s’incontrano a «table d’hôte» degli alberghi di Milano e di Roma, col passaporto sul viso, impacciati, timidi, che stanno a disagio dentro il colletto duro e lo sparato bianco, abituati come sono alla libertà dei pigiama ed alla larghezza floscia dei «kimono».

Il wisky è servito da un cameriere meticcio in «frac» e pantaloni corti. Cristalli ed argenteria hanno lo stemma dei Kaporo, testa di tigre su tondo di jungla. Il listino di Borsa ed i prezzi della guttaperka forniscono abbondante materia di conversazione. Temo d’aver sciupato la serata come tante volte in India in casa d’un asiatico europeizzato, d’uno di quei neofiti della civiltà occidentale che si fanno in quattro per scimmiottare alla perfezione il modo di fare e di ricevere dei bianchi senza riuscire, dopo venti anni d’esercizio, ad accomodarsi convenientemente un nodo di cravatta. Li vedete entrare in sala come figurini di Parigi, ma cinque minuti dopo le membra ribelli mandano lo sparato di sghimbescio, il cravattino s’allenta, un pantalone trova sempre verso d’infagottarsi al ginocchio ed i polsini escono come lumache dal fodero. Sotto le rovine dello «smoking» compare il Pinocchio asiatico a rivendicare i suoi diritti millenarii.

Mentre centellino il mio wisky accanto al camino nordico che coi suoi alari di bronzo lucente ed i suoi alti stipiti di porcellana dà quasi una sensazione di freddo, non posso trattenermi dal pensare con rimpianto alla festa del kris che stanotte impazza nel quartiere malese di Soerakarta, agli stradini del Kampong indigeno dove le ragazze di Giava ballano la vecchia «serimpé» degli antenati al suono delle chitarre «dacòte» e gli uomini si ubbriacano ai bancherelli di sugo di palma, e tutte le donne vestite a festa coi «sarrong» ricamati aspettano sulle stuoie, fuori degli usci, che annotti per vedere ballare la danza terribile del kris, che a volta s’arrossa di sangue, ma che accende nelle vene anche delle più vecchie i torbidi fuochi dell’Equatore.

M’avevano parlato di questo principe come d’un grande raffinato e d’un grande signore d’Oriente. Mi aspettavo quindi un palazzo sontuoso di nababbo, un giardino incantato, lacchè, ori, ventagli, sirene australi... invece.....

— Le notizie da Borneo sono pessimiste, raccolto scadente e tutte piante giovani.

— Anche Liverpool fa poche domande...

— A Celebes i prezzi sono in rialzo!

— Tutto dipende in ogni modo dalle richieste di San Francisco.

— A quanto le «Sugar Matchappy»?

— Dodici e tre ottavi.

Stanotte è gran festa in tutta l’isola, anzi in tutta la Sonda, a Borneo, a Celebes, nelle Molucche. Gli uomini e le donne di Giava non si occupano dei tè e della guttaperca, hanno lasciato le piantagioni per raccogliersi nei villaggi, indossano i «sarrong» più belli e tutte le collane di vetro. Le ragazze da marito, coi denti di lacca nera e gli zigomi rosso fuoco, aspettano il tripudio del kris per scambiare il primo bacio, quello che lega per la vita. Notte di danze, d’amori e di pazzie.

Nella jungla del Borneo dove il controllo dell’Olanda è relativo, il kris si balla ancora coi pugnali avvelenati sotto i grandi ombrelli della foresta. Le zuffe degli uomini si confondono per una notte con le battaglie degli orang-utang e cogli amori dei gatti selvatici, come nelle epoche primitive della specie. Il fuoco dell’Equatore brucia le vene degli umani, dei quadrumani e dei felini. S’ama e s’ammazza. La terra umida offre alle coppie impazzite la soffice alcova delle sue putrescenze. A Soerakarta, zona già conquistata dalla civiltà, i gendarmi tolgono dalla cintola dei danzatori e dai «sarrong» delle ballerine le lame di Surabaya e gli stiletti di Macao.

Anche qui si spalancano le porte ed il principe ci invita con un sorriso alla festa del pugnale.

Come in una fantasmagorica cinematografia il salotto olandese col camino d’Amsterdam scompare dagli occhi e dalla memoria. I saloni della festa sono una serra sfolgorante dell’Equatore. Le orchidee strane e carnicine prendono il posto dei tulipani del settentrione.

Solo il principe e noi abbiamo la stonatura dello «smoking». Tutti gli altri invitati europei indossano l’abito coloniale da sera, di tela bianca, col petto floscio e il colletto morbido. La nobiltà indigena è in costume nazionale col «sarrong» colorato, il corpetto di raso bianco a ricami di lacca, in capo un gran fazzoletto di seta nera artisticamente annodato a turbante con una spilla di brillanti, un fiore, una «aigrette», un ciuffo ardito di cacatoa. Gli invitati sono tutti uomini secondo la consuetudine mussulmana, ma ben presto le ballerine animeranno la sala dei loro frulli di farfalla.

Con la stessa cura meticolosa con cui nel salotto olandese era stato eliminato qualsiasi oggetto che comunque parlasse di Giava e dell’Equatore, così nei saloni del «salemlik», aperti sul giardino, non v’è nulla che comunque ricordi l’Occidente. Il principe è pari alla sua fama. Tutto è asiatico, e dove la produzione giavanese non offriva il necessario, S. A. è ricorsa agli inesauribili tesori della Cina e del Siam. Il Kraton dell’imperatore di Soerakarta è una stamberga in confronto alla villa dei Kaporo-Pendopo, veri eredi degli Sri Mataram.

Lampade d’alabastro s’alternano a doppieri siamesi, con prismi e decorazioni di cristallo: qua e là grandi lampade cinesi di seta dipinta in mezzo a piccole lucerne del Camboge con intorno tanti dondolini di vetro colorato che tintinnano dolcemente al vento con una musica argentina di campanelli. Non sedie, nè poltrone, ma dadi di velluto giallo o rosa secondo l’usanza di Giava, o sgabelli di lacca, di quelli che usano i fumatori d’oppio per addormentarsi e sognare. Paraventi, stuoie, tavolini di lacca, chioschi di vetro fatti per isolarsi dalla festa, tripodi carichi d’incensi, vasche, zampilli d’acqua, torcieri di bengala, tabernacoli di pagoda, Buddha e ninnoli d’Oriente, tutto è di materia preziosa e di fattura artistica senza orpello e senza finta ricchezza.

Domestici scalzi e taciturni offrono in grandi vassoi di Canton bibite misteriose, dolciastre, profumatissime, che al primo sorso non piacciono, quasi ripugnano, ma poi vi conquistano come le bocche di certe donne e vi obbligano ad andare fino in fondo al bicchiere per scoprire il segreto della loro mistura. Lasciano nel palato una strana sensazione di bruciore e di sete, come d’un fiore masticato fino all’amarezza. È acqua? Pare! Se ne tracannano giù tre o quattro bicchieri, poi i misteriosi alcool equatoriali della foresta avvinghiano d’un tratto a tradimento con un cerchio sottile intorno alle tempie e sugli occhi scende un velo che stempera i contorni. Tutto si vede in una sfumatura di sogno. Gli incensi gettano una nota mistica nel baccanale dell’Equatore.

Ragazze quasi nude offrono, in grandi piatti di cocco, i manghi del Merapi, duri, diacci, asprigni, le «mellànghe» dalla polpa elettrica che stringono le gengive in un bacio viperino, le «roseàde» che ingommano i denti colla loro dolcezza vischiosa, tanti altri frutti senza nome e mai visti che non si trovano neppure sui mercati di Batavia e di Surabaya, qualità ormai scomparse dalla circolazione, prodotti dell’alta jungla, condannati a scomparire dalla civiltà trionfante che conquista la foresta alle coltivazioni lucrose del tè e della guttaperka. Solo pochi milionari indigeni possono permettersi il lusso di grandi possedimenti incolti nei quali i servi vanno di tanto in tanto a raccogliere le leccornie dell’Equatore.

I principi di Kaporo-Pendopo posseggono la più grande «gamalanga» di Giava, l’unica orchestra dell’isola che ancora comprenda tutti gli strumenti antichi dell’arcipelago della Sonda. I musicanti sono circa una cinquantina. Accoccolati sulle stuoie agli ordini d’una vecchia ermafrodita della Corte di Soerakarta che è il... Toscanini di Giava, provano i loro strani strumenti, certe chitarre fisse che per suonarle s’incastrano in un buco del pavimento e poi ci si strofina su una sega di corde vegetali, viole ad una sola corda, casseruole armoniche, arpe orizzontali che si martellano con canne di sambuco, zucche vuote di tutte le dimensioni, zufoli, flauti, triangoli, pifferi, palle che si lasciano correre in un catino d’argento, curiosi tempietti fatti di pezzettini di vetro ingommati a tanti piccoli spaghi, in mezzo ai quali il musicante soffia in una data maniera, estraendone come uno sciacquìo d’acqua corrente.

S’aspetta chissà che fracasso di stoviglie e di tamburi. Si è sorpresi invece da una musica dolce, ovattata, languida, che par venga di lontano sulle ali del vento, un’armonia non priva di fàscino che il nostro orecchio europeo non capisce, ma sente non barbara, prodotto delicato di un’arte delicata e difficile che è inaccessibile per noi.

Ho sentito qualche cosa di simile nella jungla quando il bacio potente dell’Equatore solletica i miliardi di foglie della foresta, ed il vento porta appena l’eco di lontane canzoni di capanna, e le gomme schiantano le scorze dei tronchi secolari, e le scimmie si dicono sugli alberi le loro confidenze... Musica della jungla, dialogo delle cose con le cose nelle notti di zeffiro e di luna...

Le zucche imitano magicamente i boati sommessi e profondi dei vulcani. Certi «a solo» fanno pensare all’agonia dolorosa d’un uccello.

Entrano nel giardino con passetti corti e moine di bimbe le danzatrici. Vengono dall’ombra degli alberi e pare portino con loro il fremito delle palme-cocco. Le «bedaye», ballerine di corte, sono quarantacinque, e trentadue le «roàme», che sono danzatrici di professione scritturate per le feste. I nasetti un po’ schiacciati ed i denti d’ebano lucente danno alla loro bellezza australe una impronta indefinibile, come d’un mostruoso incrocio fra una bellissima gente umana ed una razza animale della foresta.

Accartocciate dalla vita in giù nei «sarrong» di paglia intrecciata, il torso inguantato da una mussola bianca, nudo mezzo seno, nude le spalle, i capelli acconciati a pagoda con forcine e campanelli d’oro, gli occhi a mandorla cerchiati di malva, tre piccoli nei sulla guancia sinistra, debbono rappresentare per gli indigeni il non plus ultra della femminilità. A noi non piacciono per la loro stranezza, fiori d’una flora esotica che sgomentano un po’ per la profonda diversità coi prodotti delle nostre serre.

Dall’orchestra-gamalanga si sprigiona un gran fruscio di vento ed incomincia la danza.

Immaginate una «giava» di «jazz-band», ma lentissima, così lenta che fra un passo e l’altro corrano quaranta secondi, a volte un intero minuto. I movimenti sono prima eseguiti dalle gambe, poi dai torsi, per ultimo dalle braccia. Quando, progressivamente, anche le mani hanno raggiunto la posizione della figura, le danzatrici restano un istante immobili prima di incominciare lentissimamente la plastica della seconda figura. E siccome i «sarrong» dalla cintola in giù sono rigidi, mentre i torsi sono quasi nudi, si ha l’impressione d’un ballo eseguito dentro giarre di terracotta.

Incomincia la danza del kris, la terribile danza della jungla che, proibita dal governo olandese in tutto il territorio della colonia, si balla esclusivamente a corte e nelle ville principesche con le dovute precauzioni. Ma nei villaggi appollaiati sulle montagne e nei «kampong» sperduti nella foresta, le genti nell’isola trovano ancora modo di ballare il kris al chiar di luna secondo l’uso degli antenati, col corpo nudo ed i pugnali avvelenati nel vischio della raya. Basta una scalfittura per avvelenarsi ed è così facile scalfirsi, mentre si danza! Vi sono sempre vecchie vendette da eseguire secondo la legge della jungla, giovani affronti da lavare col sangue prima che la morte obblighi ad affidare ai discendenti l’indispensabile rivalsa per la pace dello spirito. Durante l’anno è difficile compiere il proprio dovere. Gli avversarii stanno in guardia, poi una vendetta eseguita ne trae un’altra da eseguirsi e non si finisce mai, mentre quando gli uomini hanno bevuto il sugo di palma e s’inebbriano con la danza del kris, dimenticano pericoli e precauzioni ed offrono sorridendo il petto ai pugnali che danno la morte con una sola puntura. Le donne hanno tante piccole gelosie di capanna, tanti rancori inesausti di giovinezza! E la morte per veleno di raya non avvinghia subito la sua preda, aspetta che siano finite le danze per non turbare la festa, poi, quando si dorme, ferma pian piano i bàttiti del cuore.

Le quarantacinque «bedaye» e le trentadue «roàme» tirano fuori dal «sarrong» i piccoli pugnali della foresta. La musica è lacrimosa, ma ogni tanto ha un sussulto che fa pensare ai tremiti della carne quando l’agonia agguanta a tradimento una forte giovinezza.

In casa del principe di Kaporo-Pendopo si balla il kris senza vendette, per amore dell’arte e della tradizione. La carne è sostituita dalle mussole bianche che imprigionano i seni fiorenti delle danzatrici. Gli stiletti hanno la punta smussata ed il filo ottuso. Al ritmo cadenzato della «giava» ogni ballerina cerca di stracciare il corpetto dell’avversaria per mettere a nudo il seno, come un tempo si squarciava la carne per mettere a nudo il cuore. Le punte non sono avvelenate, ma le movenze sono istintivamente feline e gli occhi ridono di gioia selvaggia quando la punta intacca la seta strettissima che si squarcia da sola con uno zirlo. Ed i seni empiono lo strappo della loro turgida floridezza. Allora la danzatrice si lascia cadere sui ginocchi e finge una lenta agonia, finché pian piano s’immobilizza come morta. Ed anche la musica s’abbassa di tono fino a spegnersi in un soffio quando la superstite straccia col pugnale il suo «sarrong» di paglia colorata ed offre agli applausi degli uomini la snellezza ambrata della sua nudità tropicale.

Si spengono tutte le luci. Solo restano accese le grandi lampade cinesi di seta dipinta che diffondono una lucentezza smorta di lacca fosforescente...

Il nostro spirito occidentale non riesce ad afferrare il significato recondito dell’allegoria, come in fondo non capisce queste danze e la loro illustrazione musicale. Se è arte, è arte d’un’altra razza umana. Non possiamo chiamarla barbara perchè è tutta impregnata di raffinatezza nell’armonia dei colori e nella grazia delle movenze. Le feste e le danze indiane anche se stranissime, sono più chiare per noi. Le medesime orgie falliche del Kama-Sutra rispondono ad un modo speciale di concepire la vita e l’amore. Questa danza del kris ci lascia invece perplessi. Non riusciamo a comprenderla. Un po’ ci annoia, un po’ ci ripugna; però dai tipi, dai suoni e dalle figure, si sprigiona un fascino perfido e sottile che non si sa che cosa sia, ma che rassomiglia a quello che emana dalla jungla incantatrice nelle notti di torpore e di profumo quando la foresta australe avvince i bianchi nella sua carezza tiepida ed avvelenata.

È forse il male dell’Equatore?

La festa principesca si prolunga nel giardino fino ai chiarori dell’alba senza un programma.

Nella penombra delle lampade cinesi di seta dipinta, le «bedaye» e le «roàme» cercano i loro amanti. La notte del kris è grande notte d’amore per l’isola equatoriale.

Dal «kampong» indigeno giungono le urla delle genti ubbriache che ballano il kris nelle strade e nelle aie. Domattina la polizia olandese raccoglierà i morti, uccisi dal sugo di palma e dalle punte avvelenate.

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