Prima iniziazione ai misteri della politica cinese

PNOM-PEN, 16 giugno.

Tra la mirabile visione d’Angkor-Vat che documenta l’antica civiltà e potenza d’una razza gialla, e lo spettacolo dei moli di Pnom-Pen che attesta l’attuale miseria di un’altra razza dell’Estremo Oriente, che fu anche essa nei secoli maestra di dominio e di civiltà raffinatissimi, ho avuto una lunga conversazione col capo della famiglia «tong» (mandarina) dei Doc-Dò, principi di Pnom-Pen.

La famiglia Doc-Dò occupa nella storia dell’Indocina un posto press’a poco uguale a quello che hanno i Doria, i Gonzaga od i Visconti nella storia italiana. All’epoca delle lotte secolari fra il Camboge e l’Annam, i Doc-Dò, come condottieri degli eserciti cambogesi o come mandarini-feudatari della provincia di Battam-bang, hanno acquistato gloria e benemerenza nazionali che ancora oggi li fanno considerare dalla popolazione indigena come una fra le più illustri casate dell’Indocina. Al tempo della conquista francese, i Doc-Dò combatterono accanitamente contro l’invasione europea: poi, quando il re del Camboge accettò il protettorato della Francia, i Doc-Dò riconobbero il fatto compiuto e si misero anzi alla testa del movimento riformista per la collaborazione con gli europei. L’attuale capo della famiglia è Dò-Huu-Chan. Suo fratello Dò-Huu-Vi morì durante la grande guerra sul fronte francese come capitano aviatore.

Questo rapido schizzo dell’uomo e della famiglia m’è parso necessario per mettere in rilievo l’importanza della conversazione. Non si tratta infatti del pensiero d’un rivoluzionario acciecato dalla passione di parte, nè d’un nazionalista xenofobo ipnotizzato dall’orgoglio di razza, nè d’un banale opportunista addomesticato dalla finezza europea. Dò-Huu-Chan è un giallo moderno, nel quale la fierezza della stirpe s’accoppia ad una conoscenza approfondita dello spirito occidentale, uno di quei gialli che paiono stare a cavaliere delle due civiltà, esemplari piuttosto rari in Cina ed in Indocina, assai più frequenti nel Giappone.

Egli mi ha ricevuto nella sua villa di Pnom-Pen, un gioiello d’architettura cambogese, circondato da un immenso giardino. Dalle verande di porcellana gialla, messe una sull’altra a scaffale, secondo il motivo tipico dell’architettura «kmèr», l’occhio spazia su un grande giardino di Cina, uno di quei paradossali giardini della Pekino imperiale che riproducono in miniatura l’aspetto della crosta terrestre, bizzarro mosaico nel quale, invece di marmi e di giade, gli artefici hanno adoperato l’acqua, la terra, le foglie, i fiori, gli alberi, i muschi e le roccie.

La pazienza e la raffinatezza della razza che creano quei ninnoli d’avorio e di legno lavorati minuziosamente fino all’impossibile dinanzi ai quali il nostro spirito occidentale resta sempre perplesso, si scapricciano con la medesima meticolosità, ma con maggiore ampiezza, in questi giardini fantastici fatti di monti microscopici, di vallette, di piccoli laghi, di deserti lillipuzziani, di corsi d’acqua che vogliono essere fiumi e torrenti, di villaggi giuocattolo, di viottoli da bambola, di giuochi di pazienza eseguiti con sassolini e terra colorata, di finte caverne, di gole, di cascatelle e tempietti, di pagode minuscole e monumentini, d’innumerevoli cose ridotte che fanno pensare a costruzioni di api ed a passatempi di formiche. Lo spirito d’osservazione dei gialli e le loro meravigliose attitudini per l’imitazione, danno una innegabile impronta d’arte a questi panorami in miniatura, in mezzo ai quali la «casa» è, pei suoi abitanti, il centro del mondo.

Nello studio sontuoso tutti i mobili e tutti gli oggetti sono preziosissime cose d’Estremo Oriente: lacche, giade, avorii, sete dipinte, ebani scolpiti, intarsii di cedro e madreperla, porcellane «song» e maioliche «sath-sùma», bronzi coreani patinati d’oro, smalti azzurrini nei quali pare sia condensato il fascino dell’aria... Ma l’apparecchio telefonico, le suonerie elettriche, i ventilatori e soprattutto una gigantesca biblioteca piena di opere occidentali, attestano come in questa casa aristocratica di mandarini il culto del passato e l’amore della tradizione non escludano il riconoscimento del progresso occidentale ed il rispetto per le formidabili conquiste intellettuali dell’Europa.

Vorrei soffermarmi a descrivere la bellezza dell’ambiente, l’eleganza delle quattro colonne di cedro scolpito che sostengono il soffitto «kmèr», l’intarsio magnifico delle pareti sulle quali una muta di dragoni giuoca a palla con una luna sorniona d’argento... ma l’argomento mi obbliga a rinunciare a ciò. Lascio la parola al vecchio signore giallo.

— Gli avvenimenti di Canton e di Scianghai — dice press’a poco il mandarino in un francese scorrevole ed elegante — non debbono essere esagerati e neppure presi alla leggera. Sono l’esplosione locale d’uno stato d’animo che è largamente diffuso in tutto l’Estremo Oriente. Per giudicare con esattezza gli avvenimenti del litorale cinese bisogna inquadrarli, bisogna cioè tener presente che tutto il continente asiatico è attualmente una caldaia in ebollizione, tutto, dal Mediterraneo al Pacifico! L’effervescenza dell’Asia mussulmana, i fremiti dell’India, i fermenti del Tibet, l’anarchia della Mongolia, i lieviti dell’Indocina, i torbidi della Cina, le difficoltà sociali del Giappone, sono tante manifestazioni diverse di uno stesso fenomeno: elementi di disordine, disparatissimi e pel momento quasi autonomi, che agiscono però simultaneamente obbedendo a forze dinamiche identiche. Il risultato unico è l’ebollizione del calderone asiatico. Sarebbe per esempio assai audace dire che esiste un’intesa fra gli scioperanti di Scianghai e... Kemal Pascià: potrebbe però essere altrettanto audace negare l’esistenza di un misterioso rapporto fra l’anti-europeismo della Turchia Kemalistica e lo xenofobismo degli studenti cinesi di Canton! Voi occidentali amate la sintesi e vi compiacete delle formule che condensano in poche parole tutta una situazione. Ebbene fra le tante formule in circolazione quella che meglio d’ogni altra riproduce le attuali condizioni psicologiche dell’Oriente e dell’Estremo Oriente, è: l’Asia agli asiatici. Cherchez la femme! In tutte le convulsioni asiatiche cherchez l’Asie, madre comune dalle molte faccie. Nei torbidi di Canton, un afgano che non sa nemmeno Canton dove sia, darà in cuor suo ragione ai cinesi: nei torbidi di Cabul, un cinese che non sa neppure che cosa sia l’Afganistan, si sentirà solidale con gli afgani. Contro l’Europa, contro l’Occidente, tutti contro, quindi un po’ fratelli. La gravità dei tumulti xenofobi di Scianghai sta nella loro ripercussione in tutta la Cina ed in tutta l’Asia. È come l’attacco d’una quota sulla fronte di battaglia. Dal Mediterraneo al Pacifico le genti dell’Asia formano una unica catena di nazionalismi in processo avanzato di sviluppo. E per necessità di cose, sovente contro la volontà stessa dei dirigenti, queste passioni nazionali finiscono più o meno per risolversi dovunque in un sentimento xenofobo, perchè... dovunque l’ostacolo alle aspirazioni nazionali è rappresentato da una dominazione o da una pressione europea. Gli attuali avvenimenti della Cina meridionale assumono agli occhi degli asiatici l’importanza d’un simbolo, in quanto il mondo giallo vede tutte le potenze occidentali coalizzate contro la Cina.

— Ed il Giappone?

— La presenza del Giappone non riesce ad attenuare la brutalità del quadro. Per alcuni di noi – una minoranza – le navi del Mikado si trovano nelle acque cinesi accanto alle forze navali dell’occidente perchè il governo di Tokio subisce il contagio dell’imperialismo europeo; per gli altri invece – e sono la maggioranza – il Giappone sta lì per frenare gli occidentali ed impedire che approfittino della situazione ai danni della Cina; per altri ancora, e forse io sono fra questi, il governo di Tokio la sa più lunga di quello che i comunicati nipponici lasciano trasparire.

— Sarebbe a dire?

— Non mettiamo i punti sugli i. Perchè... il Piemonte di Cavour partecipò alla guerra di Crimea? Per aver voce in capitolo nella comunità europea d’allora e favorire il risorgimento dell’Italia! Anche il Giappone intende essere presente in tutte le questioni grandi e piccine che hanno attinenza col risorgimento dell’Asia. È questa del resto la sola ragione che ha indotto l’Impero a partecipare alla conflagrazione europea contro la Germania. Il risultato della guerra era secondario pel Giappone. L’importante era d’essere in mezzo alla mischia per favorire i propri interessi nel limite consentito dalle circostanze. Il Giappone ha agli occhi degli asiatici una grande benemerenza, quella di aver vinto la Russia e d’aver così dimostrato agli asiatici che se vogliono essi possono vincere l’Occidente anche nel terreno nel quale è più forte: la violenza armata. L’Inghilterra che ha permesso al Giappone di distruggere a Vladivostok e a Porto Arthur il mito dell’invincibilità occidentale, ha offerto agli asiatici durante la grande guerra il mezzo di fare a buon mercato una seconda esperienza. Il terzo esperimento potrebbe essere a sue spese. Ma veniamo al fatto specifico dei torbidi di Canton e di Scianghai.

— Chi li ha provocati?

— Secondo la versione cinese si tratterebbe d’un movimento popolare spontaneo, provocato dai bassi salari della mano d’opera indigena nelle officine di proprietà europea. Sarebbe facile dimostrare che i salari degli operai al servizio dei cinesi sono ancora più miserabili. Basta però il semplice fatto della solidarietà degli studenti e dei negozianti per svalutare la versione ufficiale di Pekino. In nessun paese gli studenti scioperano per spirito di fratellanza cogli operai, tanto meno in una società come la gialla nella quale le due categorie non costituiscono solamente due classi distinte, ma due vere e proprie caste. Gli studenti o meglio coloro che hanno in mano i gruppi studenteschi della Cina meridionale – si tratta del «clan» del defunto Sun-Yat-Sen – hanno pensato che il malcontento d’una categoria operaia offriva una eccellente occasione non politica per mettere in moto l’organizzazione anti-europea delle provincie del Sud e fare una prova di forza. Ciò è evidente. Siamo di fronte ad una manovra di tattica rivoluzionaria per sondare le resistenze locali e generali della situazione. I negozianti hanno obbedito agli ordini indiscutibili dei capi delle congregazioni.

— Chi è dietro le quinte? Chi impartisce gli ordini?

— Chi ordina è Canton. Chi è dietro le quinte è più difficile a dirsi. Pechino? Tokio? Mosca? I capi della Cina del Sud? Credo di poter escludere Pekino. L’autorità del governo centrale è quasi nulla nelle provincie del Mezzogiorno. Il governo di Pekino deve essere anzi seccatissimo di queste complicazioni a carattere internazionale che lo obbligano ad agire secondo le pressioni dei «clan» brancolando nelle tenebre; fra la paura da una parte d’accrescere la sua impopolarità nella Cina meridionale astenendosi dal prenderne le difese contro la pressione europea; il timore dall’altra di lavorare pel re di Prussia, di fare cioè il giuoco di qualche «clan» provinciale che persegue un recondito fine di politica interna. Fra il governo di Pekino ed i «clubs» politici della Cina meridionale i secondi hanno in questo momento maggior interesse del primo a pescare nel torbido. La direzione del movimento va quindi ricercata secondo me a Canton o nel Kiàng, in quegli ambienti politici che sostengono la necessità di scindere la Cina in due parti per affrettarne il risorgimento. La Cina meridionale più ricca, più popolosa, più progredita, più eccitabile, offre alla propaganda rivoluzionaria un terreno infinitamente più fertile della Cina settentrionale. Inoltre i numerosi emigranti che tornano in paese dopo aver fatto fortuna in America, in Australia, in Indocina, a Giava, nelle Indie, nel Sud Africa, sono quasi tutti meridionali. Essi portano in patria i germi d’un nazionalismo inasprito dalle persecuzioni delle quali sono stati oggetto in genere all’estero ed uno spirito rivoluzionario agguerrito da una più profonda conoscenza dell’Occidente e delle sue debolezze. La Cina settentrionale, più arretrata, più tradizionalista, lenta a muoversi, difficile ad organizzare per le stesse condizioni di vita delle sue popolazioni, è considerata dagli organizzatori del Sud un peso morto che conviene pel momento abbandonare. Sarà così più facile alla Cina del Sud di diventare uno Stato occidentalizzato sul tipo del Giappone e di completare in seguito con le armi l’unificazione della Cina, lasciandone fuori il Tibet e la Bassa Mongolia che etnicamente non fanno parte del conglomerato nazionale cinese. Questo è il programma di Canton. La differenza che v’è fra il linguaggio piuttosto deferente di Pekino verso le Potenze e quello insolente di Canton, documenta la diversità delle due mentalità. Ma Canton ha agito nel caso specifico di sua iniziativa per motivi di politica interna o v’è una longa manus straniera? E questa influenza straniera è russa o per caso giapponese?

— Giapponese?

— Escludiamo il Governo di Tokio. Accettiamo il postulato che quel governo agisce in perfetta lealtà. Esistono però nel Giappone importanti gruppi politici i quali non approvano affatto le direttive del Mikado e dell’attuale gabinetto nella questione cinese. Questi gruppi politici giapponesi che hanno il loro «clan» anche a Corte, sono anch’essi notoriamente favorevoli alla scissione della Cina in due parti, in quanto sperano trarne considerevoli vantaggi pel Giappone mediante una intesa con Mosca sulla Cina settentrionale: vantaggi d’ordine economico e territoriale, soprattutto vantaggi d’ordine interno per diminuire la pressione demografica che fa scricchiolare l’impalcatura democratico-feudale dell’Impero e minaccia di sboccare da un momento all’altro in un socialismo anti-dinastico ed anti-nazionalista. Questi gruppi sono ricchi ed influenti. Fra il «clan» rivoluzionario cinese del Kiàng ed il «clan» imperialista giapponese di Yeddu i rapporti sono stretti. Non bisogna lasciarsi impressionare da certi aspetti anti-nipponici dei torbidi di Scianghai. Sono in proposito estremamente scettico. Il governo di Tokio ha interesse ad accreditare questa diceria per giustificare dinanzi al paese la sua politica: i rivoluzionari del Kiàng vi trovano il loro bravo tornaconto per smentire Pekino che li accusa d’una intesa col Giappone: infine i governi europei e per essi l’Inghilterra, che dirige l’orchestra del Pacifico, trovano opportuno un diversivo anti-nipponico. Esso lega il Giappone all’azione repressiva delle Potenze, disarma in patria le opposizioni parlamentari socialiste, attenua il carattere nettamente anti-britannico dei tumulti, maschera gli scopi prettamente economici dell’intervento europeo.

— Non credete di esagerare l’influenza di questi gruppi politici giapponesi?

Pnom-Pen – Palazzo reale. Il padiglione privato del re.
Pnom-Pen – Ristorante ambulante.
Pnom-Pen – Un funerale. Le donne sotto il velo di lutto.
Pnom-Pen – Danzatrici reali.

— No. Li ho studiati bene, perchè si tratta del medesimo «clan» nazionalista che propugna la conquista dell’Indocina.

— Già, me ne parlava a Saigon il direttore della San-Son-An.

— Il Giappone aspira al possesso delle immense risaie della Cocincina per assicurare il nutrimento della sua popolazione in continuo aumento: aspira ai fosfati del Camboge per i bisogni della sua agricoltura, fosfati che ora il Giappone è obbligato ad andare a cercare nel Cile, fino in Tunisia ed in Egitto (come italiano dovete sapere qualche cosa d’una grossa vertenza fra il gruppo Mashada di Tokio ed il vostro Banco di Roma per i fosfati del Mar Rosso): desidera inoltre i ricchi giacimenti carboniferi del Tonkino per i rifornimenti della sua marina mercantile e militare, nonché la baia incomparabile d’Along per farne la prima base navale dell’Estremo Oriente e neutralizzare Hong-kong e Singapore. I gabinetti di Tokio hanno sempre recisamente smentito queste aspirazioni e lo stesso principe Yagamatha s’è pronunziato recentemente in tal senso. In realtà la propaganda contro la occupazione francese che turba la tranquillità dell’Indocina e che ha culminato nell’attentato di Canton contro il governatore generale Merlin ha i suoi centri direttivi nel Giappone. Lo stesso leader rivoluzionario, il nostro Gandhi, l’annamita Cuong-Dé, risiede tranquillamente a Nagasaki e dispone misteriosamente di milioni. Chi gleli dà? Non faccio apprezzamenti. Mi limito a constatazioni.

— In ogni modo l’Indocina si difenderebbe!

— Con che?

— Ma la Francia!...

— Il Giappone saprebbe scegliere il suo momento. La Francia ha troppi avversari sulle sue frontiere d’Europa per potersi impegnare a fondo in Estremo Oriente. La lotta non potrebbe essere che navale e l’inferiorità francese è manifesta. L’Indo-Cina è in realtà a disposizione di chi la vuole, come diceva anni fa il generale Borgné-Desborde. La forza navale francese d’Estremo Oriente è costituita da poche unità antiquate che debbono difendere uno sviluppo costiero di 3700 chilometri. L’eroismo degli equipaggi si sacrificherebbe in una inutile resistenza. Ma non accadrà nulla di grave fino alla grande scadenza del Pacifico. L’Inghilterra non permetterebbe al Giappone di stabilirsi in Indo-Cina.

— Che cosa intendete per scadenza del Pacifico?

— L’inevitabile conflagrazione mondiale pel controllo dei mercati della Cina. La Francia sarà certo a fianco della Gran Bretagna. Il Giappone sarà dall’altra parte. Se la flotta giapponese sarà sconfitta, l’Indo-Cina resterà ancora un certo tempo sotto il controllo francese: in caso contrario le sorti dell’Indo-Cina e dell’Australia sono segnate nel gran libro «samurai»!

— Ed in tutto questo qual’è la funzione della Russia?

— Col Giappone contro l’Inghilterra e l’America. Già ora Mosca e Washington si combattono accanitamente a Pekino.

— E negli attuali avvenimenti di Canton?

— La propaganda sobillatrice degli agenti russi nella Cina meridionale è nota a tutti. I sentimenti xenofobi del proconsole moscovita a Pekino – l’onnipotente Karakan – non hanno bisogno d’essere messi in luce. Essi sono sufficientemente illustrati dal telegramma di felicitazione che egli spedì a Sun-Yat-Sen all’indomani dell’attentato annamita di Canton. Karakan è uno xenofobo arrabbiato. In questo momento egli è certo il massimo cervello della Russia bolscevica. Forse Karakan sarà il Bonaparte della rivoluzione russa, ma un Bonaparte asiatico che si disinteresserà dell’Europa e della stessa Russia europea. Karakan è una potenza a Mosca perchè ha in mano la scacchiera asiatica. Le circostanze che hanno obbligato i Soviet a modificare la loro politica economica europea – in Asia non ne hanno mai avuta – li hanno egualmente obbligati a rivedere da cima a fondo la loro politica estera. La situazione del continente europeo esclude ormai per la Russia qualsiasi possibilità d’avventura in grande stile da quella parte. I piani ambiziosi accarezzati in un primo tempo da Trotski hanno dovuto essere definitivamente abbandonati in seguito al fallimento delle rivoluzioni comuniste nei vari paesi d’Europa, rivoluzioni le quali, nel piano strategico di Trotski, avrebbero avuto il compito d’aprire la strada agli eserciti rossi attraverso la Germania, l’Ungheria, l’Austria e l’Italia per colpire a morte la Francia e minacciare l’Inghilterra nei suoi gangli imperiali, obbligandola a scendere a patti. Se le rivoluzioni comuniste fossero riuscite si sarebbe avuto un’Europa anarchica e disarmata sotto il controllo di Mosca, la quale pel semplice fatto d’avere l’alta direzione del movimento rivoluzionario e di possedere essa sola un esercito armato sarebbe stata la padrona effettiva del continente europeo. Allora l’Inghilterra rimasta sola sarebbe stata colpita nelle comunicazioni imperiali ed attaccata a fondo in Asia. Ma le rivoluzioni comuniste sono fallite dappertutto, perchè le condizioni sociali non erano negli altri paesi identiche a quelle della Russia zarista e menscevica. Il colpo decisivo lo ha dato l’Italia. Il vostro Mussolini ha impedito che si formasse in Europa il mito della rivoluzione bolscevica e che determinasse come tutti i miti un periodo di panico nel quale sarebbero state sommerse tutte le resistenze. Egli ha indovinato la diagnosi psicologica dell’Europa ed ha adottato il rimedio specifico, l’unico possibile, quello cioè di dimostrare agli europei con un esempio pratico che la più grande forza della rivoluzione bolscevica era la pusillanimità dei suoi avversari. Sotto questo aspetto il vostro Mussolini ha veramente salvato l’Occidente. È un benemerito dell’Europa. Non posso dire che abbia le medesime benemerenze di fronte all’Asia, perchè il crollo europeo avrebbe indubbiamente risparmiato mezzo secolo di sforzi e di sofferenze alle razze asiatiche che aspettano l’indipendenza. Come vedete sono sincero.

— Vi comprendo perfettamente.

— Ritornando alla Russia ho l’impressione che noi avremo ben presto due Russie ben distinte con un governo centrale unico a Mosca.

— Due Russie?

— Sì: una Russia europea, che per forza di cose andrà sempre più accostandosi ai regimi del resto dell’Europa sotto forma di una Repubblica federativa di piccoli proprietari agrari, solida, bene armata e pacifica; una Russia asiatica invece, apparentemente federativa, governata in realtà dai proconsoli di Mosca, avventurosa, rivoluzionaria, tumultuante, con ingerenze più o meno palesi in tutti i movimenti nazionalisti e xenofobi del continente asiatico. La prima Russia formerà da Stato-cuscinetto alla seconda, da paravento diplomatico, da bailleur de fonds, da fornitore d’armi e di uomini, da impresario generale e da alibi permanente. È la trovata di Karakan! Un coup de maitre. Se alla fine le cose andranno bene per la Russia d’Asia, quella d’Europa scenderà apertamente in lizza contro l’Inghilterra e contro tutti gli Stati che hanno possedimenti coloniali in Asia, magari aiutata dalle alleanze europee che avrà potuto accaparrarsi e che non mancheranno. Se invece le cose finissero male per Karakan, la Russia europea avrebbe sempre modo di salvare le apparenze sacrificando un paio di proconsoli asiatici e facendoli magari apparire come ribelli.

— Il giuoco è abile ma potrebbe essere arrischiato...

— Meno assai di quanto crediate. La Russia asiatica è inattaccabile. Essa procederà in ogni modo d’accordo col Giappone al quale è esposto il suo tallone d’Achille. Quanto alla Russia europea essa sa d’essere protetta contro una coalizione armata dalla solidarietà negativa, ma anch’essa efficace, di tutti i partiti socialisti, i quali per necessità di dottrina e per ragion di vita sono obbligati in ogni paese ad usare un minimo indispensabile di riguardo verso la repubblica ufficiale del Proletariato. Karakan ed i suoi collaboratori agiscono in questo senso in India, in Indo-Cina e nello stesso Giappone, mentre in Europa Cicerin predica la pace e la concordia universale. Karakan oltre a possedere un ingegno di primissimo ordine, ha un’anima asiatica la quale gli permette di veder chiaro nella psicologia dei gialli, là dove il migliore dei vostri uomini politici è d’una miopia che rasenta la cecità. La influenza di Karakan nella Cina meridionale aumenta di giorno in giorno, specialmente nelle provincie di Kuang-Si, di Kuang-Tong e di Fu-Kieu. Egli non agisce direttamente sulle masse come si crede in Europa, ma su migliaia di capi e di sottocapi dei quali conosce le ambizioni ed i bisogni. La propaganda bolscevica è un fantasma per ingannare l’Europa e l’America, per forzare la mano a certi ambienti giapponesi e per trovare proseliti nei centri industriali del litorale. In realtà il bolscevismo non è applicabile in Cina dove il concetto di proprietà fa parte dello spirito della razza. Quel po’ di buono che v’è nel bolscevismo è praticamente uno stato di fatto nelle campagne cinesi già da mille anni. Karakan ed i suoi amici cinesi – ambiziosi politici ed intraprendenti finanzieri – mirano esclusivamente a sbarazzare gli europei dal Pacifico.

— E Pekino lascia fare?

— Che cosa conta la povera Pekino?

— È sempre la capitale.

— La Cina non ha più capitale e non ha più governo. Dopo la prima suddivisione nelle due Repubbliche del Nord e del Sud, l’impero è diventato un mosaico di repubblichette che vanno continuamente frazionandosi e spezzettandosi. Abbiamo prima avuto le repubbliche dei «gruppi di provincie», poi le provincie isolate si sono costituite in repubbliche locali, ora l’epidemia si sta propagando alle prefetture ed alle sottoprefetture. Ogni mandarino ambizioso forma un «clan» politico e lo incapsula in una repubblichetta. Ha bisogno di denaro e lo cerca. Se ne trova a Londra, a Pekino, a Tokio, a Canton, a Mosca. Ognuno prende dove può. È un caso. Venti generali comandano, pochi soldati obbediscono. Molte battaglie sono un bluff. La Cina non riuscirà mai a ristabilire da sola l’ordine meraviglioso che tenne unito l’immenso paese durante tanti secoli fino alla morte dell’imperatore Tsu-Hi, perchè è crollata l’antica impalcatura dell’Impero che era il capolavoro d’un millennio di saggezza. I torbidi attuali saranno sedati, altri ne scoppieranno fatalmente fra breve perchè innumerevoli sono le persone che hanno bisogno d’incidenti e di tumulti per i loro scopi politici ed i loro interessi personali. Quando l’imbroglio assumerà proporzioni così vaste e drammatiche da rendere inevitabile una sistemazione, le Potenze, nonostante la loro prudenza, saranno obbligate, dico obbligate, ad intervenire su larga scala. L’intervento occidentale, deliberato magari dopo due o tre Conferenze con la buona intenzione di liquidare amichevolmente il pasticcio cinese fra tutti i concorrenti, provocherà invece fatalmente il contrasto di competizioni politiche formidabili e d’interessi economici irriducibili. Sarà la conflagrazione del Pacifico. La scadenza è già segnata dal Destino sul libro della storia. Vedremo Cina, Russia e Giappone da una parte con la cooperazione più o meno fattiva di tutti i nazionalisti asiatici: Stati Uniti, Inghilterra, Francia e quasi certamente Italia dall’altra. Dopo di che coloro i quali scriveranno la storia della conflagrazione mondiale pel controllo del Pacifico e per la spartizione delle immense risorse cinesi, daranno ai torbidi di queste settimane, agli incidenti di Canton e di Scianghai che sono l’episodio del giorno, il significato che veramente essi hanno, di prodromi, cioè, del grande sconquasso asiatico.

— Le vostre previsioni sono nere.

— Il mio giudizio è quello di quasi tutti gli uomini pensosi e disinteressati della nostra razza.

— Perchè credete che l’Italia sia travolta nella contesa del Pacifico?

— Perchè solo il Pacifico può assicurarle direttamente od indirettamente i territori coloniali e le materie prime di cui il vostro paese ha bisogno pel continuo aumento della sua popolazione e per la realizzazione di quel programma imperialista che fa rivivere nei cuori italiani la potenza di Roma. I popoli che hanno nel sangue l’eredità del comando possono dormire cento o mille anni: quando si svegliano si rimettono in marcia verso le mete degli antenati. Noi gialli siamo osservatori. Fra le tante coincidenze abbiamo per esempio notato che l’Italia, la quale è stata sempre rappresentata nelle acque cinesi da un paio di modesti stazionari, ha attualmente nei mari d’Estremo Oriente tutta una squadra. Essa è giunta sul posto precisamente poco tempo prima che incominciasse l’agitazione della Cina meridionale. Semplice caso, direte. Può essere. Io preferisco vedervi un calcolo politico ed un eccellente servizio d’informazioni.

— Ed in tutto questo qual’è secondo voi la funzione dell’Indocina?

— L’Indocina è l’appendice naturale della Cina e del Giappone. Ne seguirà le sorti. In caso d’una vittoria giapponese avremo certamente un periodo di dominazione nipponica, nel caso contrario resteremo ancora qualche tempo sotto il controllo della Francia. Nei due casi però la soluzione finale sarà sempre l’indipendenza, probabilmente sotto forma d’una Federazione della Cocincina, del Camboge, dell’Annam, del Laos e forse dell’Yunam sotto la direzione del Tonkino.

— Perchè del Tonkino?

— Il Tonkino è progressista e nazionalista, l’Annam conservatore, la Cocincina liberale, il Camboge commerciale. Sarà certo il Tonkino il nostro Piemonte.

— Personalmente voi siete però in eccellenti rapporti con la Potenza occupante.

— Mio fratello è morto per la Francia ed io ho combattuto come colonnello sul fronte della Somme. La mia famiglia ha accettato lealmente il fatto compiuto. Meglio i francesi che gli inglesi! L’occupazione francese è stata sotto molti aspetti un bene per l’Indocina, in quanto ha messo tregua alle lotte intestine fra il Camboge, l’Annam, il Tonkino, il Laos e la Cocincina, nelle quali si esaurivano sterilmente le migliori energie della razza. La pace interna e l’amministrazione francese hanno permesso lo sviluppo agricolo-economico del paese ed hanno gettato le basi della futura industria nazionale. Inoltre i francesi hanno introdotto in Indocina le conquiste tecniche e meccaniche dell’Occidente delle quali i gialli non possono fare a meno perchè rappresentano tante vittorie dell’ingegno umano sulle resistenze della Natura. Se il risultato della futura conflagrazione sarà favorevole per la Francia noi resteremo ancora un certo spazio di tempo sotto il controllo francese. Poi le forze autonome prenderanno fatalmente il sopravvento per le capacità intrinseche del nostro popolo e per la deficienza d’uomini della Francia. Il controllo francese diventerà sempre più blando: attraverseremo forse l’intermezzo d’unself government e d’una alleanza franco-annamita, infine l’Indocina sarà un blocco a se con funzione equilibratrice fra l’Asia indiana e l’Asia gialla.

— V’è già in Indocina una forte corrente contraria al controllo francese?

— Ve ne sono due: una di carattere nazionalista che ha per organo la Tribune Indigène di Saigon ed una a tendenza bolscevico-socialista che è più sviluppata nell’Annam. La prima ha i suoi centri direttivi nel Giappone, la seconda in Cina a Canton. In fondo, nazionalismo e bolscevismo si unificano nella coscienza indigena in una aspirazione ancora vaga alla indipendenza. Del resto, in tutto l’Estremo Oriente, bolscevismo e nazionalismo sono sinonimi. Karakan non è altro che un apostolo dei nazionalismi asiatici.

— Secondo voi che cosa dovrebbero fare le Potenze per evitare la catastrofe che sentite approssimarsi?

— Ormai le cause determinanti della tragedia hanno già plasmato la situazione. Nello stato di fatto v’è già la ragione storica del conflitto. Le Potenze sono nel vortice del Destino. La saggezza di Confucio insegna che in caso d’alluvione si salvano coloro che riparano su un picco ed... aspettano!

— Ed in questo caso il picco sarebbe?

— Vi risponderò con Confucio: quelli che sanno non dicono, quelli che dicono non sanno!

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