Tra i vulcani

GAROET, 28 gennaio.

Il diretto di Batavia lascia Tathalunga, mentre imperversa un furibondo acquazzone. Quando il convoglio esce dalla stazione, slanciandosi attraverso la campagna, sembra che la locomotiva apra, con la sua violenza, un fantastico traforo in un mondo fatto d’acqua, tanto fitta è la pioggia! È un diluvio, ma ormai siamo abituati ai temporali dell’Insulinda. Sappiamo che fra venti minuti il grande re dell’Equatore riaffermerà il suo fiammeggiante dominio sull’isola ardente.

La linea è tutta in salita. Verso Nagrek, in un percorso d’appena otto chilometri, la strada ferrata sale ben centosettanta metri. Quando fu costruita l’audace ferrovia Batavia-Garoet, questo tratto, giudicato quasi irrealizzabile per la difficoltà delle opere d’arte e l’ardimento dei cavalcavia, fu dato in appalto ad un intraprenditore astigiano, certo Gatti, il quale, con un piccolo gruppo d’italiani e la mano d’opera obbligatoria indigena, fornita dal governo della colonia, condusse a termine la difficilissima impresa.

Il Gatti fu naturalmente pagato ed ormai il suo nome è sepolto nel dimenticatoio. I viaggiatori che con un piccolo bàttito di cuore seguono, in mezzo alla collera degli elementi la corsa del diretto sugli abissi, ed ogni tanto si voltano indietro a rimirare i nastri di cemento buttati a cavaliere delle voragini, sui quali è passato il giocattolo furente, sono pieni di ammirazione per l’ingegneria... olandese! Anch’io avrei ignorato l’oscuro geometra d’Asti, che chissà dove dorme a quest’ora l’ultimo sonno, se un elettrotecnico italiano – un pugliese – che ci accompagna fino a Garoet, non avesse fieramente rivendicato, con l’accento di Barletta, la nazionalità del modesto artefice piemontese, dinanzi alla bocca aperta di due misses britanniche e d’un professore universitario tedesco.

In mezzo allo scenario ciclopico delle roccie e delle gole giavanesi, fra le pareti a picco ed i salti a strapiombo, la mia fantasia evoca l’uomo semplice e forte di nostra terra, che con occhio sicuro, saggiò i macigni e gli abissi prima d’osare, poi misurò con l’anima grande l’audacia dell’impresa, ardì, fece, riuscì. Chissà com’era il conquistatore dei valichi di Nagrek? Io lo immagino simile ai tanti altri suoi fratelli che ho incontrato nel mondo, sulle trincee dell’umana fatica, col feltro a sghembo ed il toscano fra i denti, un po’ schizzettati di calce, rozzi quanto capaci, energici quanto buoni, maestri dell’arte muraria, che ovunque lasciano le impronte romane del loro lavoro potente.

Partono di solito dal paese manovali o garzoni d’impalcatura, e quando non s’imbarcano a Napoli od a Genova per le Americhe, varcano la frontiera a Modane od a Ventimiglia, coi calzoni di fustagno, le scarpe grosse, la valigia piccina, il cuore un po’ dolente, la giovinezza piena di speranze. Oh, quelle stazioni terribili di confine, attraverso le quali ogni giorno trabocca, come sotto gli archi d’un ponte, la piena del grande fiume italico che va a fecondare delle sue linfe generose le terre ed i beni degli altri! Qual poeta canterà un giorno la formidabile tragedia umana e nazionale di quegli androni doganali di frontiera, dove, sotto gli occhi di pochi soldati e funzionari, fatti insensibili dall’abitudine, ogni giorno che passa si rinnova uno spettacolo di grandezza e di miseria, al quale dovrebbero assistere sovente tutti coloro che in Italia s’occupano di politica e di questioni sociali? I ministri ed i demagoghi si servono invece in genere dei treni di lusso, pei quali la visita doganale è fatta in vagone.

C’è voluta l’Italia fascista, nata nelle trincee e negli ospedali dalla tragica mescolanza, per concepire e realizzare quell’Istituto di Credito del lavoro italiano all’estero che è una delle più utili e geniali iniziative di questo fecondo periodo di storia nazionale. Solo un Presidente del Consiglio che avesse battuto da emigrante le strade della nostra emigrazione, coll’inconsapevole bagaglio del suo grande destino, vivendo le lotte, le difficoltà e le speranze dei nostri fratelli, poteva sentire la necessità improrogabile d’un Ente finanziario che appoggiasse le legioni della Proletaria nelle battaglie mondiali del lavoro. E se la nuova Banca sarà amministrata con lo stesso spirito con cui è stata ideata, quanti italiani che oggi nel mondo sono sfruttati dal capitale straniero, benediranno il grande Capo che in mezzo alle quotidiane lotte della politica ed al faticoso discernimento dell’avvenire, ha pensato con affetto d’italiano e con chiaroveggenza di statista ai fratelli d’oltre monte e d’oltre mare, ai quali spesso solo il denaro fa difetto, per mettere in valore le loro splendide virtù di lavoratori e di tecnici!

Mentre il diretto di Batavia rugge nelle trincee granitiche del dimenticato astigiano a me sorride l’idea che in un giorno non lontano questa grande Banca del lavoro italiano, alimentata dall’operosità degli emigranti e dalla fiducia del risparmio nazionale, possa essere presente ovunque italiani combattono la dura battaglia della vita. Allora tante opere d’ingegno e di coraggio che oggi hanno il sigillo straniero sol perchè stranieri sono gli azionisti che forniscono il vile denaro, saranno riconosciute affermazioni del nostro genio e del nostro lavoro anche dalle statistiche internazionali, per le quali conta solo il passaporto dei bailleurs de fonds. Ed i giusti guadagni del sacrifizio e dell’abilità andranno veramente alle menti che hanno concepito ed alle braccia che hanno eseguito le quali oggi debbono disgraziatamente contentarsi spesso delle sole briciole.

Indipendentemente dalle considerazioni politiche ed economiche che hanno ispirato Benito Mussolini, v’è una grande bellezza di poesia italiana ed umana in questo Ente che si propone di seguire coi suoi milioni le rotte della miseria e della speranza.

Quando il convoglio sbocca dall’ultimo tunnel del Nagrek e con un lungo fischio si butta giù per la discesa verso la vallata del Leles, lo scenario equatoriale è d’una indescrivibile magnificenza. Il sole ha squarciato le nubi e mitraglia la valle. I venti sfilacciano impetuosamente le nubi trasformando il cielo in una vertigine di mostri e di draghi fuggenti. La pianura di Leles è un immenso scacchiere nel quale i quadratini verdi dei boschi, i trapezi marroni dei campi arati, i rettangoli argentati delle risaie s’aggraziano di villaggetti e di borghi. Intorno all’orizzonte le montano di guardia i giganti del fuoco; il Gontor, la «Montagna del tuono», l’Haroman, e più indietro dozzine di vulcani, alti comignoli fumanti, tutta una fila di pennacchi bigi allineati nello spazio ognuno dei quali è il respiro d’una officina del globo.

In mezzo all’anfiteatro Garoet sorride con le sue case bianche.

Lo stelo fragilissimo della moschea giavanese sembra un braccio teso ad implorare pietà dai mostri minacciosi.

Diversi ordini concentrici di montagne chiudono la vallata di Leles. E sono tutti vulcani, attivi o spenti. Il più modesto ha duemila metri d’altezza.

Incolte in genere le falde, con bastioni di macigni e scarpate di roccia scarna, qua e là un mantellaccio mefistofelico di lava raffreddata. Ad una data altezza alla quale d’abitudine in Europa la vegetazione diventa rara, strane foreste equatoriali formano grandi collari verdi intorno ai cocuzzoli dei monti. Ed emergono i coni vulcanici, nudi, segaligni, sinistri. Solo la «Montagna del tuono» è tutta spoglia dalle basi alla cima, grigia, lucente, senz’alberi e senz’erba, mausoleo di desolazione e di morte librato nell’aria sul sorriso della valle. Gli uomini si sono vendicati conquistando all’agricoltura fino al cratere un altro vulcano, il Papangian, l’hanno vestito d’arlecchino con rombi e quadrati d’ogni colore, l’hanno festonato di stradini bianchi e v’hanno agganciato i villaggi, come bottoni, fin sotto il cono che fumacchia pigramente, quasi fosse la cucina economica di tutte le genti e le case della montagna.

Agli uomini piace scherzare con le collere della terra!

Giava è terra vulcanica per eccellenza. Più di un centinaio sono i crateri attivi, semi attivi o spenti che si susseguono da est ad ovest parallelamente alla linea dell’Equatore con ramificazioni secondarie che muoiono a mare. Fra tutti il più tristamente celebre è il Krakatan nello stretto della Sonda che il 27 agosto 1883, dopo duecento anni di letargo, sterminò settantamila persone. Lo stesso Papangian, che sembra tutto un giardino, ha sulla coscienza quaranta villaggi. L’Ufficio Scientifico di Batavia segnala cinquantasette vulcani in attività dei quali dieci superano i tremila metri. Il Semiroe è alto tremila settecento. Tutta la spina dorsale di Giava è formata da una specie di lisca di coni fumanti sui quali giganteggiano il Salak, il Ghede, il Sombing, lo Slama, il Merbaboc, il Lavoe, l’Jang, il Tenger il Lamongan.

Solo l’Islanda può sostenere il confronto di Giava come quantità di vulcani in proporzione della superficie territoriale. La mente non può fare a meno di riunire queste due ciclopiche fucine della terra così lontane e così diverse, quella così arida e scalza, chiusa per molti mesi dell’anno in un rigore di gelo, questa agghindata dalla vegetazione spettacolosa dell’Equatore che durante gli ultimi trecento anni solo due volte ha avuto sulle più alte cime un’effimera incipriata di neve.

Garoet è il centro del sistema vulcanico giavanese. Intorno alla feracissima vallata di Leles s’ammassano ad anfiteatro, i coni ed i crateri. Le fumate perenni che decorano l’emiciclo danno al grandioso blocco delle montagne una paurosa maestà. Ed i cocuzzoli senza pennacchio sono più tetri degli altri in quanto non si sa che cosa i secoli addensino nel cavo delle loro polveriere.

La natura del luogo costringe lo spirito a pensare alle viscere ardenti della terra e lo orienta verso i misteri della creazione. Si diventa filosofi a Garoet. Si ha veramente la sensazione che la vita è nulla. Basta il rantolo d’uno di questi mostri per distruggere milioni di esistenze. Ciò non ci impedisce di far gaiamente colazione nel vagone ristorante e di fare osservazione al cameriere perchè il manzo è troppo pepato. Il «cittadino che protesta» è più forte dell’homo sapiens!

La cintura ciclopica dei vulcani chiude d’ogni lato l’orizzonte. Il vento piega tutti d’un verso i sinistri pennacchi. Dal cratere dentato del Gontor il fumo s’innalza su tre colonne, nero, spesso, oleoso e quando il vento subito non lo sfiocca s’allarga a formare un baldacchino infernale, come le ali spiegate d’un gigantesco pipistrello che stia sospeso nel vuoto a contemplare la bolgia.

L’occhio va dai coni fumanti allineati in altezza all’orgiastica esuberanza della valle. Dove la zappa giavanese non ha tappezzato il suolo di scacchi variopinti, intere foreste di china-china dai tronchi grigio perla agitano il loro immenso fogliame verde striato di ruggine, macchie di caffè selvaggio s’alternano a forre di lek od a selve semivergini d’alberi equatoriali.

I vilaggi giavanesi con le loro casupole di paglia ed i serbatoi del riso costruiti su palafitte fanno pensare ad una umanità di passaggio, ad un grande bivacco di gente pronta, al primo allarme, a smontare le case e rimettersi in cammino.

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