Caccia all’Orang-Utang

FIUME BAR ITO, 12 aprile.

— Col pepe?

— Già, proprio col pepe! — risponde «Batanga Luigi».

— E come fanno?

— Domani vedrete. Adesso andate a dormire che gli orang-utang sono mattinieri. Bisogna essere in foresta prima del sole.

«Batanga Luigi» come lo chiamano i «daiak» del Barito, al secolo Luigi Dicarlo, appartiene ad una famiglia ligure stabilita da due generazioni nella provincia di Singtang. Il padre, capitano di lungo corso della marina a vela genovese, nato in quel di Pegli da una discendenza di «padroni di barca», arruolato mozzo a dieci anni su un brigantino, dopo aver scorazzato sei lustri su e giù pel mondo sulle rotte delle tempeste, finì per stabilirsi nel Borneo e col mettere su una azienda mezzo marittima e mezzo commerciale. Alla sua morte i figli hanno continuato il lavoro paterno.

Buon genovese «Batanga Luigi», nato nel Borneo ma genovese fino all’osso, pazzo pel «pesto» e per l’«acciugata», calcolatore, tenace, economo, pieno d’iniziativa negli affari, un vero figlio della Superba, vecchio stampo con nel sangue tutte le linfe della razza. Un po’ ruvido, uno di quei liguri che hanno nella pelle il sale del mare e nel carattere l’asprezza degli scogli, poche parole, molti fatti, uomo però di cuore e di fegato nel quale la lunga lontananza dalla patria non ha intiepidito l’affetto per la Riviera e per la più grande madre Italia.

«Batanga Luigi» commercia in resine fra i due Borneo; ma da bravo genovese fa anche altro quando capita l’occasione di guadagnare. Due anni fa quando la moda imponeva ad ogni signora di possedere almeno un collo di scimmia, «Batanga Luigi» sguinzagliò nella jungla del Borneo tutti i «daiak» che aveva sotto mano ad ammazzare scimmie col pelo: regalava la carne agli indigeni e si riservava le pelliccie che, seccate e spazzolate, a puntino, partivano per Genova. Chissà quante belle signore che mi leggono hanno incorniciato i loro visetti nel pelo delle scimmie di «Batanga Luigi».

Poi alla Moda passò il capriccio delle scimmie per quello delle tigri e delle pantere, ed il lucroso commercio del Batanga sarebbe finito con grande dispiacere dei poveri «daiak», che hanno un debole pel rognone di cercopiteco in padella, se... non fosse comparso il dottor Voronoff a tirare d’imbarazzo la compagnia. Senonchè la moda si contentava di scimmie morte mentre Voronoff ed i suoi discepoli le vogliono vive. «Batanga Luigi» per far fronte alla situazione ha dovuto organizzare un piccolo esercito di «daiak» specializzati nella cattura degli orang-utang, studiare gli animali e le loro abitudini, gli uomini e le loro disposizioni, infine aprire nei dintorni di Bangermassim uno stabilimento per scimmie, unico nel genere, con reparti di monta e d’allevamento, befotrofio, allattamento artificiale, profilassi di Wassermann, infermeria pei malati, sezione gabbie pei viaggi d’oltre mare, prigioni pei ribelli, celle d’isolamento per gli ipocondriaci e per gli orang-utang di cattivo carattere, infine tutto il necessario per mantenere sano il corpo e gaio lo spirito dei proprietarii della preziosissima glandola.

Quando si tocca l’argomento delle scimmie, «Batanga Luigi» dimentica la colazione e l’ora di andare a letto. Le sue lunghe osservazioni gli hanno fatto per esempio scoprire che gli orang-utang capiscono perfettamente due lingue europee, l’inglese ed il dialetto di Pegli, mentre non hanno attitudine nè per l’olandese nè per il «daiak».

Ma stasera il sor Luigi non si lascia commuovere neppure dall’argomento preferito. Ha detto: «a letto», e si ritira dopo averci accompagnati fino alle nostre stanze. Siamo, infatti, da ieri suoi ospiti in una villetta che allunga la veranda di porcellana bianca fino a lambire l’acqua di smeraldo del Barito e nasconde il tetto di porcellana azzurra fra i monumentali ventagli d’un palmeto. Non le palme smilze d’Egitto nè quelle tozze e nane di Giava, ma una varietà equatoriale, alte e massiccie come quercie, coi tronchi lisci, rigate ad anelli scuri che paiono cerchi di metallo, con in cima un grande parasole di fronde perennemente in moto.

E v’è uno strano contrasto fra la potente immobilità dei tronchi e la nervosa irrequietezza delle foglie.

13 aprile. – Si parte di notte per la jungla. Si traversa il Barito su una canoa indigena, lunga e sottile, che disturba i riflessi delle stelle nell’acqua cupa. Giunti all’altra sponda, ci incamminiamo in fila indiana per un viottolo misterioso in mezzo agli ebani ed agli eucaliptus dietro la guida «daiak» che conosce il villaggio delle scimmie.

Gli orang-utang del Borneo sono, dopo i gorilla del centro Africa, le più grandi scimmie che si conoscano, Gli indigeni li chiamano precisamente «orang-utane» che in lingua «daiak» significa «uomini dei boschi». Rossicci, abbondantemente forniti di pelo sul petto e sul dorso, nude invece le natiche, le guancie d’un colore acceso che chiamerei rosso-schiaffo, il naso appena tratteggiato, fortemente accentuata la mascella inferiore, gli occhi marrone e mobilissimi, gli orang-utang vivono di solito nella jungla in gruppi di dieci e talvolta fino di cinquanta famiglie. I maschi partono al mattino per la caccia e tornano verso il tramonto col cibo per le femmine ed i piccoli. Fino ad una certa età i figli obbediscono docilmente al genitore che è in genere generoso di scappellotti.

Questa è la buona stagione per catturare gli orang-utang perchè è il momento dei «durian», grosso frutto equatoriale con un forte odore di formaggio gorgonzola, di cui gli scimmioni sono ghiottissimi. Pare che scendano appositamente dalle montagne nella jungla inferiore per il raccolto dei «durian». Dove si sente odore di gorgonzola si è sicuri di trovare nelle vicinanze un villaggetto d’orang-utang.

Le scimmie del Borneo amano infatti i comodi e non si contentano, come le specie inferiori, della semplice ospitalità degli alberi. Scelto il posto ogni capofamiglia si costruisce la propria abitazione la quale è in genere formata d’un pavimento, d’un tetto e di tre pareti, il tutto fatto per benino con stoppie e canne di bambù. In fondo non v’è grande differenza fra un nido d’orang-utang e certe capanne «daiak». Gli indigeni hanno in più qualche cencio attaccato ad un chiodo, un paio di pentole ed una collezione di pipe, ma architettura e materiali sono pressappoco i medesimi.

A questa abitudine degli orang-utang di costruire i loro villaggetti si deve probabilmente la leggenda diffusissima nel Borneo dell’esistenza nella jungla d’una varietà di uomini con la coda. Naturalmente nessun europeo ne ha mai visti, ma i malesi ed i «daiak» assicurano che abitano nelle montagne del Kapoas dentro le caverne e che in mancanza di donne si sposano con le femmine degli orang-utang.

L’alba equatoriale deve già imbiancare gli orizzonti dell’isola ma nella jungla è ancora buio pesto. «Batanga Luigi», brontola che siamo in ritardo e che arriveremo al paese quando già i maschi saranno partiti pel lavoro.

Kadiri – A mezzogiorno nella piantagione.
Borneo – Ascari olandesi a Pontianak.

Sono circa le quattro e mezzo quando la colonna si ferma. I «daiak» si dividono in quattro pattuglie per circondare il villaggio e tagliare la ritirata al nemico.

— Ma non si difendono? — chiediamo al genovese.

— Altro che! Ogni volta mi massacrano un paio di «daiak».

Pian piano la luce del giorno filtra attraverso il setaccio degli alberi. Si sente un rumore sordo e continuo come i fabbri che battano un’incudine.

— È tutta notte che gli uomini lavorano, spiega Batanga Luigi, per isolare il paese, altrimenti al primo allarme le scimmie pigliano la fuga sugli alberi e chi le acchiappa più? Schizzano come fringuelli e nascono acrobati. Altro che salti mortali! A terra invece sono meno svelti.....

Un lungo fischio interrompe la conversazione. È il segnale che ormai tutto è pronto.

La parola «caccia» dà sempre l’idea d’un combattimento fra un uomo ed un animale, fra un fucile ed un artiglio, fra un’arma bianca ed un paio di canini. Perciò il termine non si presta affatto per definire un corpo a corpo fra uomini ed orang-utang. Sono così umane le scimmie del Borneo e sono così scimmie i cacciatori «daiak», che vien quasi voglia d’adoperare la parola «assassinio».

Dopo aver percorso un duecento metri dietro «Batanga Luigi» che ha le ali ai piedi, siamo investiti in pieno da un turbine di sole. I daiak hanno lavorato tre giorni a segare alberi tutt’intorno al villaggio delle scimmie spianando un bel tratto circolare di jungla. In mezzo allo spazio vuoto sono rimasti in piedi una diecina di grossi tronchi con le capanne degli orang-utang sospese fra i rami. Ora le bestie sono già in allarme. Appollaiate sui rami sporgenti guardano giù con inquietudine il tramestìo degli uomini.

Uno dopo l’altro gli alberi sono attaccati dalle accette dei «daiak». Quando un tronco scricchiola gli orang-utang lo abbandonano con grida di terrore e si raccolgono su quello accanto. I giganti della jungla si abbattono al suolo con fragore travolgendo le miserabili capanne di stoppia. Finalmente ne resta in piedi uno solo carico d’una ventina di animali. Vediamo le madri stringersi al petto le creature con gesti tragicamente umani, i maschi digrignare i denti e spezzare grossi rami per farsene un’arma contro gli assalitori. «Batanga Luigi» dà gli ultimi ordini. I «daiak» formano un cordone circolare intorno all’albero. Tengono fra i denti il pugnale malese, nella sinistra una corda a cappio scorsoio. Il capo degli indigeni passa con un sacchetto e distribuisce ad ognuno un pugno di pepe in polvere.

— Pronti?

— Pronti!

— Buttate giù.

Le accette attaccano l’ultimo tronco. Ad ogni colpo le scimmie, che hanno capito il giochetto, rispondono con urla di rabbia e di paura. A cavaliere d’un ramo un grosso maschio dall’aspetto poco mansueto fa roteare un manganello. Diversi «daiak» sono armati di lunghe forche, altri di rete da pesca.

L’albero incomincia a scricchiolare, oscilla, si sbanda d’un lato. Subitamente il grosso maschio e tutti gli altri si buttano a terra per aprirsi un passaggio. È impossibile abbracciare tutti gli episodi del combattimento tanto sono fulminei. Seguo con gli occhi il maschio del manganello, lo vedo slanciarsi a quattro gambe verso i «daiak», poi rizzarsi sui garetti ed allungare le braccia pelose per afferrare uno degli avversarii, ma il «daiak» più vicino gli getta il pepe negli occhi. Accecato dalla polvere la bestia brancola nel buio, ma dieci braccia lo avvinghiano alle spalle e lo impacchettano come un salame.

Terribile nella sua collera l’orang-utang si dibatte disperatamente tentando di svincolarsi, di mordere, di calciare, salta, si rotola per terra, lavora di denti e di unghie, ma venti funi lo riducono all’impotenza.

Sette animali sono riusciti a fuggire, undici sono catturati. Una femmina male acciecata dal pepe s’è slanciata contro uno dei «daiak» armato di forca, gli ha strappato l’arma di mano e s’è aperto un passaggio. Un’altra colpita alla mammella da una pugnalata s’è abbattuta al suolo. Mentre con una mano stringe il suo piccolo che urla disperatamente con l’altra strappa intorno un po’ d’erba e cerca di tappare l’enorme ferita. Ogni tanto s’odora le dita bagnate di sangue. Il genovese la finisce con una pistolettata.

Mai una battuta di caccia m’è parsa così bestiale, selvaggia, quasi assassina. I gesti delle scimmie morenti sono terribilmente umani. Si ha l’impressione d’una battaglia rusticana fra uomini pelosi ed uomini senza peli. Fortunatamente questo metodo è riservato esclusivamente agli orang-utang. Per le altre qualità di scimmie «Batanga Luigi» ha adottato sistemi meno feroci. I cacciatori si appostano, al tempo delle noci-cocco, nelle vicinanze degli alberi. Le scimmie sono ghiottissime delle noci, ma non sanno aprirle come gli orang-utang che le schiacciano ingegnosamente fra due pietre. Allora i cacciatori praticano un buco nella corteccia del frutto. La scimmia dopo averlo lungamente annusato si decide a ficcare la mano nel buco per prendere la polpa, ma in quel momento i cacciatori sbucano fuori urlando e sparando revolverate in aria. La scimmia vuol fuggire, ma siccome ha la polpa in mano e non vuole lasciarla, non riesce ad estrarre la mano dalla noce ed è così catturata con una rete di pesca, vittima della sua ingordigia.

Dopo due mesi di permanenza nello stabilimento «Batanga Luigi» taglia ad ogni bestia la coda. La bestia senza coda anche se scappa ritorna dopo pochi giorni allo stabilimento perchè le altre scimmie della jungla rifiutano la compagnia del mutilato.

Verso sera assistiamo ad un’altra cattura. Si tratta di una specie caratteristica del Borneo che i «daiak» chiamano «oran-bin-batan», cioè «uomini pelosi dal naso lungo». Hanno infatti il viso affilato con un lungo naso ebraico. A guardarle fisse non si può fare a meno dal ridere tanto sono buffe. Alte un metro e venti, con il ventre e la coda bianca, la schiena rossiccia, il naso in avanti e rosso sulla punta, hanno intorno agli occhi uno strano cerchietto di pelo grigio come se portassero gli occhiali.

Gli «oran-bin-batan» si acchiappiano accendendo ai piedi dell’albero sul quale sono appollaiati un grosso fuoco. Quando le fiamme sono ben vive i «daiak» vi versano una mistura speciale, il «trasy», composto di grasso rancido, pesce secco e gamberi putrefatti. Al contatto del fuoco l’intruglio sprigiona un tanfo nauseabondo che fa perdere i sensi ai poveri «oran-bin-batan»: quando si svegliano si trovano legati.

Gli «oran-bin-batan» non sono apprezzati dai discepoli del dottor Voronoff, ma sono assai utili a «Batanga Luigi» perchè disimpegnano nello stabilimento l’ufficio di pulcinella. Quando le altre scimmie sono di cattivo umore o tentano lo sciopero della fame l’«orang-bin-batan» le mette in allegria: il suo bel naso di Aronne con la punta color pomodoro ha la proprietà di render gaio il più ammusonito orang-utang. Il sor Luigi ci racconta che quando due «oran-bin-batan» sono messi in una stessa gabbia, prima si guardano in cagnesco, ma appena riconoscono dal naso di essere membri della stessa famiglia, immediatamente si abbracciano e diventano amiconi. Date ad un «oran-bin-batan» un arancio od un melone: infallibilmente lo dividerà in tanti pezzi quanti sono i compagni presenti e riserverà per sé il più piccolo.

Accampiamo nella foresta per la notte. Anche domani è giornata di caccia e siamo abbastanza distanti dal Barito. La orang-utang ammazzata al mattino fornisce l’arrosto ai «daiak». Piedi e mani nelle padelle fanno passare l’appetito. «Batanga Luigi» assicura che il filetto di scimmia saltato a puntino con due o tre erbette ed un po’ d’aceto, ha il sapore della pernice ma ha il buon gusto di non offrircene.

Pian piano scende il crepuscolo. Tutti i rumori si attutiscono. La jungla s’addormenta nel silenzio per la lunga notte dell’Equatore. Solo l’enorme brusìo di milioni di zanzare e d’insetti alati empie il vasto silenzio d’un impercettibile rombo che fa pensare alla risacca d’un lontanissimo oceano. E nel cielo s’accendono tutte le stelle.

Non un alito di vento agita l’immensità del fogliame. Ogni cosa è immobile, come morta. Per l’aria vagolano i fermenti delle febbri e delle malattie. La sterminata putredine calda ha il sentore d’un fiato cattivo.

Alle otto i «daiak» già dormono, molti con la faccia contro terra, altri ravvoltolati a ciambella come cani. Le pose degli orang-utang catturati sono quasi le medesime.

La jungla del Borneo si macera nel torpore della notte equatoriale. Piccole nubi velano il cammino faticoso della luna. Una scimmia si lamenta nel sonno.

Si sente un fischio, lungo, flebile, dolce, che par d’usignuolo. È la terribile raia in cerca di carne fresca.

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