In un villaggio "Daiak"

BANGERMASSIM, 5 aprile.

Ruai, piccolo villaggio «daiak» del Borneo olandese, situato cinquanta chilometri a monte di Bangermassim, sul fiume Barito, si desta alle prime carezze del mattino.

Ruai è un vecchio villaggio della jungla costruito con tutte le regole dell’architettura «daiak». Dentro un grande steccato di canne di bambù sono raccolte circa un centinaio di capanne su palafitte, alte due metri dal suolo: la porta che vorrebbe essere monumentale, è sormontata da un architrave cinese anch’esso di canne. In mezzo è l’abitazione del capo, fiancheggiata da due bicocche un tantino più basse, che ospitano rispettivamente il medico e lo stregone.

La sera l’inquilino della casa più vicina all’ingresso, spranga la porta e il paese s’isola dal resto del mondo. Solo le serpi della jungla, il tadang, il cobra nero o la terribile raia, osano alle volte violare il domicilio degli uomini nonostante il ceffo del grande drago che monta la guardia all’entrata del villaggio.

Dire che Ruai abbia bell’aspetto sarebbe esagerato! Visto di lontano, più che ad un luogo abitato da gente umana fa pensare ad una costruzione di carte da giuoco fatta con un mazzo molto lercio, di quelli che dopo tre anni di servizio in bettola passano ai ragazzi dell’oste perchè manca uno dei mazzerelli al quattro di bastoni. Però bisogna fare i conti col sole dell’Equatore, con gli smeraldi del fiume e con la vicinanza della foresta. Quando, come stamane, i raggi dell’astro nascente trasformano i poveri graticci di bambù in telai di velluto scanellato con tutti i riflessi e le tonalità del nocciuolo, tra la foresta che agita con voluttuosa pigrizia i suoi smaglianti flabelli ed il fiume che accende fantasticamente i suoi cristalli, Ruai cessa d’essere una miserabile accozzaglia di stamberghe per diventare un quadretto magico dell’Equatore.

Galli canterini montano sui tetti di bambù a dare la sveglia al villaggio. Il vento ci porta l’eco di voci di donne e di pianti di bambini. Vediamo le porte delle capanne aprirsi una dopo l’altra, figure umane affacciarsi sulle palafitte e scendere le scalette. Qualche comignolo fuma. Si sente il rombo dei primi piloni che tritano il riso. Un cane battuto guaisce. La porta del villaggio apre il suo battente di canne annunziando ufficialmente il principio del giorno.

Gli uomini escono alla spicciolata con l’ascia dacota sulle spalle, dirigendosi verso la jungla pel taglio delle legna o l’incisione delle resine. Sono malesi della specie «daiak», bruni, alti, snodati, qualche cosa di mezzo fra il nero dell’Africa ed il giallo, appena coperti da un metro di cotonina che lascia scoperte le lunghe braccia e le più lunghe gambe, le quali danno al loro incedere dinoccolato un non so che di scimmiesco. Coscie e garretti sono curiosamente rigati di scuro come le zampe delle zebre, a causa d’uno strano tatuaggio che ottengono fasciandosi strettamente da ragazzi con un vimine colorante che incide l’epidermide e la tinge indelebilmente.

Poi è la volta delle donne che vanno a bagnarsi nel fiume. Pare che il pudore non sia una delle caratteristiche della razza, perchè, nonostante l’immediata vicinanza del nostro accampamento, lasciano scivolare «sarrong» e carnicini. Dopo il bagno donne e ragazzi si asciugano lungamente al sole come Dio li ha fatti.

Belle le giovani, falcate, tornite, con seni turgidi e linee statuarie; già difformi quelle d’età appena matura con i seni flosci ed i ventri gonfi; orribili le vecchie, angolose, incartapecorite, magre da far spavento, stranamente pelose sul filo della schiena. L’Equatore, le malattie ereditarie e la terribile pilatura del riso, avvizziscono a venticinque anni le superbe femmine della jungla. Dai tredici ai venticinque però i corpi hanno tutta la grazia e la potenza della vegetazione equatoriale.

Nell’orgia solare, sullo sfondo della foresta millenaria, il gruppo delle naiadi del Borneo, che mescola la sua nudità al verde della jungla, fa pensare un po’ al Paradiso terrestre. S’aspetta di veder sbucare tra le foglie un Adamo peloso od un pitecantropo con le braccia cariche di frutta selvagge pel pasto delle femmine e delle creature. Vediamo invece un vecchio con la barbetta a pizzo e la figura d’un notaio in mutande, che si dirige verso il nostro accampamento. Non tardiamo a sapere che è il medico del paese, il quale viene a chiederci un po’ di tintura di iodio.

Per essere medici «daiak» non è necessaria la laurea, tanto meno l’esame di Stato della riforma Gentile. Basta essere... vedovo tre volte. Curiosa, ma autentica!

I «daiak» riconoscono, a chi ha perso tre mogli, abbastanza esperienza per curare le mogli degli altri.

La terapeutica «daiak» si riduce a pochi decotti ed a qualche cataplasma coi quali curano i mali, lasciando il resto al buon Dio. Nei luoghi d’una certa importanza la popolazione ricorre in ultima analisi al medico militare olandese, ma nei villaggetti tipo Ruai, sperduti nel mezzo della jungla, fuori delle grandi vie di comunicazione, il medico locale non ha concorrenti. Le febbri della jungla sono, per esempio, curate con certi frutti selvaggi mescolati con sangue tiepido di cane. Il sangue canino, al quale i «daiak» attribuiscono straordinarie qualità curative, è anche uno degli ingredienti abituali dei cataplasmi e delle pozioni.

Altro personaggio importante è lo stregone – il manang – che funziona da prete, da becchino e da notaio del villaggio. Il governo olandese naturalmente non riconosce questa autorità, ma il favore popolare fa a meno dell’exequatur governativo. Fino ad una ventina d’anni fa la principale occupazione del manang era d’affumicare a puntino i cranii delle «teste tagliate». Oggi che una testa tagliata può costare al villaggio la distruzione dei «kampong» e lo sfratto degli abitanti, il manang si contenta di presagire l’avvenire sul fegato di maiale, di annunziare cambiamenti di luna e di tener lontano dal paese lo spirito del male. Il distintivo del grado è una larga cintura di cuoio con una frangia di conchiglie e di denti di fiere.

Altra prerogativa dello stregone è di fissare la dote delle ragazze, la quale è pagata dal marito e di pronunziare sentenza inappellabile di divorzio nei casi gravi di discordia coniugale. Le donne «daiak» sono, sotto tutti i rapporti, le miserabili schiave degli uomini, ma è loro riconosciuto con larghezza una specie di diritto di «prova» prima del matrimonio. Scelto invece il marito, la legge «daiak» non consente strappi alla fedeltà coniugale ed i casi d’adulterio sono puniti con estrema barbarie. L’omertà del villaggio rende materialmente impossibile l’intervento delle autorità olandesi. Tanto questi delitti, quanto quelli provocati dalla legge inesorabile della vendetta ereditaria, rimangono costantemente impuniti.

L’ospitalità è sacra per i «daiak», ma poiché l’esperienza consiglia una certa prudenza, ogni villaggio ha l’abitudine di costruire fuori dello steccato di cinta una piccola capanna, la quale è riservata agli ospiti di passaggio, in genere malesi degli altipiani che vanno a cercar lavoro nelle città, o mercanti cinesi che traversano la jungla per vendere agli indigeni stoviglie e cotonate, incettando i prodotti dell’interno.

Noi che siamo venuti a Ruai per studiare da vicino alcune piante resinose della jungla, della famiglia delle palme-dagmar, avremmo dovuto occupare la «capanna degli ospiti», ma v’abbiamo già trovato installato un bravo mercante cinese con una piccola carovana di portatori.. Il «celeste» con l’ossequiosa cortesia della sua razza offrì subito di sgomberare l’appartamento. Noi abbiamo preferito rizzare le nostre piccole tende sul fiume, all’ombra degli ebani giganti.

Il mercante cinese ed i suoi accoliti sono tre rappresentanti tipici d’una specie gialla che è definita nell’Asia equatoriale «i ping in cammino», qualche cosa che vorrebbe dire «nuovi ricchi in formazione».

Il cinese riserva la pancetta e la faccia tonda a quando ha fatto fortuna: allora bastano due anni al ricco bottegaio per metter su un faccione di luna piena ed un bel ventre di Buddha, per acquistare cioè quella silhouette di bonzo che hanno sui paraventi di lacca tutti i rispettabili figli della Repubblica Celeste. Quando è invece il momento di far quattrini il cinese è in genere magro, segaligno, tutto pelle ed ossa. Non dareste un soldo per la sua salute, invece il ping resiste come pochi alla fatica.

Intelligenti, sobri, scaltri, pazienti, filosofi, tenaci, diplomatici, i cinesi sono i veri ebrei dell’Asia equatoriale. Tutto il commercio minuto e tutti gli scambi fra produttori indigeni e negozianti europei è in mano dei cinesi. Fino a pochi anni fa i «daiak» e i «dakota» davano spietatamente la caccia ai ping nella foresta per depredarli delle loro mercanzie e fare collezione di cranii affumicati contro il malocchio, ma ormai il controllo olandese nella zona meridionale dell’isola e quello britannico nelle regioni settentrionali, garantiscono ai celesti una relativa sicurezza.

Il nostro mercante, il quale ha subdorato, nella presenza dei bianchi, la possibilità di concludere qualche affare, è venuto all’alba al campo a domandarci con mille riverenze se avevamo nulla in contrario a che egli restasse tutto il giorno, dovendo curare, dice lui, la gamba d’uno dei suoi portatori. Un’ora dopo lo vediamo ricomparire con una scatola di tè che ci prega di gradire come omaggio, trattandosi di una foglia verde del Fu-tceu introvabile in commercio. Fra una chiacchera e l’altra riesce ad accollarci diversi oggetti. Ci racconta che è originario del Macao e che dopo aver perso tutta la sua fortuna a Pontianak, s’arrabatta ora a fare il merciaiolo ambulante di villaggio in villaggio fra Pontianak e Bangermassim, vendendo agli indigeni petrolio, zucchero, sale, stoffe e soprattutto arak che è una acquavite di riso, contro prodotti dell’interno, cioè polvere d’oro, guttaperca, resine, legno d’ebano, corteccie tintoriali e scimmie vive.

La storiella della rovina commerciale è una specie di leit-motif di tutti i suoi colleghi. L’amico deve essere invece arrivato nel Borneo con pochi soldi, probabilmente senza un «sapeko», appoggiato da un compatriota già ricco o da una potente Corporazione di Shanghai, la quale gli ha fornito, secondo l’abitudine cinese, le prime merci. Quasi certamente egli possiede già a quest’ora un discreto capitale depositato in qualche Banca cinese di Canton o di Singapore. Quando la somma sarà abbastanza rotonda per dire basta, il ping farà una riverenza alla jungla, comprerà in quel di Giava o di Singapore un terreno, si farà costruire una bella villetta col tetto di porcellana, sostituirà la tela con abiti di seta, le ciabatte di cuoio con pantofole di raso, tirerà fuori il ventaglio ed il parasole, si iscriverà ad una setta politica, farà stampare il suo bravo nome e cognome su un biglietto da visita largo come un lenzuolo e diventerà di punto in bianco un qualsiasi Cin-Fun-Pin, confucista, uomo di lettere e membro milionario d’una Corporazione.

Un vecchio colono di Bangermassim, il quale ci accompagna a Ruai, ci spiega che la fonte principale del rapido arricchimento dei cinesi è la bilancia. Il governo olandese impone l’uso di stadere controllate ed ogni cinese si fa un dovere di comperarne parecchie a disposizione delle autorità, ma tiene a portata di mano per i viaggi nella jungla la sua bilancia addomesticata che è quella permanentemente in funzione.

Dopo la guerra diversi ebrei polacchi hanno tentato di fare la concorrenza ai cinesi nel piccolo commercio del Borneo e delle Molucche, ma hanno dovuto battere in ritirata di fronte all’impossibiltà dell’impresa, anche per l’ostilità del governo olandese, il quale vede di mal occhio stranieri di qualsiasi nazionalità europea od americana battere regolarmente l’interno della colonia. Un italiano che cinque anni fa aveva avuto il fegato di stabilirsi sul Pinoh in piena foresta per accumulare le resine dei villaggi, fu avvertito dal Residente generale di Singatang che il governo declinava qualsiasi responsabilità sulla sua sicurezza, monito significativo in un territorio nel quale i «daiak» sono tenuti in rispetto solo dalla paura della rappresaglia olandese.

Anche per i cinesi il governo ha promulgato un decreto che vieta lo sbarco dei coolye cioè degli emigranti senza mezzi di fortuna nel territorio delle Indie Olandesi, ma oramai i cinesi della colonia sono già diversi milioni. Inoltre a Cantori, ad Hongkong, a Singapore esistono formidabili Società d’emigrazione curiosamente organizzate come cooperative, le quali trovano sempre modo d’eseguire alla chetichella sbarchi di ventura con vecchie giunche che attraccano nei punti solitari della costa.

A parte gli hokien, che esercitano i loro talenti nell’usura e nel grosso commercio, l’emigrazione cinese canalizza verso l’Asia equatoriale, quattro categorie di lavoratori: gli ylam, che sono domestici, stiratori e cuochi, i kek, che sono operai per le industrie, i te-chew, che sono operai agricoli ed i macao o piccoli artigiani. V’è anche una discreta emigrazione femminile molto sui generis, la quale pare rappresenti, per gli esportatori ed i banchieri di Canton, un affare finanziario di primissimo ordine.

Parchi, lavoratori, resistentissimi alla fatica, i cinesi non indietreggiano dinanzi a nessun genere di lavoro pur di guadagnare; assimilano con straordinaria rapidità i più disparati mestieri, avidi di denaro, falsificatori emeriti, imbroglioni in tutto, meno che nei rapporti ufficiali con le Banche e la clientela, accoppiano in un unico esemplare giallo tutte le qualità dei giapponesi, degli ebrei, dei levantini, degli armeni e dei greci!

Nelle Indie olandesi, negli Straits Settlements britannici, nella Cocincina, a Taiti, nella nuova Caledonia, vi sono cinesi arcimilionari alla testa di fortune fantastiche. La base della loro ricchezza è sempre un miserabile coolye, il quale, partito senza un soldo da una provincia del sud, ha prima raggranellato, a forza di stenti, di rischi e di sacrifizi una piccola somma, poi s’è lanciato senza scrupoli negli affari, arricchendo la corporazione dei capitalisti cinesi di un bandito di più.

Verso mezzogiorno il caso ci permette di assistere ad un funerale «daiak». Il Capo del villaggio, al quale siamo raccomandati dal Residente Generale, acconsente, in via eccezionale, di farci assistere alla cerimonia, la quale è singolarmente importante, trattandosi non d’un semplice mortale ma del figlio stesso del povero Capo.

Quando penetriamo nel paese uomini e donne sono raccolti nella piazzetta delle tre capanne. Il Capo ci presenta le autorità, cioè il medico e lo stregone.

Vediamo arrivare un robusto giovanotto che porta sulle spalle un lungo fagotto di scorza d’albero. È il morto, completamente impacchettato nella corteccia d’un grosso tronco con solide legature di liana.

Il sole dell’Equatore avviluppa il villaggio miserabile e la più miserabile plebe nel suo ardore. Si sente lo scricchiolìo dei bambù secchi che crepitano sui tetti sotto la vampa solare. Sulla carne nuda il sudore scorre nei solchi dei tatuaggi, un sudore acre e forte che fa pensare agli amori dei becchi selvatici nelle notti di calura.

Lo stregone incide con un coltellaccio sul macabro involucro di scorza una specie di mascheretta che fa poi saltare destramente con un colpo di punta. Appare il viso del morto, d’un giallo terra, col naso piatto e gli occhi sbarrati.

Il manang volgendosi al padre gli chiede:

— È lui?

— È lui — risponde il padre, — ma era più bello!

Il manang ripete la medesima domanda verso la folla che risponde in coro: — È lui, ma la sua faccia è inaridita dal vento delle grandi montagne!

È il riconoscimento del cadavere. Terminata questa prima operazione si avvicina la madre che s’accoccola accanto al povero morto e gli canta l’ultima ninnananna, dondolandolo come fosse nella culla. V’è una infinita poesia di sapore primitivo in questo estremo canto materno che allaccia la morte ai primi vagiti della vita. L’istinto della carne dà ai gesti della madre una delicatezza piena di fascino.

Quindi si forma il corteo: prima il morto seguito dal padre, dal medico e dallo stregone, poi gli uomini, le donne ed i ragazzi, ultimi i cani, circa una trentina, magri, rossicci, spelati.

Usciti una cinquantina di metri fuori del paese il corteo fa dietro front per ritornare al villaggio ma sulla porta s’è piantato il manang, il quale vieta l’ingresso al defunto. La madre scongiura lo stregone di far ritornare suo figlio nella «casa del latte e del sorriso». Il manang tiene duro. Allora il padre finge di adirarsi e di voler forzare la porta. Parenti ed amici prendono le parti del trapassato. I cani, che non sanno, latrano alla morte. Lo stregone urla come un ossesso. Le donne hanno un grido lungo, lacerante, indescrivibile. Pare che tutti siano colti da un accesso improvviso di pazzia furiosa. Finalmente lo stregone ottiene un attimo di silenzio e pronuncia la frase sacramentale:

— Sì, egli era del villaggio, ma ormai il suo posto è nelle alte montagne dove abitano i grandi spiriti!

Il corteo si riforma e riprende il cammino verso la foresta. Nessuna espressione di dolore, nemmeno di tristezza sul volto degli astanti, i quali da questo momento parlano tranquillamente dei loro affari, mangiano, fumano, ridono, come se andassero nella jungla a raccogliere legna. I daiak sono completamente indifferenti dinanzi alla morte. Poche ore bastano a consolare una madre od una vedova. Per essi la morte non è la fine, ma una semplice evoluzione dell’esistenza verso il meglio, il passaggio dallo stato miserabile di essere vivente a quello superiore di «antenato».

Il cimitero è uno spazio vuoto nella foresta fra quattro giganteschi fichi equatoriali che ergono a cupola il loro immenso fogliame, assicurando «l’ombra perenne» che è indispensabile ai trapassati. Nessun rialzo, nessun tumulo, nessun segno indicano il luogo dove dormono i morti, anzi il terreno deve essere perfettamente livellato. Quando il luogo è pieno di cadaveri lo si abbandona e la jungla s’incarica in poco tempo di riseppellirlo nel suo verde sterminato.

Quattro zappatori scavano una buca lunga e stretta nella quale è collocato il fagotto di scorza d’albero insieme ad una ciotola piena d’acqua, ad una scodella di riso, ad una pipa di betel con un pugno di tabacco e tutti gli accessori per suonare. Lo stregone vi aggiunge una pentola di coccio, rotta in quattro pezzi, che deve servire al morto per far cucinare il suo riso nell’altro mondo. Riempita la fossa di terra, il manang distribuisce a tutti i presenti un pezzetto di ferro arrugginito, il quale per cinque giorni e cinque notti preserverà dallo «spirito del male» che è attratto nelle vicinanze del villaggio dall’odore del cadavere fresco.

Verso sera il capo viene all’accampamento per invitarci al banchetto che, secondo l’usanza «daiak», segue immancabilmente ogni trapasso.

Dinanzi alla sua capanna è acceso un grande fuoco sul quale rosolano diversi porcelli selvatici. Ognuno prende posto per il pranzo funerario, ma... ecco che il morto il quale s’immagina d’essere ancora vivo ritorna in spirito al villaggio ed aspetta la sua parte. Le donne cercano di metterlo in fuga battendo con forza i piloni nei mortai, ma pare che il morto non voglia decidersi.

Allora il padre con un sorriso pieno d’indulgenza per la testardaggine del figlio, colloca, al posto abitualmente occupato dal morto, una rete di pesca la quale è per i «daiak» il simbolo del luogo dove continuano a vivere i defunti. La vista della rete conferma al povero morto che la sua carriera terrestre è irrevocabilmente terminata ed il suo spirito se ne va verso le alte montagne dove dimorano gli Antenati.

Fino a notte tarda giungono all’accampamento i canti del villaggio che celebra il rito della morte con una festa della vita. E mentre le donne danzano con gli uomini giovani sulle soglie delle capanne al chiaro di luna, le vecchie e le maritate lavorano sui mortai a pestare il riso. I piloni battono e ribattono.

Sotto i quattro fichi della foresta i morti dormono alla cadenza miserabile che li ha cullati tutta la vita.

Che cosa è l’esistenza d’un povero «daiak» se non un pugno di riso cotto? Gli uomini lo seminano negli acquitrini del Barito, le donne lo tritano nei mortai d’ebano col ritmo millenario.

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