Dal Borneo a Saigon

BORDO DEL TIMOR, 16 aprile.

Partiti ieri l’altro dall’isola di Borneo, navighiamo verso nord, risalendo dall’Equatore al Tropico, in direzione della Cocincina. La nostra rotta è poco battuta dalle navi ed in tre giorni non abbiamo incontrato che qualche giunca cinese col drago d’oro e le vele dipinte. Dal mar di Celebes siamo passati al mar di Jolo, attraverso l’arcipelago di Solu che è già una dipendenza delle Filippine.

— Dove siamo? — chiedo al comandante stamane.

— A nove gradi dall’Equatore, quasi all’altezza di isola Porto Principe, ma passiamo al largo ed abbiamo messo la prua in direzione della Cocincina.

Ieri il mare era tutto tempestato di scogli e di isole verdi. Ce n’erano tante che pareva impossibile si potesse navigare senza rischi. Invece i fondali sono profondi in quei paraggi e le punte a fior d’acqua sono vette di grandi monti oceanici che un tempo univano da Sumatra alla Nuova Guinea le mille isole ed isolette della Sonda.

Più che in un mare sembrava d’essere in un immenso lago frastagliato di promontori e di seni. Quando di notte la grande luna dell’Equatore inargentava l’acqua ed i suoi fantasmi, certe isolette che comparivano improvvisamente sui fianchi della nave, avevano l’aria di strani icebergs di platino in cammino verso orizzonti di mistero e di leggenda.

Oggi le isole sono sparite e ci si sente più soli nell’immensità. Siamo fra mare e cielo, ma fra un mare d’ocra ed un cielo di zafferano che sconvolgono la nozione delle cose. In fondo si ha solamente una impressione di sole. Il sole palpita, l’acqua trema, ed ardono i diamanti! Cielo e mare sono un unico bagliore giallo che accieca ed intontisce. La vampa solare si riflette sopra due lastre di vetro luminoso. L’orizzonte non ha limiti nè contorni: è un infinito di luce.

Sotto le tende dei ponti i passeggeri allungati nelle poltrone non hanno voglia di niente: se qualcuno tenta di reagire al torpore con una spiritosaggine, od una osservazione, gli altri appena rispondono con una smorfia insignificante delle labbra.

Sui boccaporti i viaggiatori indigeni – malesi e cinesi – sdraiati alla rinfusa, dormono come morti, con le gambe aperte, le faccie protette da una pezzuola di seta o da un ventaglio, in mezzo alle cianfrusaglie colorate dei loro bagagli esotici. L’odore acre dell’oppio sale dalla coperta alle passeggiate di classe. Nell’aria senza soffi la droga tesse torbidi velari di sogno. La Cina parla alle fantasìe ed alle subcoscienze con miraggi di fumeria e di suburbii gialli.

Sole e sole, ed ancora sole. Non una vela all’orizzonte, non un pennacchio di vapore, non un’ala d’uccello, nulla. Un’immensa pesantezza grava sugli elementi statici e sulle cose immobili.

E la nave va, come scivolando su di una distesa d’olio, verso Saigon che ci aspetta fra i banani del suo grande fiume.

Saigon! Sedici anni fa vi arrivai per la prima volta con anima tutta tremante di dolce ebbrezza. Era il primo incontro col mistero delle lontananze. Ero allora mozzo di coperta – bel mestiere quando si ha sedici anni – ed ero di lavaggio a prua mentre la nave imboccava il Mekong. Avevo in mano il «frettazzo» ed i piedi nudi nell’acqua tiepida di mare. Il nostromo in stivaloni raccomandava di far presto e bene. Le mie braccia fregavano macchinalmente i planciti lucidi dell’Haiphong, ma gli occhi incantati non sapevano staccarsi da quelle due rive basse e verdi, sulle quali miliardi di banani agitavano le loro foglie oleose in segno di saluto, rive d’Asia lungamente sognate sulle spiagge e durante... le lezioni di latino, prima di spiccare il volo verso il lontano.

Ricordo che mio padre, il quale m’aveva accompagnato a Napoli all’imbarcatoio, aveva – poveretto – le lagrime agli occhi. Non poteva concepire, lui matematico ed uomo d’ordine, come si potesse preferire una maglia di mozzo ad una uniforme di collegiale, quasi che non ci fosse differenza fra le quattro mura di un convitto e gli sterminati aperti d’oltre mare. Il golfo incantevole aveva tirato fuori per l’occasione le sue più splendide porpore e le aveva stese fra il Vesuvio e Capri come fanno le donne del paese tra finestra e finestra nei vicoli di Porta Capuana. Il cielo era tutta una dolcezza, e la terra, dalla punta di Posillipo all’arco di Castellammare, un unico grande sorriso... E vagavano per l’aria tante canzoni....

Chissà se stavolta Saigon parlerà ancora alla mia anima colla medesima musica di sogno? Dicono che il primo amore non si scorda mai, ed io ho amato Saigon come un ragazzo inesperto può amare una bella donna attempata, corrotta e dipinta. Avevo sedici anni allora, e venti franchi in tasca!

La nave avanza nell’orgia di luce. Il legname è caldo e le ferramenta bruciano. L’ombra dei fumaioli s’allunga sulla coperta, scavalca le murate, finisce in mare, ma non abbandona la nave e la segue, la segue sull’acqua piatta.

Il respiro asmatico delle caldaie empie il silenzio d’una invisibile fatica.

Nessun bianco sul ponte di terza, tutta gente gialla dell’Arcipelago e della Cina. Paiono membri d’una medesima famiglia, tanto si somigliano, coi nasi piatti, gli zigomi sporgenti, le labbra fini, gli occhi di smalto. Solo il colore della pelle differenzia i sudditi del Mikado dai figli della Repubblica Celeste, le genti dell’Annam da quelle del Tonkino e del Camboge. Alla lunga si scoprono anche nel volto certe sfumature che permettono d’individuare le varie specie della grande famiglia gialla. Ma gli occhi sono tutti eguali, biglie di smalto nero messe di sghembo in uno scrigno di porcellana.

L’occhio indiano è grande e bello. Nella sua luce si riflettono i miraggi della razza sognatrice che ha l’anima inarcata verso un infinito irraggiungibile: l’occhio dei gialli è invece piccolo, vitreo, cattivo, occhio fatto per contare piastre e controllare bilancie, che anche quando non vuol dire niente, pare che ammicchi per una scaltrezza. Sembra diverso nel volto incartapecorito d’un vecchio mercante e nel viso di maiolica di una bambola d’Estremo Oriente, ma se si riesce a guardarlo indipendentemente dal resto, è sempre la medesima pallottola di smalto carica di fissità.

Anche in seconda ed in prima classe abbiamo dei gialli, quasi tutti cinesi; faccioni rotondi, ventri opulenti, espressioni gravi, gesti effeminati e naturalmente eleganti, piccole mani, piccoli piedi, passetti corti, bei ventagli, belle stoffe di seta con fodere di raso, che fanno fru-fru nel passare. I giapponesi, già brutti e meno dignitosi, diventano ancora più brutti per la smania di vestire all’europea appena mettono il naso fuori di Nagasaki. Ed hanno tutti gli occhiali. A bordo ce ne sono sedici e manco a farlo apposta non ce n’è neppur uno, non dico senza occhiali, ma che non abbia gli occhiali d’oro a stanghetta.

Come in tutti i piroscafi di questi mari l’Occidente è rappresentato in prima classe dalle razze che viaggiano molto perchè hanno molto denaro: inglesi, americani ed olandesi; in seconda dalle razze che egualmente viaggiano molto perchè hanno troppo poco denaro e debbono trovarne: italiani, russi, polacchi e balcanici.

La «Grande Proletaria» che ha ovunque figli suoi in cammino, è rappresentata da un gruppo d’intraprenditori – gli immancabili – provenienti dalla nuova Caledonia e diretti all’Annam per un appalto ferroviario, da un bel tipo di napoletano che suona d’estate il jazz-band in Australia e d’inverno è secondo violinista dell’Opera di Saigon, infine da un vecchio colono residente nel Tonkino.

Il vecchio è di poche parole, un bergamasco di Città Alta che dirige una filanda di seta ad Hué, uno di quei lombardi calmi e tenaci che danno dei punti agli inglesi per costanza ed ai tedeschi per spirito commerciale.

Gli intraprenditori, che sono di Ravenna, stanno tutto il giorno insieme, con mezzo toscano fra i denti, un vecchio «Popolo d’Italia» fuori delle tasche ed un interminabile «scopone» sempre in esercizio. Le loro mani callose, un po’ rozze, deformate dalla fatica, dicono senza bisogno di confidenze che se è gente che possiede qualche soldo l’ha guadagnato con aspro sudore.

Il napoletano è un vero figlio del Vesuvio, simpatico, allegrone, servizievole, disperazione delle misses di bordo perchè aspetta proprio il momento che s’appisolano per tirar fuori dal mandolino «quanno ’o vapore s’alluntana...». Sia che parli italiano, inglese o francese, l’accento è sempre quello, perfino quando confabula in annamita coi boys di bordo par d’essere sul marciapiedi del rione Amedeo!

L’unica cabina di lusso è occupata da un alto funzionario francese, gros monsieur che deve avere in Cocincina una certa importanza, ma a bordo se ne dà anche troppa. Occupa a tavola il posto a destra del comandante ed ha la manìa dei colletti duri, benché sudi, poveretto, come una caldaia. La sua grande simpatia è l’amico napoletano, forse perchè è l’unico a bordo che lo chiami excellence con cinque elle! Quando si dimentica sul ponte fino ad addormentarsi, russa come un cattivo motore. Se non fosse nota la sua importante situazione ufficiale, meraviglierebbe che un naso così piccolo, fra due guancie così paffute, possa fare tanto chiasso.

Tutte le razze e tutte le classi sociali sono riunite su questi cento metri di legname galleggiante: gli inglesi in pantaloni di flanella, che ogni tanto percorrono a passo di carica i ponti e le passeggiate, sono uomini di affari dell’onnipotente capitalismo britannico, il quale monopolizza i migliori commerci dell’Indocina francese; gli olandesi installati di buon mattino al bar a dar fondo alle provviste di birra della cambusa, hanno tutta l’aria di coloniali made in Germany, col passaporto della compiacente Regina Guglielmina; i francesi che trovano modo d’intrufolare in ogni argomento la frase sacramentale: «chez nous, à Paris», sentono di funzionario lontano un miglio, di funzionario delle colonie che in gioventù ha forse letto Loti, ma che ora si contenta dell’Officiel, con l’elenco delle promozioni; i nord-americani con le gambe sempre su un tavolo o sulla spalliera d’una sedia, ordinano solo e bevono wisky.

Due ebrei polacchi col naso della razza, tre levantini che si raccontano storie interminabili con gesti d’ammazzasette, un greco, con la barbetta alla Venizelos, ed un negro di Manilla, che fuma sigari grossi come cetrioli, completano l’arca di Noè.

Il sesso debole è rappresentato da tre vecchie inglesi insopportabili, le quali pare abbiano a bordo la missione di convertire tutti i passeggeri al celibato.

In seconda classe viaggiano anche sei giovani preti francesi accompagnati da due vecchi missionari con la barba bianca, piccolo manipolo del grande esercito col quale la Repubblica laica di Waldek-Rousseau e di Edouard Herriot ha messo i piedi in Siria ed in Cocincina e s’è assicurata a Scianghai un bel trampolino sull’Estremo Oriente.

Se non fossimo su una nave francese, diretti ad una colonia francese, i francesi mancherebbero a bordo. La «sorella latina» non ha molti figli in cammino pel mondo.

Su questa, come su quasi tutte le navi in rotta sui mari del globo, le razze più rappresentate sono sempre le medesime: anglo-sassoni in giro per diporto o per affari, italiani che si spostano per lavoro, balcanici in cerca di fortuna.

La nostra emigrazione, che incessantemente rigurgita dai confini della patria, è, come tutti sanno, una necessità imposta al nostro popolo dalla ristrettezza del territorio e dalla deficenza delle materie prime. Il continuo sviluppo della forza e della potenza italiana sta lentamente trasformando questo fenomeno, che era fino a ieri un problema interno dell’Italia, in un problema generale dell’Europa. Verrà un giorno in cui esso s’imporrà forzatamente all’attenzione degli altri popoli e governi d’Europa come uno degli elementi predominanti della tranquillità e dell’equilibrio del continente. Quel giorno molte questioni italiane che oggi paiono insolubili a chi non sa guardare lontano troveranno nella stessa atmosfera internazionale la loro immancabile soluzione. Qualche cosa di simile sta accadendo in Estremo Oriente per l’esuberanza demografica del Giappone.

Trenta anni fa la nostra emigrazione era una debolezza, oggi è già quasi una forza, domani sarà infallibilmente un fattore di potenza. Due elementi fondamentali determinano questo processo d’evoluzione, da una parte la meravigliosa resistenza dell’emigrante italiano all’assorbimento straniero – una ragione delle restrizioni americane – dall’altra il continuo miglioramento qualitativo del materiale umano che emigra. Chi viaggia constata la differenza. Prima era una gleba che traboccava dai solchi troppo pieni della patria a concimare di sudore italiano le terre degli altri; oggi è una folla sempre più consapevole del suo valore e sempre più agguerrita che affitta agli altri la sua capacità di produzione ed allarga nello stesso tempo i commerci della patria; domani per virtù di razza e sapienza di governanti potrà essere il pacifico esercito di formidabili conquiste.

V’è nell’emigrazione italiana un dinamismo che meraviglia tutti coloro i quali esaminano il fenomeno con profondità. L’inglese parte per il mondo sapendo di trovare ovunque gente pronta ad aiutarlo ed a favorirlo indipendentemente dai suoi meriti intrinsechi; lo slavo, l’ebreo ed il balcanico ramingano per trovare una nuova patria meno matrigna e stabilirvisi; l’italiano che non trova nella sua terra pane e lavoro, s’avventura coraggiosamente pel vasto mondo sapendo che lo aspettano pochi aiuti e molti ostacoli, ma che alla fine riuscirà perchè ha un bagaglio di qualità valorizzagli ereditato col sangue della stirpe.

Egli porta con sé, insieme agli usi ed alle abitudini del campanile, l’amore della terra natale – mistico ed indefinibile amore – e sempre si propone di ritornarvi al più presto, anche quando la vita con le sue inesorabili esigenze disporrà altrimenti.

Dove molti italiani si trovano riuniti, strade e botteghe assumono immediatamente la fisionomia dell’Italia. Emigrano con le genti gli elementi e le consuetudini. La lingua natale afferma dispoticamente il suo primato. La solidarietà agisce istintivamente nella servizievole dimestichezza dei compatriotti, una commovente fratellanza avvince uomini di natura diversa. La Patria non ha bisogno di molto per parlare al cuore dei suoi figli: bastano una data, una nave, un nuovo arrivato, un piccolo avvenimento, a volte anche meno, un giornale, una lettera... Quei pochi che posano ad internazionalisti si tradiscono quando un insulto straniero sferza l’immagine augusta della Patria, od una preghiera in lingua italiana tocca le corde sensibili del loro cuore. I veri rinnegati sono una quantità trascurabile.

L’umile contadino, il buon operaio, l’onesto lavoratore che non hanno mai abbandonato il paese e magari la montagna, partono per l’America, pel Sud-Africa o per l’Australia, come se si trattasse di cambiare circondario, senza mezzi e senza paura. L’Ignoto non li sgomenta, quasi li attira. Hanno la coscienza di possedere nelle loro braccia un capitale che non può non fruttare. Di fronte alla loro sicurezza si ha quasi la impressione che eredità lontanissime predispongano queste meravigliose genti nostre a farsi largo nel mondo in tutti i paesi e in tutti gli ambienti.

È un esercito ancora senza comandi, ma un esercito che ha già una bandiera tricolore sfumata nell’atmosfera dinanzi ai manipoli camminanti. Dove l’uomo tentenna, la donna – italianissima sempre – resiste.

Mancano però i quadri. Ufficiali e sottufficiali per quanto numerosi, sono troppo pochi in proporzione alla massa gigantesca dei gregarii. Molti giovani italiani della piccola borghesia e delle classi medie, i quali consumano in patria fior d’energia per mettersi mediocremente a posto in mezzo ad una spietata concorrenza, troverebbero con eguale o minor fatica una situazione ben superiore all’estero se avessero il medesimo spirito d’iniziativa ed il medesimo avventuroso coraggio del contadino siciliano e del muratore piemontese.

Borneo – Accampamento nella jungla.
Borneo – Isolotti di palme sul fiume Koboe.

Tutta una educazione è ancora da fare in questo senso, educazione dei genitori, educazione dei ragazzi. Lo Stato, al quale necessariamente spetta una funzione regolatrice, dovrebbe da una parte sforzarsi di contenere l’emigrazione delle braccia, cercando di intensificare con ogni mezzo il loro collocamento in patria e nelle colonie dirette per attenuare, nei limiti del possibile, lo sciupìo delle immancabili perdite; dall’altra favorire invece l’emigrazione dei tecnici, dei professionisti, degli impiegati, dei «buoni a tutto», nei quali di solito la fortuna sceglie i suoi favoriti. Il bisogno non obbliga questa gente a cercare il pane fuori dei confini. Cento legami e cento prevenzioni li trattengono al paese in attesa del concorso o della raccomandazione. Il mondo è vasto invece e le strade della fortuna sono tante per chi ha il coraggio di tentarla. La Patria, nonostante il suo continuo sviluppo, non può appagare le legittime aspirazioni di tutti gli spostati e dei volonterosi. Dopo il primo immancabile tirocinio essi riuscirebbero indubbiamente a valorizzare le loro eccellenti qualità.

Il giorno in cui si troveranno sui piroscafi che battono tutti i mari meno viaggiatori italiani di terza e più di seconda, il problema della nostra emigrazione potrà essere considerato risolto.

Certo è più facile esporre la questione che indicare i mezzi pratici per risolverla. Però nella stessa etica del fascismo è in germe tutta la soluzione, in quanto la religione fascista educando la nazione all’idea di potenza ed allargando quindi smisuratamente gli orizzonti spirituali della coscienza pubblica, sprona all’audacia ed alla bella avventura le giovani generazioni ed insensibilmente le canalizza verso le conquiste individuali che sommate insieme costituiranno la conquista collettiva della nuova Italia.

I giovani della borghesia inglese partono «sportivamente» pel mondo. È lo sport più grande e più bello, quello della vita! La letteratura inglese – imperiale per eccellenza – è per tre quarti un inno allo spirito d’avventura della gioventù britannica. È vero che le condizioni mondiali dell’Italia non sono le stesse di quelle dell’Inghilterra, che è padrona di mezzo globo, ma è anche vero che l’italiano, considerato come unità-uomo, è infinitamente più dotato del britannico. Non è falso orgoglio il dirlo e sarebbe stupida modestia il tacerlo. Ne è prova il fatto superbo che ogni anno quattrocentomila operai e contadini senza mezzi di fortuna e quasi senza appoggi, riescono a collocarsi convenientemente all’estero nonostante le restrizioni ed ostilità d’ogni genere, mentre gli operai britannici restano in Inghilterra a vivere di sussidi statali e si decidono a partire per i Dominii e le colonie solo quando lo Stato organizza minutamente i gruppi d’emigrazione, assicurando a coloro che partono viaggio, indennità e lavoro.

La scuola, la letteratura, il giornalismo, debbono avviare la gioventù studiosa italiana verso gli orizzonti d’oltre mare nei quali il destino rinserra le nuove fortune della nazione.

Il Fascismo, inteso come scuola di disciplina, come religione della patria e come palestra di audacia, è veramente l’alta filosofia che ci vuole per la nuova Italia dalle molte glorie e dalle molte vite, la quale deve farsi strada nel mondo e trovar posto per tutti i suoi figli.

Certo è una filosofia adatta solo per grandi popoli! Ma tale è il popolo italiano sotto tutti i rapporti, per cuore e per ingegno, per capacità di lavoro e virtù di adattamento, per sana costituzione fisica e morale, per gloriosi retaggi del passato e fulgide affermazioni recenti, per le prove che quotidianamente danno i cittadini in Italia ed all’Estero nella ciclopica battaglia dell’esistenza.

Grande popolo, con un passato che nessun altro eguaglia, con un avvenire che tutti gli altri invidiano.

Quegli italiani abbarbicati al formalismo consuetudinario, i quali hanno l’aria di meravigliarsi che il nostro paese, invece di seguire le dottrine degli altri, abbia oggi una sua etica originale – il Fascismo – dimenticano che, eccettuati rari periodi di stanchezza, Roma è stata sempre all’avanguardia del cammino umano!

In mezzo al mar della Cina, sulla nave straniera che attraversa silenziosamente le solitudini, gli italiani si sono istintivamente riuniti a parlare della Patria. Sentono di non essere estranei benché non si siano prima d’ora mai conosciuti.

Nessuno fra essi ha in tasca la tessera del Littorio, ma tutti ne hanno nell’anima il marchio mistico.

E quando il disprezzato mandolino di Marechiaro, consacrato alla gloria dalla mandolinata di Monte Nero, rompe la torbida pesantezza equatoriale col «quann ’o vapore s’alluntana» che sveglia di soprassalto le tre zitelle britanniche, la Patria parla dolcemente al cuore dei suoi figli con la voce soavissima di Mergellina.

E sembra che una carezza vagoli nell’aria senza soffio.

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