Confidenze di fumatori

CHOLON, 11 maggio.

Il primo fumatore lo chiameremo per comodità Ting.

È un mercante cinese ricco a milioni che dalla sua scrivania di lacca rossa intarsiata a draghi e marionette d’oro dirige un esercito di impiegati e di agenti sparpagliati in tutta la Cocincina, fino nel lontano Tonkino e nel Laos misterioso.

Impresta denaro ai contadini annamiti perchè possano seminare il riso, e fra un raccolto e l’altro fornisce loro a credenza tutto ciò di cui hanno bisogno, dalle pentole d’alluminio tedesco, al pigiama di seta ricamata, dai pescetti secchi del lago To-lé, all’oppio profumato di Benares. La banca di Ting è una provvidenza per le campagne dell’Annam! Quando è la festa del Dragone, quella del Serpente-Re, o del Té, o del Keng-Fui, Ting pensa ai suoi poveri clienti annamiti che hanno bisogno di piastre per solennizzare le ricorrenze nazionali secondo i riti come si conviene ad un «perfetto nipote» del grande Giao-kì.

Ting è grasso, tondo, lucido, untuoso, cerimonioso, sorridente. Ting parla francese, inglese, annamita, tonkinese, i dialetti del sud e del nord, gli idiomi del Laos e del Camboge. Quando il governatore generale di Saigon offre un ballo per festeggiare la presa della Bastiglia, od il Milite Ignoto di Verdun, non dimentica mai d’invitare l’eccellente Ting il quale fra le altre cose è il Capo d’una «congregazione», presidente di un circolo, commendatore del Dragone e dell’Elefante, cavaliere della Legione d’Onore per i servizi resi all’Intendenza dell’Indocina durante la guerra.

Ma Ting è un cinese che fuma l’oppio, cioè un uomo che una volta o due alla settimana dimentica le risaie, i conti correnti con le Banche, le dodici società anonime delle quali è amministratore-delegato, per rifugiarsi nel paradiso dei suoi padri. Allora Ting è un altro. Fino alla quindicesima pipa sorride diplomaticamente senza sbottonarsi, fra la quindicesima e la venticinquesima, chiacchiera come una macchinetta, dopo la venticinquesima sogna ad occhi aperti e non parla più.

— Dimmi, Ting, è veramente così dolce l’oppio? Che cosa vedi Ting? Che cosa senti? Perchè una fiamma gialla s’accende nei tuoi occhi di vetro? Immagini d’essere non il re del riso di Cholon ma il re di tutti i mercati, di tutte le Banche e di tutte le ricchezze del mondo?

— Straniero, tu non capisci niente. Non è colpa tua ma non puoi capire niente perchè la tua razza è ancora all’infanzia. I nipotini non afferrano mai i discorsi serii dei grandi. L’oppio che illumina il cervello dei gialli oscura ancora di più quello dei bianchi che già brancolano nelle tenebre. Ting il mercante è rimasto laggiù nella stanza nera ed oro, dinanzi alla scrivania rossa intarsiata a draghi e marionette. Qui la mia anima risale il corso del tempo attraverso i morti nei quali ha abitato, fino al più grande di tutti l’imperatore Chi-Ma-Song. Io sono l’imperatore Chi-Ma-Song! L’oppio riconduce il mio spirito indietro nei secoli fino all’epoca in cui il mio spirito d’oggi faceva parte dell’anima imperiale di Chi-Ma-Song. Ed intorno ad essa si riuniscono gli spiriti delle genti con le quali aveva l’abitudine di conversare.

— Ma noi siamo nella fumeria di Kong-hop, Ting, ed intorno a noi non c’è anima viva...

— Poveretto! Io sono già vuoto, leggero, gassoso. La tua voce mi sembra ora lontana. Tu parli della terra mentre io sono già distante. Il miele nero ha fatto affiorare alla superficie della mia carne il fluido dell’esistenza e l’ha messo in contatto con gli altri fluidi che sono stemperati nell’aria. Sai perchè l’anno scorso ho rovinato Cing e Tao-lì che volevano ridurmi alla miseria? Perchè l’Imperatore Chi-Ma-Song mio trisavolo che è in me, ha preso in quell’occasione la direzione del mio spirito e l’ha guidato nella battaglia, così come aveva l’abitudine di mettersi alla testa delle truppe imperiali e di conquistare le provincie dei mandarini ribelli. Ting si rovina, dicevano alla borsa di Cho-lon! Ting ha perso la testa, sussurravano al mercato di Saigon! Io obbedivo invece ad istruzioni che venivano di lontano, dal cervello infallibile del mio grande avo. Le giunche cariche di riso si affondavano nei canali. I magazzini colmi di riso si bruciavano. Dal Tonkino scendevano i venti avvelenati del Keng-Fui a distruggere le nuove semine. I giapponesi volevano riso, i francesi volevano riso, gli inglesi telegrafavano da Bangok e da Rangoon. Ma nessuno ne aveva. Ting aveva comperato tutto e Ting ha vinto perchè i trisavoli dei miei concorrenti Cing e Tao-li erano semplici mandarini di terza classe ai quali l’imperatore Chi-Ma-Song faceva fare ciò che voleva.

— Continua Ting.

— Tu credi che io fumi l’oppio perchè mi piace l’odore della droga o perchè mi piacciono le piccole donne nude che preparano le pipe appoggiando i cannelli di giada sui loro seni di albicocca? A me le donne non dicono niente, giovane straniero ignorante, e la pipa è sovente amara al palato come la foglia avvelenata dello strofanto. Ma se io non fumassi l’oppio le anime dei miei padri s’aggirerebbero intorno a me senza che io fossi in grado di ascoltare le loro voci d’oltre tomba. L’impermeabilità del mio corpo impedirebbe alla coscienza di percepire i soffi degli altri spiriti. L’oppio allarga i pori, allenta i tessuti, dissolve i liquidi connettivi delle ossa, schiude le porte della prigione di carne, permette al mio essere di corrispondere con le «influenze» degli antenati, di far tesoro della loro esperienza millenaria, d’approfittare della luce dei loro occhi che hanno visto le cose dei secoli. A volte...

— Perchè ti fermi, Ting?

— A volte i padri mi ricevono nel loro cenacolo in mezzo alle steppe, ai laghi ed agli acquitrini della grande pianura del Mezzo. Non ti dico il nome della città perchè non ti direbbe niente, giovane straniero ignorante. Ti basti sapere che un tempo, quando Londra e Parigi erano ancora quattro capanne abitate da selvaggi, essa comandava a cento milioni di sudditi. Tre muraglie, una grigia di granito, una rossa di porfido, una nera di ardesia, la proteggevano dai nemici e dai curiosi. Nel mezzo sorgeva un giardino meraviglioso di ibischi e di fiori di loto con un lago celeste nel quale si specchiava un castello. Le torri di porcellana avevano la colorazione delicata dei cieli mattutini. Lì abitava il mio arcibisavolo, l’imperatore Chi-Ma-Song. Ora il castello è abbandonato dagli uomini. Lo abitano solo gli spiriti di coloro che vissero dentro le sua mura. Visto dal di fuori il giardino sembra una foresta selvaggia ma sotto l’ammasso delle foglie si perpetuano le meraviglie del passato. Siccome una piccola parte dell’anima di Chi-Ma-Song è in me, anch’io ho libero accesso al luogo quando il mio spirito può, grazie all’oppio, irradiarsi in distanza. Ci riuniamo là sulle stuoie antichissime sotto i parasoli screziati di gemme. La folla sterminata dei cortigiani e dei servi che ci adorarono in vita si raccoglie prosternata a venerarci ed a bruciare i bastoncini d’incenso. Una pace inesprimibile regna nel santuario imperiale. E le parole dei presenti, magnificate dalla sapienza dei secoli, sono come goccie concentrate di saggezza...

Saigon – Una strada del quartiere annamita.
Saigon – Il palazzo del Governo.

Ting s’interrompe un momento, si china sulla lampada ad aspirare d’un sol fiato la venticinquesima pipa, resta così qualche minuto con la bocca semiaperta e le narici ansanti, a gustare il fumo dolce e grasso che tarda a svanire. Poi riprende a parlare con un piccolo nodo nella lingua.

— Non solo i morti ma i futuri si riuniscono al castello. L’ieri ed il domani non hanno segreti per me. I principi dei secoli che furono lasciano le loro tombe di granito, vigilate dai draghi e dalle tigri, per far corona al vecchio imperatore. I principi dei secoli che verranno, convengono dalle lontananze dell’universo a tener compagnia ai predecessori...

— Dei secoli che verranno?

— Sì, quelli che ora sono in parte dentro di noi, di noi mercanti di riso e di coprah che lavoriamo ad ammassare ricchezze perchè i nipoti guerrieri trovino i mezzi necessari alla riscossa del Drago di Cina!

E Ting non parla più. Lo interrogo ma non risponde. Lo scuoto ma non se n’avvede. Evidentemente, dopo la venticinquesima pipa, il suo spirito è partito per la città delle tre muraglie ed ora conversa coi saggi della corte imperiale.

Il secondo è Long, di professione lustrascarpe onorario dell’hotel de France.

Durante trent’anni Long ha imbiancato col gesso di Spagna le scarpe coloniali di migliaia e migliaia di passanti – funzionarii, soldati, preti, marinai, mercanti, banditi – sopportando con filosofia annamita le loro insolenze, aspirando l’odore dei cuoi umidi e dei piedi sudati, studiando la psicologia delle genti sulla sensibilità dei calli e sull’impazienza delle caviglie.

Poi, diventato troppo vecchio, sarebbe stato cacciato via come un cane rognoso se non avesse avuto l’onore di essere stato in giovinezza boy del primo governatore francese dell’Indocina, Francis Garnier. La Repubblica riconoscente ha interposto i suoi buoni uffici presso la direzione dell’albergo perchè non fosse condannato al vagabondaggio chi aveva avuto indirettamente una parte così importante nella organizzazione dei possedimenti francesi d’Estremo Oriente attraverso le calzature del grande Governatore! E l’albergo, lieto di poter aggiungere alle sue benemerenze ufficiali, anche l’esclusività del leggendario lustrascarpe, gli ha accordato, vita natural durante per decisione del Consiglio d’Amministrazione, una specie di colombaia al livello del tetto e due piatti di riso cotto alle ore della table d’hôte.

Il riso e il casotto bastano a Long, il quale da buon annamita non ha molti desideri, però l’oppio bisogna che se lo comperi, non avendo la direzione dell’albergo creduto di spingere la riconoscenza coloniale fino all’appannaggio di cinque franchi settimanali.

Long ha un corpo interminabile, scheletrico, tutto ossa e pelle. L’epidermide del viso ha assunto con gli anni, l’aspetto di una vecchia pergamena raggrinzita: gli occhietti obliqui sono diventati ancora più obliqui, quasi danno l’impressione d’essere addirittura inarcati all’insù. Mani e piedi hanno la finezza aristocratica delle genti dell’Annam.

Le verità fondamentali del Tao-Té-King non hanno segreti per Long fino alla trentesima pipa. Dopo, la poesia lo trascina sulle sue ali di farfalla attraverso gli azzurri. Fra una fantasticheria e l’altra Long dipinge col pennello su lenzuoli di carta-seta le produzioni del suo estro: in inchiostro nero le meditazioni sull’amore, in inchiostro grigio quelle sulla politica, in inchiostro rosso le meditazioni sulla morte. Dall’alto della sua piramide filosofica Long giudica gli uomini e le cose del mondo intero.

— A che pensate, Long?

— Al denaro!

— Avete forse bisogno di qualche cosa? Non avete più oppio, più inchiostro, più carta di riso?

— La lampada è accesa, il barattolo è pieno di miele. Le mie parole erano senza malizia. Pensavo quanto siete imbecilli voi occidentali a crearvi tanti grattacapi e tanti dispiaceri per un po’ di vanità o per un pugno di piastre.

— Avete scritto versi, stamane, Long?

— No. Cinquanta pipe non sono state sufficenti a sgombrare il cervello dalle nebbie che l’intorbidivano. Avrei bisogno di chiarezza perchè ho avuto stanotte una visione incantevole.

— Racconta, Long.

— È impossibile. Se potessi raccontare sarei capace di scrivere. La carta invece, vedi, è bianca. Poi la lingua di questi francesi non si presta per cesellare il pensiero. Neppure il linguaggio degli zii cinesi può gareggiare con la dolcezza dell’annamita.

— Racconta lo stesso, Long.

— Ero in un giardino di nenufari e di frangipane attraversato da un canale. I fiori di loto non sbocciavano a fior d’acqua ma si ergevano alti su lunghissimi steli d’argento. Il vento soffiando sugli steli ne estraeva un’armonia dolce e sommessa, dolce come il bacio della donna amata, sommessa come il respiro delle foglie nelle notti senza soffio. Io ero in un «sampan» dell’Annam, di quelli che non si costruiscono più, tutto di legno di tek macerato nella rosa e nell’oppio. E pian piano, dinanzi ai miei occhi illuciditi dall’oppio, il paesaggio meraviglioso si è trasformato, svelando la sua essenza interiore. I petali dei fiori di loto, agitati da un brivido divino, hanno incominciato a fremere, a muoversi, a gonfiarsi, a diventare guancie, occhi, orecchie, fino ad assumere completamente la fisonomia delle donne che in quelle corolle vivono fugacemente un giorno o una primavera, aspettando che la loro anima, a poco a poco, si spenga a forza di vivificare quelle delle loro discendenti. Ed erano volti bellissimi, tutti eguali, bianchi come l’avorio, con le ciglia unite e le bocche scarlatte spennellate di sangue. Attraverso la trasparenza degli steli d’argento s’intravedevano i loro corpi pregni di latte e di fragola, procaci ed immateriali nel medesimo tempo. Poi...

— Poi?

— Ad un tratto vidi tutti quei fiori umani prosternarsi fino a nascondere le bocche di sangue nell’acqua di smeraldo. Il soffio degli aliti increspava il canale. E nel mio «sampan» balenò un raggio di sole, un raggio bianco-rosa di prima aurora che non si capiva donde scaturisse perchè tutto intorno era tenebra fonda. Quel raggio era una donna. Non la vedevo, ma la sentivo! Per le virtù dell’oppio che affina l’intuito e sviluppa la sensibilità penetriamo i misteri dell’universo. Ogni cosa ha un’anima, solo noi non ce ne accorgiamo. L’oppio ci fa capire il pianto della seta quando si strappa, l’urlo della porcellana quando si rompe, il lamento dell’oggetto che casca e si fa male, il solletico d’un mobile laccato quando ci si passa su il polpastrello, la carezza d’una stoffa, il sorriso d’una tenda... Quel raggio era vivo. Riconoscevo la carezza tiepida e sapiente della mano femminile sulla mia carcassa di cartapecora, il solletico dei suoi riccioli sulle mie guancie avvizzite, il delizioso contatto della sua bocca fresca e calda ad un tempo sulle mie gengive senza denti, fresca come acqua di sorgente, ardente come la fiamma che morde l’oppio e l’obbliga a consumarsi. La sua giovinezza invisibile possedè le mie ossa decrepite. Io ero tutto una delizia e tutto un dolore. Negli steli d’argento dei fiori di loto i corpi fremevano e fremevano partecipando alla nostra gioia. Le bocche recline sull’acqua giuocavano con l’onda di smeraldo. La musica del creato cullava il nostro godimento.... Si sentiva il sussurro dei pianeti roteanti nello spazio... il sibilo delle stelle che solcavano l’infinito... il brusìo delle anime vaganti e dei fiori morenti... il ronzìo dei cervelli che pensano nel sepolcro dei teschi... Prima col sapone, poi con le spazzole, puliamo bene, lucidiamo bene, io primo lustrascarpe dell’Hôtel de France, io primo boy di signor Garnier... io Long, vecchio Long, sposo di fate, poeta dell’Annam...

Un filo di bava cola dalla bocca sdentata nell’incavo dello sterno spaventoso.

Il terzo personaggio è una piccola «conghai», una delle tante che nelle case di tè aspettano gli uomini.

È giovane, quasi bimba, ma fuma l’oppio, perciò ha l’anima vecchia, quasi decrepita.

La chiamano Mi-bhà.

Nipote d’una danzatrice della corte di Hué, figlia di una cortigiana delle case di Cholon, Mi-bhà è stata educata da piccola per fare la bambola di amore, amare nessuno e tutti, non avere cuore, essere solo un corpo infagottato e dipinto, una bocca che bacia e che sorride.

— Perchè fumi, Mi-bhà?

Perchè l’oppio è la sorgente della virtù. Dopo tre pipe, ripeto la domanda: Perchè fumi, Mi-bhà?

— Perchè mi piace la Montagna!

Ancora una pipa, un’altra, un’altra ancora. La bocca dipinta lascia un cerchietto rosso sul cannello di bambù.

— E che cos’è la Montagna, Mi-bhà?

— Tu non conosci la Montagna ed anche io non l’ho mai vista la Montagna laggiù nel fondo dell’Annam, dov’è nata mia madre, dove sono nati e vissuti i miei padri, dove sarei vissuta anch’io, se al grande imperatore di Hué non fossero piaciuti i seni di susina della madre di mia madre. Ma quando ho fumato molte pipe, molte pipe, ed il miele nero mi brucia in fondo alla gola, e mi si chiudono gli occhi pesanti, e quasi mi sento morire, io sento il fresco della Montagna, ascolto il canto delle grandi foglie, il gorgoglìo dell’acqua sui sassi lucidi e bianchi, l’urlo del vento che corre e si strappa ai rami forcuti degli alberi maligni...

«... Vedo il mio villaggio con le case di bambù, la pagoda col tetto d’oro che si guarda nel canale, gli uomini della mia razza che coltivano il riso nell’acqua ricamata dalle muffe, le donne che tritano i chicchi nei mortai cantando le canzoni della Montagna. Sono felici quelle donne che hanno un uomo solo, povero e bello, allegro e buono, che torna la sera dai campi a mangiare il riso bianco sulle foglie lucide!...

«... Vedo che un giorno anch’io rinascerò ai piedi della Montagna, sarò una «niam» di villaggio, assisterò alla partenza dei cacciatori che vanno a cercare la tigre nelle foreste senza luce, e sceglierò il più bello, il più giovane ed il più forte, per farne il mio amore! Andremo insieme lungo i canali di giada, in mezzo ai fiori di loto, sotto gli alberi profumati che si scuotono di dosso i pensieri, nelle ore che il sole pavesa di porpore infuocate i rasi azzurri del cielo, quando i «gong» delle pagode chiamano le genti con la loro voce di velluto a bruciare i bastoncini d’incenso dinanzi alle tavolette degli Avi. Ed io brucierò l’incenso dinanzi a me stessa!

«Quando ho fumato il miele di papavero mi par di anticipare la mia vita di domani: vedo quella che sarà la mia cai-nha ai piedi della Montagna... vedo i sentieri che passano dinanzi alla mia casa di poi e s’affondano nel verde, sento i passi della gente che tambureggiano sull’erba, il suo passo... Uno stuolo di ibis trasvola sul cristallo azzurro del cielo, limpido ed immenso. La sera è tiepida, d’un tepore umido e stagnante che s’alza ad ondate dalla terra ardente. Ed un profumo dolce naviga nell’aria...».

Mentre la «conghai» parla, lentamente, infantilmente, cogli occhi socchiusi, quasi conversasse con sé stessa, il sudore scompone un po’ la maschera dipinta del suo viso di bambola. Sotto la vernice porcellanata compare a tratti la patina giallina della razza.

Alle oscillazioni della piccola lampada mi accorgo che il mercante Ting, il lustrascarpe Long e la cortigiana Mi-bhà si rassomigliano straordinariamente. Hanno la stessa fronte corta e sporgente, gli stessi pomelli prominenti, le stesse labbra sottili ed un po’ tirate agli angoli della bocca, i medesimi occhi obliqui, le stesse pupille di smalto nero che riflettono il vuoto d’un abisso senza fondo.

La somiglianza singolare rivela l’esatta similitudine delle loro anime, scaturite da una polla unica della sorgente umana, nutrite degli stessi pensieri e degli stessi sogni.

Ho già visto gli stessi volti ed il medesimo sguardo. Dove? Sui paraventi, sui ventagli, nelle tazze, nelle lacche, negli avorii, nelle figure simboliche dei vecchi Saggi d’Estremo Oriente che hanno modellato, con la loro filosofia serena e profonda, la razza e la civiltà di queste terre; nei Confuci di maiolica, nei Meng-tzé di cartapesta e di cera, nei Buddha di legno e di giada che sotto la fronte corta e sporgente sorridono, sorridono!...

Tre confidenze, tre rivelazioni, tre spiegazioni, forse: il mercante-filosofo, il lustrascarpe-poeta, la cortigiana-onesta: tre sciocchezze, tre bolle di sapone colorate dall’eterna illusione umana.

Share on Twitter Share on Facebook