Mi-Bhà

SAIGON, 21 maggio.

Nell’aula severa della Corte d’Assise gli occhi obliqui della folla gialla fissano i caratteri sibillini del «mane tehel fares» d’occidente: «Liberté, Egalité, Fraternité»! E mentre il difensore d’ufficio fa appello alla coscienza dei giudici perchè tengano conto delle leggi millenarie alle quali l’imputata ha obbedito, Mi-bhà si guarda sorridendo le piccole unghie di porcellana.

Il presidente ha la testa calva e la barbetta alla Poincaré, i due giudici coi baffi spioventi alla Briand, mostrano un avanzo di capelli impomatati. I gendarmi annamiti, coi capelli lunghi annodati sul cocuzzolo, sembrano brutte donne malate d’itterizia travestite da poliziotti per una «pochade» parigina. Le faccie degli interpreti, degli uscieri, degli scribacchini, dei segretarii, dei piantoni di servizio fanno parere ancora più carino il viso di pupattola di Mi-bhà.

Mi-bhà ha un pigiama nero a bottoncini dorati come usano le «conghai», cioè le donne dell’Annam che convivono maritalmente con un bianco, sposate in perfetta regola secondo il rito annamita, il quale però non ha valore dinanzi ai tribunali civili della colonia. Un bel giorno il marito bianco riparte per l’Europa, magari per sposare nel villaggio natio una ragazza allampanata piena di soldi, e lascia la «conghai» coi figli al suo destino. Umile storia, sempre eguale! Nei salotti della colonia è cattivo gusto dare importanza a queste inezie. Colui che per caso innalza la piccola «conghai» al rango di madame o di mistress portandola dinanzi all’uffiziale civile è segnato a dito dalle misses e dalle zitelle come un... traditore della razza.

Mi-bhà ha sacrificato al marito occidentale tante piccole abitudini dell’Annam, quella per esempio di tingersi i denti di rosso o di nero con la vernice di betel, quella di lubrificare i capelli con l’olio di ricino, d’unire col bistro nero le sopracciglia come nelle maschere delle pagode, d’appiattire i seni con una fascia strettissima di garza. Basta guardarla per capire che è «sposa» d’un bianco. Essa gli ha dato il suo corpo di bambola annamita, forse anche la piccola anima che ha l’istinto dell’edera. Il vezzo di corallo che le casca dal collo sul seno ancora infantile non è un monile d’Estremo Oriente: è una cosa d’Occidente, e quei grani rossi alternati con boccole di filigrana stonano un po’ sulla tunica nera sotto il viso di maiolica dipinta.

Io non so nulla di Mi-bhà eccettuato il suo nome che m’ha appreso il presidente durante l’interrogatorio. Credevo d’entrare in un tempio di Confucio che m’avevano indicato dietro il mercato delle terrecotte e mi sono trovato nel cortile del Palazzo di Giustizia. Sono entrato egualmente perchè anche questo è un tempio nel quale s’imparano tante cose e sovente s’intravedono i segreti di mille anime.

Quando l’avvocato termina la sua arringa, i giudici si ritirano lentamente, dignitosi e solenni. Escono anche gli avvocati, i segretarii, gli uscieri, gli scribacchini, gli interpreti, le donne-gendarme e l’imputata. Il rumore e la polvere che la Corte fa nel ritirarsi, sono adeguati all’importanza della sua funzione.

Nell’aula rimangono la folla silenziosa dei gialli ed i busti di gesso allineati dietro i seggi dei magistrati: Waldek-Rousseau, Jules Ferry, Thièrs, Gambetta.

La folla gialla ed i grandi uomini di gesso hanno l’aria di contemplarsi. Il sole ardente della Cocincina infiamma le vetrate. Le tre parole formidabili del frontispizio pesano sull’ambiente. «Liberté! Egalité! Fraternité!». Per esse un giallo è condannato od assolto in nome della Giustizia secondo i principii del Codice napoleonico, applicati a gente d’un’altra civiltà, d’un altro spirito, d’un altro mondo.

La sentenza sarà pronunciata nel pomeriggio, dopo la colazione dei magistrati. Gli intingoli del ristorante ed i nervi delle mogli peseranno indubbiamente sul verdetto della povera Mi-bhà.

Mancano tre buone ore per la ripresa del processo, ma la folla gialla resta nell’aula perchè non sa dove andare. Sono quasi tutti marinai di «sampan», facchini del molo fluviale, battellieri del fiume che hanno le loro case galleggianti sul Mekong. Si sono riuniti al Palazzo di Giustizia per tenere compagnia a Mi-bhà che è una della loro casta. I «sampan» sono lontani dal Palazzo, allineati lungo il molo delle banane, all’imboccatura del canale di Cholon. La distanza per andare e tornare è lunga e le strade sono piene di sole. Oggi è mercato di riso ed i negozianti cinesi cercano i «sampan» annamiti pel trasporto a buon prezzo dei sacchi e delle ceste, ma Mi-bhà è una figlia del fiume, nata a bordo d’un «sampan», ed ha diritto fino all’ultimo all’assistenza degli uomini del suo sangue.

È vero che Mi-bhà ha disobbedito alla legge diventando «conghai», invece d’accomodare le reti e di lustrare i «sampan» come le sue mille sorelle, ma ha riscattato largamente la sua piccola colpa col suo ultimo gesto. Mi-bhà è in regola coi riti e solo il rito conta nell’Annam.

L’anima di suo padre buttato nel fiume durante una rissa da un mercante cinese, doveva essere vendicata secondo la legge millenaria del Cing. Toccava a Mi-bhà, unica discendente, di placare l’anima paterna e di impedire che il suo spirito esacerbato si trasformasse in un genio malefico pei battellieri di «sampan». Mi-bhà lo sapeva. Era il suo destino. Fin dalla infanzia era stata educata al culto sovrano degli Avi ed al rispetto dei riti secolari le cui origini si perdono nelle penombre della razza. Si può dire che suo padre e sua madre non gli avevano insegnato altro. Per la sua piccola anima annamita tutto il «dovere» e tutto «l’onore» erano concentrati nella scrupolosa osservanza dei riti.

Pareva che Mi-bhà diventando «conghai» avesse dimenticato gli insegnamenti della famiglia e le tradizioni millenarie della sua gente, che si fosse traviata, che fosse diventata una «figlia perduta», occupata solo delle sue vesti di seta, dei suoi parasoli di raso e dei suoi vezzi di giada. Nei «sampan» del molo delle banane ne parlavano come d’una rinnegata, e se talvolta una sua amica d’infanzia od un uomo del fiume la incontravano al bazar di Cholon, voltavano la faccia dall’altra parte per non incrociare i suoi occhi. Al processo Mi-bhà aveva pianto raccontando l’affronto.

No, Mi-bhà non aveva dimenticato. Se col tempo aveva finito per adottare tanti usi e tante abitudini dell’uomo bianco che amava, nel vestire, nel mangiare, nella maniera di vivere ed anche un po’ di pensare, non aveva mai tralasciato di bruciare mattina e sera le cartine profumate della «preghiera» dinanzi all’altare degli antenati e di offrire loro ad ogni pasto una tazza di riso ed un bocconcino di frutta. Ed ogni mese era andata, al tempo della luna nuova, alla Pagoda degli Spiriti dinanzi al grande Buddha dell’Annam a chiedere indulgenza pel suo amore colpevole.

Ed un giorno che l’assassino di suo padre, diventato un ricco negoziante del molo del riso e fornitore del governo, era capitato in casa sua per parlare d’affari col «marito», Mi-bhà nascosta dietro un paravento aveva aspettato che le passasse vicino per conficcargli nelle spalle il coltello da marinaio di suo padre. Tutto s’era svolto regolarmente secondo il comandamento dei secoli com’è detto nelle storie e nelle canzoni.

La mano aveva tremato un po’ nel dare il colpo e la ferita non era stata mortale. Se il cinese fosse stato un povero diavolo qualunque, forse la cosa si sarebbe potuta accomodare dinanzi al giudice indigeno di conciliazione, ma Teo-li è un pezzo grosso di Cholon, fornitore del Governo, consigliere municipale, amico del «grande governatore», mentre il marito di Mi-bhà è solamente un piccolo sottotenente della fanteria coloniale, arrivato da un anno dalla Francia senza appoggi e senza protezioni.

Al processo sono sfilati i testimoni di parte civile e di difesa: tutti cinesi i primi che si sono sperticati in elogi sulla bontà d’animo e sulla rettitudine di Teo-li, grassi cinesi di Cholon in tunica e pantofole di raso che parlando correntemente il francese hanno reclamato una punizione esemplare: tutti annamiti i secondi, poveri battellieri del fiume, facchini del molo delle banane, marinai di «sampan» incartapecoriti dal sole di Cocincina e dall’oppio di Mekong, che hanno tentato di ricostruire l’assassinio del padre di Mi-bhà e di spiegare all’uomo dal cranio lucido la consuetudine millenaria della Legge di discendenza.

Il Procuratore della Repubblica funzionante da Pubblico Ministero, ha disturbato Cicerone e tirato in ballo Fénélon, ha elogiato le qualità mirabili della colonia cinese di Cholon che collabora lealmente col governo sul terreno economico, ha ricordato le somme sottoscritte durante la guerra da Teo-li per i «poilus» della Somme, ha dipinto con foschi colori l’ambiente equivoco dei battellieri di «sampan» nei quali rivive lo spirito degli antichi pirati del Mekong, ha tuonato contro la barbarie delle tradizioni annamite che minano nelle fondamenta la pacifica convivenza sociale, favorendo l’infiltrazione dell’odiosa propaganda bolscevica, poi dopo aver vuotato uno sull’altro due enormi bicchieri d’acqua ha chiesto alla saggezza del Tribunale un verdetto esemplare per togliere dalla circolazione una delinquente precoce che ha nel sangue gli istinti dell’assassinio e della depravazione.

Ogni tanto Mi-bhà sollevava gli occhi di smalto e sorrideva. Quando il Procuratore della Repubblica alzava troppo la sua voce, i suoi piccoli occhi di bambola dell’Estremo Oriente s’ingrandivano in una espressione indicibile di terrore.

In favore dell’imputata ha deposto il sottotenente della fanteria coloniale. La voce del giovane era piena di sincerità e gli occhi onesti erano ombreggiati dal dolore.

«Innocente come una bimba dei nostri paesi – egli ha detto alla fine – dolce, buona, affettuosa, naturalmente incline alla pietà, gentile coi servi e con tutti, generosa coi poveri, disinteressata, incapace di far male ad una farfalla, perfino di uccider una mosca, non riesco a comprendere come abbia potuto ferire Teo-li. Se non fosse qui in mezzo ai gendarmi, dinanzi al Tribunale, non lo crederei possibile. La disgraziata deve avere realmente obbedito ad una imperiosa legge ereditaria di cui il nostro spirito occidentale non riesce a concepire la potenza. Chiedo pietà per la sua giovinezza e per la sua profonda innocenza. Essa ha obbedito ad un ordine misterioso scaturente dalle profondità della razza».

Ed i giudici coi baffi alla Briand hanno sorriso paternamente alla cecità dell’amore.

Per ultima ha parlato Mi-bhà. Un po’ in francese, un po’ in annamita, un po’ nel dialetto del fiume, la «conghai» ha cercato di ricostruire i due drammi: quello lontano della rissa sul fiume al quale assistettero i suoi occhi di cinque anni, quello vicino che ha avuto per sfondo un paravento di seta dipinto ad ibis azzurre. E le ibis azzurre avevano molto posto nel discorso dell’imputata.

Ad ascoltarla s’aveva la sensazione dello sforzo che doveva compiere il suo piccolo cervello per sintetizzare l’accaduto, per spiegare agli altri ciò che essa stessa non riusciva a spiegarsi. Le sue parole dipingevano un quadro pieno di macchie nere, dominato dagli spettri degli antenati, dall’ombra formidabile della Legge, da un paravento di seta dipinta sul quale due ibis azzurre indicavano coi lunghi becchi gialli la strada del destino.

Dinanzi alla sua mente sconvolta i pensieri scaturivano confusamente sotto forma di piccole visioni incoerenti, brevi e senza seguito. Sulle sue labbra certi particolari insignificanti s’ingigantivano smisuratamente e su di essi la «conghai» si soffermava lungamente quasi avessero il potere di commuovere i suoi giudici. Certo tra la folla e Mi-bhà esistevano misteriose correnti d’intesa, perchè certe inezie che avevano l’aria di annoiare i magistrati suscitavano un lungo mormorio di commenti nel popolo dei «sampan «.

Il dramma lontano, contestato dalla parte civile e dal Procuratore della Repubblica, assumeva sulle labbra dell’imputata la potenza di un’ossessione. Il morto compariva ogni notte in sogno dinanzi a sua figlia. Il giorno del ferimento era dietro al paravento di seta dipinta mentre Teo-li discuteva col «signore bianco» di riso e di «sampan». Era il padre morto di quella notte lontana, così com’era stato ripescato dall’acqua gialla del Mekong, livido, gonfio, tumefatto, gli occhi di vetro sbarrati che luccicavano come «quelli del grillo». Il padre aveva comandato, essa aveva obbedito! Era andata nelle sua stanza, aveva cercato il coltello che sua madre le aveva consegnato prima di morire, l’aveva trovato nel piccolo baule di tek sotto la tunica violetta coi bottoncini di giada, l’aveva nascosto nei capelli, e sempre accompagnata dall’ombra del padre era ritornata dietro il paravento accanto alle due ibis azzurre.

— Avete colpito per uccidere? — ha chiesto il magistrato di destra aggraziato d’un bitorzolo a metà del naso.

— Quando Teo-li è passato vicino al paravento io tremavo tutta. Se egli avesse camminato non avrei colpito. Il destino ha voluto invece ch’egli si fermasse. Vedevo la sua carne alzarsi ed abbassarsi sotto la seta gialla, sentivo il suo odore, il rumore del suo respiro. Gli occhi di mio padre, luminosi come lucciole della notte, mi penetravano fino in fondo al cuore. Il suo coltello mi pesava nei capelli. Allora l’ho tolto perchè mi dava noia. Poi non so più... Teo-li gridava, tanta gente correva, il paravento era per terra, il «signore bianco» mi carezzava e mi ripeteva: — Cosa hai fatto, Mi-bhà, cosa hai fatto, Mi-bhà...

E nel narrare, la piccola «conghai» ogni tanto sorrideva come sorridono le «conghai», senza un motivo, perchè hanno la bocca fatta così, un po’ tirata agli angoli delle labbra.

La folla gialla aspetta quietamente nella sala dei busti di gesso. La ritrovo come l’ho lasciata. Anch’io sono in anticipo. Manca una buona mezz’ora per la ripresa della seduta.

Un grosso ananas tagliato a fette sottili da una bisavola fa il giro dei tre primi scranni. Il frutto fresco diffonde nell’aria satura di fiati e di sudore il suo forte profumo d’Oriente. Poi un ometto dalle mani di cartapecora tira fuori un cartoccio di polpette che passa di mano in mano fino al quinto banco. Altri involti sono fraternamente divisi nelle file successive per ingannare la fame, e volta per volta un odore potente rivela la natura del commestibile: pesce secco, uova di pavone in conserva, manghi di Singapore, purè di gamberi in salamoia.

Il pavimento è tutto schizzettato di macchiette rosse per gli sputi del betel che marmorizzano anche gli zoccoli delle pareti.

Cholon – La strada delle fumerie.
Pnom-Pen – Cambogesi che assistono ad uno spettacolo di danza.

Se questa folla fosse cinese, il chiasso sarebbe insopportabile: è annamita invece, quindi quieta, misurata nei gesti e nella voce, quasi immobile. La conversazione generale è come il brusio di uno sciame di api. Certe figurine sembrano di cartapesta tanto sono senza movimento. Diverse «conghai», amiche di Mi-bhà, sono riunite in disparte su d’un banco. I braccialetti dei polsi e delle caviglie tintinnano argentinamente. Le loro tuniche di seta a ricami d’oro contrastano con le umili cotonine dei battellieri. I loro denti bianchi paiono ancora più bianchi accanto alle dentature nere e rosse degli altri annamiti.

Un vecchio scheletrico rosicchiato dall’oppio, tutto pelle ed ossa, il collo incordato, il torso nudo e spaventosamente rientrante, il cranio lucido ed aguzzo, si solleva penosamente sugli stinchi per rispondere alla folla che fa appello alla sua saggezza.

— Io non sono — egli dice — che un povero annamita senza conoscenza, vissuto sempre sul «sampan» di mio padre a correre in giù e in su la grande acqua, ma ho l’esperienza degli anni. Sono sicuro che Mi-bhà sarà condannata. Ciò non importa. Essa ha fatto ciò che doveva fare. Ha rispettato la Legge. Teo-li non è morto ma ha il polmone forato. Pagherà il suo conto! I bianchi che non capiscono la Legge disapprovano la figlia del fiume, ma il Sublime che sa tutto, che vede tutto, la giudicherà secondo la sapienza dei secoli. Lui solo sa leggere nel cuore degli annamiti e giudicarli secondo il loro sangue. L’anima del padre di Mi-bhà seguita dal corteo di tutti gli antenati è già dinanzi a Lui, nei palazzi dell’Ombra, del Silenzio e dello Spavento che ogni sera aprono le loro porte al sole ed ogni mattina lo lasciano uscire perchè illumini il mondo. Per il Buddha dorato del mio «sampan» vi dico che Mi-bhà sarà condannata dagli uomini bianchi che comperano il riso da Teo-li, ma la Legge è la Legge. Essa dice che chi ha ucciso sarà ucciso a sua volta dal più vicino parente della vittima, nell’ora e nel modo stabilito dal Perfetto...

Messieurs, silence, voilà la Cour!

Preceduti dagli uscieri, dagli interpreti, dagli scribacchini, dai segretarii e dai gendarmi, i magistrati entrano solennemente, gravi e dignitosi, raggiungendo a passetti corti i seggi di velluto rosso collo schienale d’oro.

E fra due guardie annamite entra sorridendo anche Mi-bhà.

Il presidente s’alza e recita:

— In nome della legge, ecc. ecc., per l’art, x ed y del Codice penale, ecc., ecc., in conformità delle disposizioni del regolamento di polizia, ecc., ecc., e degli accordi intervenuti fra il governo della Repubblica francese e S. M. l’imperatore dell’Annam ecc., ecc., Mi-bhà figlia di Ci-bhà, nata nel «sampan» 1278 nel molo delle banane, attualmente «conghai», dimorante in via delle Porcellane, è condannata a sette anni di lavori forzati nelle miniere di Peu-hong per tentato omicidio con l’aggravante della premeditazione e dei cattivi costumi.

La folla accoglie il responso della giustizia con un mormorio di passione che è immediatamente troncato da un energico «silence» dell’usciere.

Mi-bhà continua a sorridere.

In un angolo un giovane sottotenente che ha l’anima ancora irrorata di primavera, si tormenta i baffi e s’asciuga gli occhi celesti. L’interprete traduce in annamita il testo della sentenza. L’avvocato di Teo-li raccoglie con fretta i suoi scartafacci. Il magistrato del bitorzolo si stuzzica i denti con uno stecchino. Il Procuratore della Repubblica ha un colpo secco di tosse. Per la finestra aperta entra il rombo vellutato di un «gong» lontano che invita i fedeli dinanzi all’altare di Confucio.

La tragicommedia coloniale sarebbe finita e la Corte si accinge ad aprire un nuovo incartamento, ma il vecchio scheletrico erge sugli scanni la sua orrenda magrezza e, puntando il suo braccio ossuto contro il presidente, urla:

— Carne venduta, porco lebbroso, quante piastre hai ricevuto da Teo-li?

— Conducetelo al Commissariato! — urla il magistrato.

E mentre le donne-gendarme si spettinano per eseguire l’ordine del Tribunale, il vecchio ha ancora il tempo di gridare:

— La Legge è la Legge, gente dell’Annam, chi ha ucciso sarà ucciso!...

La Corte, offesa nella maestà della giustizia, si ritira a passi corti, carichi di dignità. Il corteo dei magistrati, degli uscieri, degli interpreti, sfila all’indiana tra il busto corrucciato di Waldek-Rousseau e quello sorridente di Jules Ferry, sotto il frontone sul quale sono scolpite a caratteri d’oro le tre parole formidabili: «Liberté! Egalité! Fraternité!».

Nel viso di bambola di Mi-bhà gli occhi dilatati, enormi, stravolti, proiettano sulla scena lo sgomento della sua piccola anima.

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