Fumerie d’oppio

CHOLON, 8 maggio.

Una via scura e stretta, a destra ed a sinistra una fila di lampioni gialli di carta che quasi non fanno luce: è la Tao-ming, strada delle fumerie.

Ogni lampione è un invito a sognare.

Ombre escono, ombre entrano, in un silenzio di cimitero. L’odore potente della droga è sospeso nell’aria.

La nostra guida – un ricco mercante di riso di Cholon che si è abituato al wisky ed allo champagne senza rinunciare alle pipe degli antenati – ci spiega i misteri del suburbio.

— Questa è la fumeria di Kon-hop frequentata dai funzionari della Residenza. Questa è la casa di Fai-tsì, preferita dagli ufficiali di marina, con belle geishe del Giappone e pessimo oppio di Birmania. Quello è il club dei mercanti di riso, il Fuòc-Kièu, ermeticamente chiuso agli europei. Accanto è il circolo Ki-ju-jum, mezzo fumeria e mezzo casa di giuoco, nel quale si giuocano sfrenatamente al «bacàn» grosse fortune. La terza porta, col lampione dorato, è un locale annamita che ha fra i suoi clienti le due principesse imperiali del Tonkino. Noi andiamo all’ultimo che è di tutti il più sontuoso, il club del Kong-u-siu-Chiu (circolo del piccolo passatempo) frequentato piuttosto dagli uomini di lettere e dai banchieri. Fra le diverse attrattive ha anche una preziosa biblioteca di vecchi manoscritti mandarini.

Gli ingressi delle fumerie sono chiusi e velati da una portiera. Nessuna luce e nessun rumore filtrano al di fuori. Sembra d’essere in un tranquillo quartiere di lavoratori, già profondamente addormentato alle undici di sera, mentre siamo nel grande quartiere dei bagordi di Cholon, precisamente nella strada delle «case di sogno» che è tagliata in due dalla strada delle «case di tè». I gialli amano circondare l’oppio e l’amore di mistero e di silenzio, perchè lo spirito di coloro che si recano a queste botteghe di illusione abbia il tempo di predisporsi ai riti millenarii e nell’uscire non sia colpito troppo brutalmente dal tumulto della vita esteriore.

I gialli sono simultaneamente poeti e... positivi, sono soprattutto grandi psicologhi anche nel commercio dei godimenti. Un jazz-band accanto ad una fumeria urterebbe il loro senso poetico e pratico, come una bettola accanto ad una chiesa. Le stesse «case di tè» non hanno nulla a che vedere con i locali affini di Europa. Sono piccole pagode della voluttà deificata, nascoste in genere fra i fiori e le piante, in un vicolo buio che dà la sensazione d’essere appartato dal mondo.

Là, le cortigiane cinesi accomodate come idoli, il viso di bambola dipinto secondo una maschera millenaria, ricevono gli uomini con cerimoniosa dignità, dando ad ognuno l’illusione di essere un mandarino od un principe da leggenda. La loro missione non è di agire direttamente sui sensi con la procacità della carne, ma di suggestionare il cervello con una messa in scena che ricostruisce le visioni fantasiose dei poeti e degli artisti della razza. Esse sono semplicemente i personaggi dello scenario.

Nelle più eleganti case di tè di Cholon, di Canton, di Scianghai, chiuse agli stranieri ed ai marinai di passaggio, l’occidentale che riesce eccezionalmente a penetrarvi, rimane colpito dalla bizzarria di quelle bambole ieratiche che se ne stanno mute sugli alti scanni di lacca contro i fondi violenti delle pareti, impacchettate dentro pesanti stoffe a ramaggi d’oro, cariche di monili e di vezzi, sovente adorne di una tiara imperiale o di una mitra d’Oriente, in mezzo ai mostri delle tappezzerie ed ai draghi dei paraventi.

Cristallizzate in atteggiamenti ed in costumi che non hanno mai variato durante i secoli, esse non sono più, pel cinese, delle semplici donne, ma i simboli eterni della lussuria gialla, le incarnazioni tangibili dell’idea di voluttà.

Noi guardiamo senza emozione, quasi con ripulsione fisica, quelle maschere straordinariamente pallide che fanno pensare al mondo dei morti, quei fantocci dorati che paiono fatti di paglia e di stracci. La sensualità cinese si eccita invece. Per questa razza vecchissima, spossata da abusi e da raffinatezze centenarie, la voluttà non è tanto un amplesso di carne quanto la possessione di una immagine di bellezza.

Gli idoli si spogliano... Offrono in silenzio con gli ori e con le sete, senza parole e senza baci, il possesso impossibile d’un fantasma plasmato dai secoli!

— Perchè le case sono tutte d’un sol piano? Bazzicano forse i terremoti anche in Cocincina?

— Niente terremoti – ci spiega l’amico cinese – ma noi «celesti» non amiamo le case alte. La tradizione vieterebbe assolutamente di costruirne, però nel quartiere degli affari le necessità del commercio dettano legge per noi. Secondo la credenza dei nostri padri le case troppo alte intercettano i soffi del feng-cui, cioè le anime degli antenati che vivono in mezzo alle genti. Anche l’uso dei paraventi che voi vedete nei nostri appartamenti in ogni stanza, accanto ad ogni porta, intorno ai letti ed alle scrivanie, obbedisce alla medesima credenza: sbarrano il passo agli spiriti cattivi, i quali non possono avanzare che in linea retta.

Sempre, quando un cinese, anche moderno, accenna alle usanze nazionali lo fa con dignità, senza il fanatismo istintivo dei mussulmani e senza il sarcasmo degli orientali verniciati di civiltà. Il nostro amico, che è alla testa di una grande azienda nel vortice degli affari, in continuo contatto con gli uomini di occidente, educato anzi egli stesso prima a Parigi poi a New-York, non posa mai a spirito superiore. Mai una parola od un sorriso hanno l’aria di commiserare i suoi congeneri. Ne parla con semplicità e con naturalezza, senza lasciar trasparire se anch’egli condivida quelle credenze ed osservi quei riti.

Del resto in Cina ed in Giappone il culto degli antenati è tanta parte dello spirito delle genti che nessun giallo riesce a sottrarsi alla sua influenza. L’atmosfera dell’Estremo Oriente è come ispessita dalle emanazioni del passato, carica dei fluidi invisibili di miliardi di morti immortali che continuano ad agitarsi in mezzo ai viventi.

Nelle case dei cinesi più impregnati di civiltà occidentale, dei rivoluzionari stessi, degli anarchici, dei bolscevichi, dei sun-senisti, che negano tutto il passato, dei futuristi di As-ké, non manca mai l’altarino degli antenati. I bastoncini d’incenso bruciano perennemente in tutta la Cina e nelle sue appendici dinanzi alle tavolette degli Avi. Sono forse trecento milioni di tabernacoli dorati nei quali le divinità tutelari della razza – i padri – ricevono l’omaggio quotidiano d’una fede quadrimillenaria che è l’essenza stessa della Cina. Il passato è più grande del presente, più incombente del futuro. Il peso dei morti schiaccia le spalle dei vivi. La saggezza paralizza con la sua maestà intangibile gli innovatori più audaci.

Il fardello formidabile della sua civiltà antichissima ritarda il passo della Cina ma le impedisce di scantonare per vie traverse. La razza procede lentamente dentro i solchi millenarii, contemporanei di Ninive e di Babilonia, obbedendo come una famiglia d’insetti agli istinti ereditarii.

In ciò è la grande debolezza dell’Asia gialla, ma anche la sua invincibile forza. La nostra civiltà non interessa gli uomini dagli occhi obliqui che per quel tanto di comodo che può aggiungere alla loro vita materiale: telefoni, comunicazioni, ferrovie, ritrovati scientifici: per tutto il resto, per tutto ciò che è dominio dello spirito, essi hanno gli occhi costantemente ritorti verso il loro passato, nel quale, secondo loro, è riposta la somma saggezza dell’esperienza umana.

Ci considerano giovani, impulsivi, primitivi, «barbari», idolatri dell’Oro e della Macchina, ancora in ritardo nel cammino verso la Saggezza, la quale disdegna i «mezzi della vita» mirando esclusivamente ai suoi «fini».

Prima di entrare in una fumeria d’oppio – non per fumare una pipa, ma per contemplare nell’intimità il mondo giallo – bisogna pensare a questa civiltà che ha raggiunto diverse grandi tappe prima della nostra, che ora sembra in ritardo forse perchè ha continuato a camminare per altre vie, scegliendo altri obiettivi ed altri ideali.

L’oppio stesso che per noi rappresenta un morboso pervertimento dei sensi, od un farmaco vigliacco per sfuggire alle dure realtà della vita, è pel cinese tutt’altra cosa: è la soggezione completa della carne al dominio sovrano dello spirito, ottenuta temporaneamente mediante un artificio che diminuisce le forze dell’una e centuplica la potenza dell’altro: è la congiunzione d’una anima ancora prigioniera dell’involucro terreno, col mondo delle anime già libere che sono ritornate nei fluidi del Creato.

I Buddha obesi, dal sorriso stupido che col loro grasso da eunuchi urtano il concetto della divinità umanizzata che noi ci siamo formati sullo scheletro piagato del Golgota, sono in armonia con l’essenza di questa civiltà che consiglia la passività, la rinunzia, la rassegnazione, l’assorbimento dell’anima individuale e transitoria nell’Essere collettivo ed eterno.

I draghi che digrignano i denti sui tetti delle pagode e sui cornicioni delle case, i mostri che si contorcono buffonescamente sugli stendardi delle «congregazioni», le chimere che minacciano sulle stoffe e sulle porcellane, gli spauracchi che perpetuamente tormentano i sogni dei gialli, non ci fanno più ridere se per un momento riusciamo ad immedesimarci nello spirito cinese fino a sentire la presenza delle influenze malefiche d’oltre tomba che perennemente insidiano l’umanità miserabile.

Allora la fumeria d’oppio cessa di essere un lupanare dorato di Estremo Oriente, nel quale la curiosità occidentale cerca il sapore di una droga che non è fatta per noi o magari l’ebbrezza di una esaltazione artificiale che non è in armonia con lo spirito della nostra civiltà. Diventa ciò che veramente è pei cinesi: il tempio d’una filosofia, la cripta delle pagode di Buddha e di Confucio riservata agli asceti ed ai mistici.

Come noi siamo costretti a riconoscere la aristocrazia, la nobiltà e la grandezza di certe manifestazioni del pensiero e dell’arte cinese – un postulato di Confucio, per esempio, un assioma di Lao-tzé, il codice del Samuray, le sculture monumentali cinesi delle epoche Tsin e Tang, i bronzi meravigliosi del monastero di Cugui, le lacche, le porcellane, gli smalti e gli avorii della Cina Song – così noi non possiamo giudicare con la nostra morale cristiana e con la nostra filosofia occidentale l’uso dell’oppio, ma dobbiamo aggiungere il terribile miele di papavero a tutto quanto di strano, d’incomprensibile e di paradossale ci mostra l’Estremo Oriente.

Dobbiamo pensare che nel momento in cui un cinese si sdraia accanto alla piccola lampada e prende in mano religiosamente il cannello di bambù, egli è convinto, nel profondo della sua coscienza millenaria, di spogliarsi della sua umanità materiale per ascendere temporaneamente le vette altissime del pensiero. Egli è persuaso di giuocare un tiro alla divinità violando, per le proprietà magiche della droga, alcune delle barriere che limitano la potenza umana.

Lo slancio non è il medesimo nel povero coolye e nel colto mandarino, ma la nobile illusione è la stessa. Ogni fumatore s’immagina di diventare meno carnale e meno terrestre, di sciogliere lo spirito dal carcere umano della materia corrompibile, di schiudere al cervello le porte della prigione cranica, d’accostarsi al Dio immergendo la sua piccola anima nella grande anima del Tò, del Tutto!

Una lenta preparazione ereditaria lo predispone a questa formidabile auto-suggestione nella quale si dissolvono i suoi rancori, le sue preferenze, i suoi stessi dolori personali. Durante l’estasi egli si sente non solamente più alto, ma anche immensamente più buono: se è umile e povero confonde in una unica tenerezza i grandi ed i ricchi della terra, se è potente e milionario si sente fratello dei servi e dei pezzenti. Non esistono più per lui nè cattivi nè buoni, nè parenti nè nemici, nè cinesi nè stranieri; l’umanità intera è una sola famiglia di infelici che aspetta rassegnatamente il momento della suprema liberazione.

E tale è la potenza della sua suggestione che quando, alla lunga, il corpo incomincia a risentire gli effetti della terribile droga, nonostante l’abitudine ereditaria, fino all’indolorimento fisico della cassa toracica prossima allo schianto, il fumatore arriva a godere, durante l’estasi, dello stesso suo disfacimento come d’una vittoria progressiva dello spirito sulla carne, a seguire con voluttà il torpore mortale che pian piano sale dalle membra lungo il filo della schiena verso la nuca intossicata, a sentire, nelle vie del corpo, il cammino inesorabile della morte che avanza.

Visto dall’esterno il circolo del Kong-u-siu-Chiu è una bicocca di piccole proporzioni e di modesta apparenza. All’interno numerose sale arredate con sontuosità principesca sono allacciate da lunghi corridoi che evidentemente congiungono la casupola ad altre caserelle finitime. Nessuno sospetterebbe dal di fuori l’esistenza di locali così ampi e sfarzosi. Io non contavo di trovare più d’una stanza e mi trovo in un palazzo incantato d’Estremo Oriente.

Vasi, tappeti, lacche, smalti, paraventi, ventagli di seta dipinta, porcellane, avorii lavorati come pizzi, ferri battuti trattati come ricami, intarsi, incrostazioni, filigrane, cuoi bulinati, mosaici di vetro e di madreperla, tutti i miracoli della pazienza umana e le fantasie di un buon gusto raffinatissimo concorrono ad adornare d’una eleganza bizzarra, ma estremamente fine, il circolo dei banchieri e dei letterati di Cholon.

Gli ospiti vestiti di seta, con un’armonia di linee e di tinte che si afferma nei più minuti particolari, sono perfettamente intonati all’ambiente.

Ve n’è che leggono, altri che guardano il soffitto come aspettando qualcuno, altri conversano tranquillamente fra loro o prendono il tè in microscopiche tazze di bambola o carezzano con gli occhi una donna vestita da idolo senza toccarla.

I gesti sono lenti, compassati, cerimoniosi, pieni di grazia; flebili e flautate le voci, furtivi i passi e quasi guardinghi, femminili i movimenti delle mani e dei ventagli, artistiche e quasi ricercate le pose, tutto regolato e misurato da una legge misteriosa di raffinata armonia.

Non tutti fumano. Molti riservano la droga per giornate speciali di abbandono, ma vengono ugualmente al club per respirare un po’ d’atmosfera dell’ambiente, per sentire l’odore formidabile del quale non possono più fare a meno, per riposare lo spirito nella compagnia dei «fratelli», in quanto l’oppio fa dei suoi adoratori di una specie di famiglia i cui membri, che secondo l’Uai-Lung-Vang sono figli dell’Oppio, si sentono apparentati in un mondo ideale senza distinzione di razza, d’educazione e di psicologia.

Le sale riservate ai fumatori sono appartate dalle altre. Le portiere sollevate permettono di guardare dentro gli ambienti tiepidi e fumosi.

I fumatori sono sdraiati sulle stuoie, col capo sugli sgabelli caratteristici di lacca che sostituiscono in Cina i nostri cuscini. Ve ne sono di vestiti, di discinti, d’interamente nudi: di grassi e di scheletrici, di giovani e di decrepiti. Le grandi lampade di seta gialla e violetta sospese ai soffitti danno alle carni nude la colorazione lucida del vecchio avorio, con riverberi azzurrognoli, con riflessi di maiolica, con ombre e chiaroscuri indefinibili.

Nella luce incerta i corpi rilasciati ed immobili hanno un abbandono cadaverico. Certi lobi d’orecchio quasi trasparenti sembrano appendici artificiali di madreperla: certe congiunture scarnate e cordacee fanno pensare a mummie diseccate chimicamente: certi occhi aperti sulle voragini dell’estasi hanno la fissità spaventosa della morte.

Dove i fumatori sono ancora alle prime pipe, i corpi conservano maggiore scioltezza parlando fra loro sommessamente.

Donne nude e donne vestite disimpegnano il servizio della fumeria. Le prime adagiate accanto ai fumatori preparano le pipe ed il tè verde dell’Yu-nam, il famoso gnoc-dà di Cholon, nel quale è infuso una goccia d’oppio indiano. Le seconde infagottate nei broccati, cariche di collane e di gioielli, restano sedute sugli sgabelli contro le pareti, immobili e taciturne come statue. Il loro compito è di offrire ai fumatori un punto di partenza nei loro sogni ed un punto di appoggio per le loro fantasticherie. I costumi riproducono esattamente quelli delle dinastie imperiali pre-mongoliche. I visi delle une e delle altre sono identici, copie conformi di una bambola dipinta fabbricate a serie da una macchina misteriosa, e quest’uniformità di volto fra gli idoli d’oro e le femmine nude è d’un effetto sconcertante, impossibile a dirsi.

Se talvolta una carne geme d’ebbrezza nessuno fa caso alla fragilità dei sensi. Convenienze e pudori non hanno significato per i devoti dell’oppio.

Accanto ad ogni fumatore arde la piccola lampada sulla quale le serventi liquefanno la droga. Nel silenzio assoluto si sente il cigolìo aspro dell’oppio che stride sulla fiamma come un tarlo instancabile. È un ronzìo continuo, un fru-fru d’ali di falena su un vetro invisibile.

L’oppio satura l’ambiente della sua vaporosità torbida e dolce. Le pareti, le tende, gli oggetti, le carni stesse sono impregnate del suo sentore potente.

A volte una donna-idolo si stacca come una sonnambula dalle pareti, si curva a prendere una pipa facendo tintinnare i vezzi di giada e di cristallo, l’aspira solennemente, resta un momento in piedi avvolta nella nuvola dorata, poi silenziosamente ritorna al suo posto e riprende la sua immobilità statuaria.

Altre volte è una delle serventi nude che si solleva sui ginocchi per eseguire la medesima operazione. La piccola lampada dell’oppio investe la parte inferiore del corpo in una luminosità gialla a riflessi d’oro, mentre il grande lampione proietta sul viso e sul torso un lividore smorto. Allora le piccole donne rassomigliano fantasticamente a quei ninnoli di avorio o di giada nei quali ignoti artisti portentosi sintetizzano i gusti e le fantasie della razza...

A quest’ora molti hanno sospeso di fumare. Sono già nel regno dei sogni e delle chimere, dei miraggi e delle visioni: in un mondo nel quale noi non possiamo avventurarci anche volendo perchè è tutto dominato da una filosofia che è irriducibilmente in contrasto con gli atteggiamenti ereditarii del nostro spirito.

Anche volendo noi non possiamo eliminare dai nostri sogni l’Occidente del quale siamo parte, le forme e le tendenze della nostra civiltà operosa e conquistatrice, i concetti che ci siamo formati dell’amore, della famiglia, dell’ambizione, della gelosia, delle virtù e dei vizi umani attraverso la lenta evoluzione dei nostri padri.

Quanti fumatori d’oppio europei ho interrogato m’hanno sempre confessato che le loro estasi tendono fatalmente verso l’incubo. Abituati al rombo dei direttissimi lanciati attraverso le campagne, alle corse di cavalli e di automobili, alle battaglie dello sport e della politica, alla glorificazione dell’emulazione umana nella quale è la sintesi del nostro progresso, all’incessante lotta occidentale per la conquista dell’individuo e della collettività, forgiati in un modo speciale dall’impronta dei secoli che furono e che portiamo dentro di noi per la concatenazione misteriosa dei protoplasmi, uomini d’altra razza, d’altra matrice, forse, chissà, d’altro spirito, noi non possiamo seguire i gialli nel paradiso artificiale delle loro ebbrezze. Ci sporchiamo semplicemente la bocca, ci avveleniamo il corpo, stravolgiamo il nostro cervello con acrobazie di demenza.

Ogni qualvolta ho avuto occasione di vedere fumatori d’oppio occidentali durante l’azione della droga, ho riconosciuto, nelle loro faccie sconvolte e nei loro occhi stupidi, lo stesso intontimento bestiale dell’alcool.

Nel guardare invece questi uomini d’Estremo Oriente che maneggiano elegantemente con le loro dita affusolate d’avorio le pipe terribili, queste figure d’ambra chiara, di porcellana lucida e di pergamena rugosa che paiono illuminate da una luce interiore, ho la medesima impressione di infinita beatitudine che emana dai grassi Buddha delle pagode.

Che cosa vedono i gialli? Che cosa sentono? Immaginano forse di essere sui troni imperiali delle dinastie scomparse nella polvere dei secoli? D’essere a colloquio con le forze soprannaturali che hanno macerato la razza antichissima nel ritmo dei millenni!? Di stemperarsi nell’etere divino donde scaturiscono e dove si riassorbono gli enigmi e le magnificenze del creato? Perchè tutti i loro più grandi poeti cantano il paradiso dell’oppio come il vertice supremo della beatitudine? Perchè tutti i loro saggi attribuiscono alla piccola lampada che avvelena il potere di massimo sole illuminante la stirpe? Perchè tanti sommi artisti hanno consumato gli occhi e l’ispirazione a cesellare con mistico ed appassionato amore, le fragili pipe dispensatrici di morte? Perchè? Perchè?....

Due fumatori gialli m’hanno fatto le loro confidenze. Aspetto d’interrogare domani o dopodomani il lustrascarpe del mio albergo che da venti anni trascorre la vita in un bugigattolo in compagnia della lampada misteriosa, per penetrare la prossima volta, insieme con voi, nel mondo cinese dei sogni.

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