Da Haifong ad Hanoi

HANOI, 16 settembre.

Avremmo dovuto recarci in automobile da Hué a Vinh e da questa località raggiungere il Tonkino attraverso le vecchie strade mandarine, ma le pioggie dirotte di quest’ultima settimana hanno ridotto in così cattive condizioni le carrozzabili dell’alto Annara e del basso Tonkino che, arrivati alla frontiera, ci poteva capitare la brutta sorpresa di dover tornare a Vinh o, peggio ancora, d’essere bloccati in aperta campagna dallo straripamento dei fiumi.

Abbiamo perciò approfittato della coincidenza di un piroscafo che partiva per Haifong e siamo arrivati stamane all’alba alla imboccatura del Fiume Rosso dopo due giorni di tranquilla navigazione.

Or aspettiamo che la marea, la quale è pigra in questi paraggi, abbia sommerso il banco di sabbia che sbarra la foce per risalire il corso del Song-Koi, giacché Haifong, come quasi tutti i porti della Cina e dell’Indocina, è situato sul fiume a venti chilometri dalla costa.

Abbiamo lasciato l’Annam in pieno bagliore tropicale, bruciato da un sole tutto fiamme. Troviamo il Tonkino bigio, sotto un cielo ammusonito, con un ventaccio umido da mar del Nord.

Il mare è mosso, terreo, insudiciato da fanghi rossicci che il Song-Koi, il Song-Thai, il Song King-mon, il Song Da-bach riversano incessantemente nel golfo. Sono fiumi capricciosi, d’origine incerta e di corso irregolare, che scorrazzano attraverso i monti e le pianure tonkinesi, a volte imponenti e gonfi d’acqua procellosa, a volte ridotti dalla magra un semplice colaticcio di fango fetente, terribilmente rosso, così rosso da sembrare lo spurgo d’un fantastico macello.

Tra gli altri il Song-Thai ha la specialità di perdersi attraverso le risaie e di sparire. Dov’è il Song-Thai? Non c’è più! Gli agricoltori, ingannati dall’uniformità della campagna allagata, seminano il riso nel letto del fiume, i giunchi, sempre pronti ad approfittare d’ogni palmo di fango, allungano le loro cannuccie verdoline. Poi un giorno improvvisamente, dopo mezza giornata di pioggia in alta montagna, ecco il Song-Thai che ricompare incollerito, si caccia giù nell’alveo con l’impeto d’una cateratta, sbaglia strada, spezza le dighe, inonda campi e villaggi, travolge pagode, ponti e linee ferrate. L’idraulica cinese, che ha creato in Estremo Oriente tante meraviglie, si è arresa di fronte all’incoercibile indocilità del Song-Thai. L’amministrazione francese ha rinunziato ormai a riedificare i ponti asportati dal Fiume Pazzo e li ha sostituiti con zatteroni che effettuano il trasbordo degli uomini e delle merci e che quando il fiume è in crisi s’arenano in una risaia o finiscono nella piazza d’un villaggio.

La pazienza e la leggerezza, che sono i tratti fondamentali del carattere tonkinese, rispondono perfettamente alle condizioni speciali di questa vecchia terra asiatica spazzata dai cicloni e tormentata dagli straripamenti, nella quale i fiumi non hanno un letto stabile e si sbizzarriscono per le campagne, l’inverno è rigido, l’estate ardente, certe volte piove due mesi di seguito o passano cinque mesi senza una goccia d’acqua. I monsoni di nord-vest e di sud-est che negli altri paraggi hanno un corso regolare, s’azzuffano disordinatamente nel golfo del Tonkino, determinando terribili burrasche di vento che infilano a tromba la terraferma e devastano il paese. Frequenti sono sul litorale i cicloni ed i tifoni, ma fortunatamente i servizi metereologi sono in grado di prevederli per la loro speciale formazione e di mettere in guardia i naviganti. Nei villaggi e nelle risaie i «gong» delle pagode annunziano il cataclisma. Bisogna aver sentito l’ululo dei «gong» propagato di villaggio in villaggio attraverso l’atmosfera plumbea del Delta per comprendere la dolorosa poesia di questa terra di fango e di pena.

Le regioni settentrionali sono infinitamente migliori, ma l’indigeno del Delta resta avviticchiato come un lombrico alla sua risaia secolare che è per lui consacrata dal sudore degli antenati e dalla presenza dei morti. Quando le pagode rombano a tempesta, gli abitanti si tappano nelle case ed accendono tutte le luci intorno all’altare degli «spiriti domestici». Mentre il tifone squassa la miserabile capanna, gli incensi salgono verso i Buddha sorridenti e le Tavolette misteriose degli Ascendenti. Nella solitudine dei campi i bambù battagliano coi venti e coll’acqua. Sovente tutti i filari di giunco che definivano lo spezzettamento delle proprietà scompaiono durante la burrasca: resta una distesa d’acqua: ma codici millenarii tramandati di padre in figlio stabiliscono la nuova suddivisione senza bisogno di tribunali. Supremo giudice è la pubblica opinione. E basta questo piccolo esempio, formidabile nella sua semplicità, a dimostrare quale alto grado d’armonia sociale abbiano raggiunto nei secoli queste genti!

Abituati ai cattivi scherzi della Natura, i tonkinesi, quando è finito il cataclisma, rimettono tranquillamente a posto le cose, le risaie ed i fiumi, rifabbricano i villaggi o le dighe, riseminano i raccolti, ricominciano la loro modesta esistenza. Il loro fatalismo è più potente ancora di quello mussulmano. È inutile lottare! È inutile abbandonare il Delta per cercare una terra più benigna sugli altipiani! I genii dei cicloni che si divertono col terrore dell’umanità seguirebbero indiscutibilmente le genti!

Corazzato da questo fatalismo atavico che fa ormai parte del suo temperamento, il popolo tonkinese sorride sempre. S’immaginerebbe una umanità triste, tragica, sopraffatta dall’inesorabilità del Destino: si ha invece dinanzi agli occhi una razza giocherellona che sorride perennemente e che trova in ogni cosa un lato comico. In mezzo alle collere del cielo e del sole, in mezzo alle catastrofiche alluvioni dei fiumi senza letto che coprono di fango intere provincie ed alle furie dei cicloni che precipitano dal mistero delle lontananze ad acciuffare i villaggi, il tonkinese ha constatato durante i secoli che il sorriso dei suoi Buddha di legno e di porcellana era l’unica cosa che sopravviveva sistematicamente a tutte le rovine, sempre, anche quando la pagoda era infranta, anche quando la statua era mutilata. La sua piccola anima ha visto in quel sorriso invincibile un riflesso della divinità e lo ha copiato. Forse nessuna razza è così profondamente compenetrata dell’essenza filosofica del buddismo quanto la tonkinese nella sua incoscienza. Il contrasto stridente fra il broncio della Natura e il beato sorriso delle genti costituisce il fascino di questa bizzarra terra d’oltre mare, fascino sottile che prima si avverte solo vagamente poi finisce per avvincere.

I francesi rimproverano agli indigeni di non pensare al domani, di non aver nessuna nozione del risparmio. Il tonkinese del Delta pensa in cuor suo che al Genio della Tempesta può saltare il ghiribizzo di scaraventare a mare anche le... Casse di Risparmio, e quando ha quattro rupie le spende allegramente a mangiare, bere e far festa. Se gliene avanza, compra tuniche di seta, fa collezione di pipe e di gioielli, s’offre per esempio il lusso d’un bastone d’avorio o di una tazza di giada, tira insomma a campare giorno per giorno nel modo più beato possibile.

Sovente l’europeo rimane sorpreso nel vedere in mano ad un povero boy pezzente come Giobbe una pipa d’ambra e di giada d’alto valore artistico ed intrinseco, oppure nel trovare in una miserabile «paillotte» di contadini un mobilino prezioso di lacca o di madreperla. Il tonkinese s’è procurato l’oggetto in questione all’indomani d’un insolito guadagno o di un buon affare e l’ha pagato senza guardare al prezzo pel desiderio di possedere una cosa bella. La razza ha l’istinto del lusso e del godimento, specialmente di quello tattile. Un tonkinese della plebe gode realmente nel carezzare una stoffa di seta o nel maneggiare un oggetto di avorio. Nelle case dei ricchi le cose più volgari, per esempio la scopa o la sventola della cucina, sono d’elegante fattura, coi manici di legno fino scolpito.

Le case industriali e le aziende agricole europee debbono assicurarsi un numero di lavoratori indigeni doppio del necessario, perchè ogni mattina su cento operai ve ne sono una quarantina che non si presentano al lavoro. Per un motivo loro personale hanno deciso di far festa. E sovente il motivo è semplicissimo: hanno il riso ed il tabacco per la giornata!

Del resto essi hanno a portata di mano il loro paradiso nella pipa d’oppio. Non v’è casolare senza miele nero. Dopo la distribuzione del raccolto e la rovina della risaia il tonkinese chiede alla droga potente la parentesi necessaria alla rassegnazione.

Laos – Case indigene di razza «Thai».
Laos – Donne di razza mongola.

Quando il piccolo semaforo innalza bandiera azzurra il piroscafo imbocca la foce. Risaliamo il fiume per venti chilometri a velocità ridottissima fra due striscie basse di terra gremite di bambù ed orlate di fango rosso.

L’acqua è piena di terriccio e di detriti. A poppa sembra che l’elica sguazzi in una fogna. Tutto il Delta è una colossale risaia che i fiumi hanno conquistato durante i secoli al mare, che gli uomini contendono quotidianamente ai fiumi, terra di sacrificio e di travaglio, triste scenario senza contorno, reso ancora più melanconico dal cielo piagnucoloso.

Piove, cioè non piove, cade il «crascian»! Non sapete cos’è il «crascian» del Tonkino? Immaginate una cosa che non è pioggia e non è nebbia, ma che è le due disgrazie messe insieme: una acqueruggiola fina fina e fitta fitta che casca e non casca, che sta sospesa nell’aria, che vi inumidisce ma non vi bagna, che spinge ad aprire l’ombrello e dopo un minuto a richiuderlo; una specie di bagnato tiepido che dura due o tre settimane, che si caccia in gola e negli occhi, che entra nelle ossa e nei polmoni, che trasforma le strade in una poltiglia, le campagne in una putredine, il colletto in un cencio, il cappello di paglia in una cuffia, gli uomini e le donne europee in una popolazione di nevrastenici.

Il «crascian» è una specialità del basso Tonkino. Nessun altro paese al mondo è deliziato da questa doccia pulviscolare. L’indigeno non vi fa caso, tanto vive già tutto l’anno nell’acqua delle risaie! Un po’ di bagnato di più o di meno non conta. Gli europei invece sopportano male il «crascian». Fortunatamente l’unico centro importante del Delta è Haifong. Hanoi, dove i bianchi sono più numerosi, ha raramente il «crascian», anzi il clima vi è relativamente temperato ed una breve stagione invernale permette agli organismi di tollerare la lunga canicola estiva. Haifong sta press’a poco ad Hanoi come la nostra Massaua all’Asinara.

Fra le due città esiste una vecchia rivalità che risale ai primi tempi della conquista coloniale. Gli abitanti di Hanoi chiamano Haifong «un pozzo di fango abitato dalle teste scariche della colonia», anzi il termine fango è sostituito da una espressione verista, tipicamente francese! I cittadini di Haifong hanno battezzato quelli di Hanoi «lumache» e rimproverano loro di essere tutti parassiti e funzionari che vivono alle spalle del bilancio coloniale. Se Hanoi apre un caffè, Haifong si fa un dovere di inaugurarne uno più sontuoso; se Haifong s’offre il lusso d’un campo di foot-ball, Hanoi butta giù mezzo parco municipale per averne uno più grande.

La rivalità ha dato luce a due Palazzi del Governo che sono uno più brutto dell’altro ed a due mastodontici teatri, assolutamente sproporzionati ai bisogni della colonia, nei quali furoreggiano fra grandi applausi le compagnie francesi di quart’ordine che varcano i mari allettate dall’alto cambio della rupia indo-cinese.

Un vecchio indiano che avevo conosciuto ad Haifong dieci anni fa mi assicura che le cose sono poco cambiate da allora. La colonia soffre soprattutto la mancanza di coloni francesi. L’ottanta per cento dei residenti sono funzionari o militari che aspettano la pensione per ritornare in Francia. La diffidenza dei padroni aggravata dalle disposizioni legislative impedisce l’acclimatarsi di coloni stranieri. Tre quarti delle risorse del paese non sono sfruttate ed i traffici più importanti sono monopolizzati dai cinesi. La politica di collaborazione con gli indigeni adottata su larga scala dal governo coloniale non trova corrispondenza negli abitanti. Al di là della sfera naturale d’irradiazione di Haifong e di Hanoi l’influenza francese è più che altro nominale. Per l’immediata vicinanza dell’Yu-nam è invece assai forte l’influenza della Cina e gli ultimi avvenimenti cinesi hanno intorbidato l’atmosfera politica. Il reddito della colonia è superato dalle spese militari ed il Tonkino grava sul bilancio della metropoli neutralizzando in gran parte gli utili dati dalla Cocincina.

Gli orli sanguigni delle rive ridotti da quattro giorni di «crascian» in un impiastro molliccio si stemperano nel fiume colorandolo sempre più di rosso. I giunchi che a perdita d’occhio annaspano con le lunghe foglie nel vento sembra che chiedano per pietà un bruscolo di sole, di quel sole implacabile che li uccide durante l’estate. Il verde violento dei banani è più lucido e porcellanato che mai. Le risaie si succedono senza fine, grigie, piatte, uniformi.

L’umidità profonda della terra, delle piante e dell’aria si traduce in una specie di sudore freddo e viscido diffuso nell’atmosfera che ci trapassa da parte a parte, ci dà un senso fisico di disagio e di appiccicaticcio, ci empie l’anima di una grande tristezza e di una ansietà senza motivo. Si desidera il sole e le tempeste, la canicola ed i temporali, magari lo schianto d’un tuono e lo scroscio vicino d’un fulmine, qualche cosa che sferzi i nervi e scuota lo spirito.

Niente, invece! Il «crascian» avvolge il corpo in un involucro di chiaro d’uovo e l’anima in un velo di torpore. Le membra fiacche, la testa pesante, l’umore nero, gli abiti incollati, il respiro penoso, la pelle piena di prurigini determinano uno stato paradossale di eccitazione e di sonnolenza.

Si guarda piovere! Attraverso il velario opaco del «crascian» la campagna sembra vaga, senza fisonomia e senza, contorni. Gli alberi sono tristi, le case miserabili. Tutto è sozzo, umido, marcio, slabbrato, corroso dall’umido, disfatto dal fango. La ciclopica putrefazione del Delta finisce per avvinghiare l’anima ed intristirla.

Incontriamo ogni tanto un «sampan» annamita carico di bambù che si lascia portare dalla corrente. Gli uomini di bordo, sdraiati sulle canne, paiono morti. Non fanno un gesto, non hanno un grido... Vanno... Si ha la impressione che la loro rotta conduca l’imbarcazione verso una solitudine di melma che l’inghiottirà nel suo silenzio!

Sulle sponde i villaggetti indigeni con le capanne circolari annidate in mezzo ai bambù hanno l’aria di dissolversi sotto l’acqua. I tetti bislacchi delle pagode stillano pioggia e melanconia. Quando la nave bordeggia si vedono fuori degli usci, sotto le tettoie di giunco, gruppetti di gente immobile e dinoccolata come marionette di gesso dipinto messe lì a sgocciolare.

I campi allagati sono punteggiati di enormi funghi giallognoli. A guardar bene ci s’accorge che non sono funghi, ma esseri umani affondati nel fango fino alla coscia, il capo coperto da un grande cappello di paglia largo come un ombrello, che lavorano la risaia: uomini, donne, ragazzi, tutta una povera umanità che guazza nel limo d’uno stagno perenne. Ogni cosa ha il colore rosso-nocciuola della mota del Song-Koi. Abiti, case, pagode, steccati, tutto è tinto in rosso-nocciuola da un estratto vegetale del paese che dà allo scenario una colorazione uniforme e ne aumenta la tristezza.

E ad una svolta del fiume, Haifong prospetta la sua mole pretenziosa di villaggio-capitale. Manca il grande decoratore dell’Estremo Oriente, il sole. Una sfilata di caserme costituisce il frontone dell’emporio tonkinese. Il porto è fantasticamente dominato da un grosso veliero colle vele cadenti ed il sartiame sgocciolante che erge in mezzo a tanta morte le tre Croci dei suoi alberi. Grosse nubi galoppano verso nord. Sui pennoni degli edifizi doganali le bandiere della Repubblica, macerate dal «crascian» penzolano dolorosamente.

Poca gente aspetta il piroscafo.

Il trenino Haifong-Hanoi sbofonchia sotto il «crascian» attraverso le risaie ed i bambù.

Ogni tanto una pagoda innalza sul grigio dell’acqua un tetto beffardo di porcellana rossa ed un campanile squilibrato. Reggimenti e reggimenti di giunchi segnano il passo lungo i canali e le dighe, alti, magri, scompigliati dal vento.

Pian piano dal paesaggio d’acqua e di mota si sprigiona un fascino sottile e doloroso. Le palme arec, smilze e contorte, aprono le loro magre braccia dinoccolate in mezzo alla solitudine. Stormi di uccelli bianchi roteano perdutamente sui pantani. Certi alberelli gobbi e deformi, appena forniti d’un piumetto di foglie, lottano comicamente contro il vento.

A contemplare il cielo di pece che piange senza requie le lagrime ipocrite del «crascian» ed i giunchi che ripetutamente rabbrividiscono, lo spirito ha quasi la rivelazione di quelle «forze malefiche» che costituiscono il fondo metafisico della religione tonkinese. Quasi si direbbe che esse sono presenti, intente alla loro opera di malefizio! Certe nubi basse e bizzarre, evocano la figura dei draghi che digrignano sui frontispizi delle pagode e sui labari gialli del Tonkino, altre riproducono la forma stramba dei torcieri e dei mobili annamiti. I bambù che starnazzano in mezzo al vento fanno pensare ai personaggi interroriti delle lacche nazionali ed alle smorfie dei ninnoli tonkinesi. V’è uno straordinario rapporto fra l’aspetto della Natura e le forme dell’arte indigena.

Se uno si lascia dominare dalla seduzione del paesaggio, finisce per comprendere anche le pagode inverosimilmente sbilenche, le porte che smorfieggiano, le finestre sbilanciate, le tettoie accartocciate, gli archi contorti, i frontoni messi di traverso, i tetti che fanno le corna allo spazio, i campanili a lisca di pesce che pigliano a gabbo l’infinito, tutte le incongruenze architettoniche e le stravaganze artistiche del Delta tonkinese. Sono la riproduzione nel legno e nella pietra del sorriso nazionale, il riflesso di quella sottile ironia filosofica con cui l’anima indigena accoglie le collere degli elementi, gli scherzi della storia ed i programmi della colonizzazione europea.

Quando in mezzo allo sconquasso di un ciclone, il piccolo uomo giallo del Tonkino abbandona la casa e la risaia tenendo stretta in pugno la sua pipa d’oro e di giada che vale quanto tutta la casa, egli sorride, perchè sa che i venti e le nubi sono impotenti contro l’eternità della risaia, perchè sa che se salva la vita salva anche la pipa, sua principale ricchezza, e... prende in giro il Destino.

Il broncio della terra ed il sorriso delle genti si fondono in una grande smorfia, ambigua ed indefinibile, che imprime il suo suggello a questa contrada d’oltre mare; alle sue pagode ed alle sue donne, ai suoi ninnoli ed ai suoi ordinamenti politici; smorfia che finisce per illuminare di una stramba bellezza anche il tramonto livido di un giorno di «crascian», anche il profilo bislacco d’una pupattola di Hanoi.

Fra uno stagno ed una palude il trenino si avvicina alla capitale dell’impero francese d’Estremo Oriente. La locomotiva fischia ad una pagoda rossa e grottesca che inarca sui giunchi la sua sagoma tentacolare d’aragosta bizzosa. Più lontano un mulino a vento zeppo di draghi fa roteare il suo fantastico disco di mostri e di pagliacci. E sfioriamo le staccionate dell’ippodromo di Hanoi.

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