Nella baia d’Along

HONGHAI, 19 settembre.

Nella baia d’Along vi sono le miniere di carbone di Honghai e v’è un servizio di battelli-mosca ad uso dei «coloniali» che vogliono far merenda la domenica su uno scoglio!

V’è anche un progetto dell’Ammiragliato francese di trasformare la baia in una grande base navale, la più grande dell’Estremo Oriente, progetto di cui si sono spesso occupati con minuziosa competenza i tecnici dell’... Ammiragliato russo e gli esperti dell’Ammiragliato giapponese!

Vi sono diverse altre cose moderne nella baia d’Along ed un giornalista di buona volontà potrebbe scovare facilmente in una delle tante case indigene del «villaggio dei pescatori» uno di quegli annamiti che parlano correntemente francese e che conoscono tutte le sfumature della politica coloniale di associazione, il radicale franco-annamita Ban-Son, per esempio, ed il radico-socialista Hoi-Gan....

Ma checché ne pensino certi critici che hanno la mania del positivo e che storcono il naso dinanzi ad ogni evocazione di pagode e di parasoli, uno scrittore non va nella baia d’Along per misurare la profondità delle miniere nè per sentire l’elogio del deputato Varenne, ma per... cercare il Dragone; sicuro signori, per scovare nelle nubi e nelle caverne, fra gli scogli e gli isolotti, magari nei riflessi dell’atmosfera e nei riverberi dell’acqua la coda od un’ala del Dragone; del Dragone della Cina e dell’Indocina che digrigna i denti sulle prue di tutte le giunche e si contorce sui frontoni di tutte le pagode, che schizza fiamme d’oro sulle tuniche ricamate dei mandarini e bava d’argento sui parasoli dipinti dei Tong-doc, che nelle commedie cinesi sostituisce il Caso od il Destino, che nella commedia quotidiana della vita gialla rappresenta tutte le cause di forza maggiore di fronte alle quali gli uomini debbono inchinarsi con umiltà e rassegnazione.

Molti hanno cercato ad Along il Dragone, qualcuno come Loti ha avuto anche la fortuna di vederlo! Altri invece, poveretti, sono passati per la baia senza vedere neppure un bargiglio del suo ceffo furioso nè un guizzo della sua coda di fuoco ed hanno concluso che il... Dragone non c’è. Eppure i libri dei filosofi annamiti e dei saggi cinesi assicurano in versi ed in prosa con l’attestazione concorde d’oltre due millenni che il Dragone ha la sua tana nella baia d’Along!

Nella necessità di divinizzare in qualche modo il fattore climatico che ha esercitato tanta influenza sulla formazione della razza e sullo svolgimento della sua storia, l’Asia continentale gialla ha ideato il Dragone, essere favoloso che non esiste in nessun’altra mitologia. Non è il semplice drago dei celti e dei germanici, mostro secondario incaricato nelle fiabe e nelle leggende di difendere per conto d’un mago o d’una fata l’ingresso d’una caverna od il possesso d’un tesoro, ma è la divinità suprema della collera, il simbolo delle furie ancestrali che determinano i cataclismi, l’esponente delle forze cieche della Natura che sconquassano la terra e si ridono delle opere difensive degli uomini, il Dio pazzo e burlone dei tifoni e delle tempeste, dei cicloni e dei terremoti, delle inondazioni e delle epidemie.

Se il Dragone dei cinesi e degli indo-cinesi è mai esistito, la baia d’Along doveva essere senza dubbio la sua fantastica reggia. Il luogo è degno del mostro nel quale le genti del Fiume Rosso, del Fiume Nero e del Fiume Giallo adorano le stravaganze della Natura, l’esuberanza dei loro fiumi che straripano periodicamente con impeto torrenziale coprendo di fango intere Provincie, la furia dei cicloni che sbalestrano i villaggi, la violenza delle epidemie che spazzano gli uomini a centinaia di migliaia, i flagelli delle guerre civili che insanguinano il paese durante l’esistenza d’una intera generazione, tutto ciò che in queste terre v’è di eccessivo e di smisurato nelle rabbie degli elementi e negli odii degli uomini.

Il formidabile contrasto esistente fra le crisi della Natura e l’imperturbabile serenità delle genti spiega il ghigno beffardo del Dragone, ghigno di cattiveria, ma anche un po’ di dispetto, perchè, nonostante i tiri birboni giuocati alla razza, essa continua a lavorare pacificamente la terra ed a moltiplicarsi. Uno stesso contrasto costituisce il fascino della baia d’Along.

Immaginate un’immensa baia tutta seni e promontorii che in certi punti è così chiara da sembrare un lago, capace di contenere nel suo specchio d’acqua tutte le flotte mercantili e tutte le squadre del mondo: un’acqua tranquilla e piatta che nelle insenature più riparate diventa quasi oleosa. Nessuna tempesta riesce mai ad increspare questi fantastici laghi marini preclusi a tutti i venti, protetti contro i cicloni dal cerchio spesso delle loro montagne, oasi di perpetua bonaccia, create dalla Natura nella zona frenetica delle burrasche e dei monsoni, dei tifoni e delle trombe marine.

Una straordinaria pace dovrebbe sprigionarsi dalla conca immobile che da tempo immemorabile riflette nel suo cristallo lucente il sorriso delle albe e la gioia dei tramonti, ma vi ha abitato il Dragone beffardo il quale, tanto per fare qualche cosa, si è divertito a squassare le montagne, a fracassare i picchi, a sfondare i fianchi dei monti, a prendere in fondo alle loro viscere rupi e macigni e buttarli a manciate nella baia. L’acqua è seminata di migliaia e migliaia di scogli aguzzi e tormentati che conservano le traccie d’una fantastica battaglia; scogli che una volontà ironica ed onnipotente immobilizzò mentre s’azzuffavano nello spasimo d’un cataclisma; che sono rimasti come si trovavano in quell’attimo tragico, tutti contorti e procellosi, neri e sinistri, sminuzzati e convulsi; alcuni ancora allacciati nell’amplesso titanico della pietra che si dilaniava; altri in bilico sull’acqua, sollevati paradossalmente da un sostegno invisibile, fermati nell’istante dello schizzo e dello sbaraglio.

Dovevano essere in quel momento di parossismo allo stato di fuoco e l’acqua doveva trapassarli col suo impeto perchè sono tutti traforati, alcuni vuotati del loro contenuto come un osso senza midollo, altri ridotti una semplice arca a cavaliere del mare, od un groviglio di cordame pietrificato senza forma e senza senso.

Il Dragone si è divertito a dare a molti scogli e macigni la forma degli uomini e delle loro cose, tanto dell’Oriente che dell’Occidente, quasi a significare che se volesse potrebbe ballare la furlana sulla torre Eiffel e sulla colonna di Nelson, sui grattaceli d’America e sulle Piramidi d’Egitto. E non c’è bisogno, come in altri luoghi, che la guida vi suggestioni a forza mostrandovi uno scoglio colla testa di leone od in feluca di ammiraglio. Qui la scultura ancestrale è d’una rassomiglianza lampante. Non si tratta di vaghe affinità, ma di disegni precisi. Ecco la giunca con le vele, la quale non può essere che una giunca con le vele! Ecco i draghi, la tigre, il gorilla pensoso, le pagode, gli archi trionfali, la cattedrale gotica, gli elefanti al galoppo, il mandarino col parasole, l’anfiteatro romano, le piramidi di Saccarah, il Tempio della Luna di Bangok...

Anche i più difficili debbono riconoscere nella baia d’Along una delle meraviglie della terra. Le mirabili descrizioni che ne hanno fatto tanti poeti dell’oltre mare in innumerevoli letterature non tolgono nulla alla magnificenza dello scenario. Ogni ora del giorno ha una sua luce e quindi un suo fascino. La baia d’Along può sembrare infinitamente triste come pazzamente allegra. Basta un riflesso di sole per cambiare lo sfondo del quadro.

A me è capitata una giornata coperta, non troppo, appena velata da nubi bianchiccie ed altissime. Il sole è intercettato dalle nuvole, ma la sua luminosità irrompe con violenza attraverso il velario. Nessun raggio riesce ad aprirsi un varco fino alla baia, ma tutti i raggi vi proiettano la loro luce resa opaca dallo schermo.

L’acqua calmissima sembra un’immensa lastra di zinco sulla quale un pittore si sia divertito a spennellare tutta la gamma dei bigi, dei grigi e degli acciai, dai più chiari ai più cupi, dai più accesi ai più smorti. Grandi dischi d’argento sfolgorante chiazzano qua e là la baia. Si ha piuttosto l’impressione d’un plenilunio, ma d’un plenilunio sconosciuto al nostro globo, riservato ad altri pianeti che sono più vicini ai soli ed alle stelle.

La nostra scialuppa s’insinua fra porto Baiardo ed isola della Sorpresa nel canale dei Pirati. Per circa due ore vaghiamo fra scogli straordinariamente neri o straordinariamente bianchi, penetriamo dentro misteriosi anfiteatri che ci accolgono nella loro ombra tragica, rasentiamo una coorte di mostri marini che sporgono fuori dall’acqua i musi affilati e bavosi, siamo per un momento prigionieri d’una pazza sarabanda d’animali preistorici, poi lo scenario aumenta di solennità e si viaggia fra cattedrali in rovina e castelli diroccati per finire in mezzo ad un consiglio ecumenico d’archimandriti mitrati.

Quando ci avviciniamo alla terra ferma vediamo le fiancate di calcare che precipitano a strapiombo a mare, tutte scavate di grotte e di caverne che furono per secoli e secoli i covi invulnerabili di molteplici generazioni di pirati, terrore dei mari di Cina e dei fiumi di Indocina. All’ingresso degli orifizi l’acqua ha il lampeggiamento cupo del bronzo. Certe volte s’entra in un cunicolo fra due scogliere credendo di passare dall’altra parte: il cunicolo diventa invece una galleria coperta che sfocia in un laghetto misterioso, il quale, con un cielo sereno, deve eclissare lo splendore di tutti gli smeraldi, ma col cielo smorto di oggi ha la pesantezza opaca d’un catino pieno di mercurio.

Vi sono scogli appena a fior d’acqua e scogli che s’innalzano fino a duecento metri. Qua ammassi di rupi cilindriche fanno pensare alle torri d’una metropoli sepolta, più in là una fila di roccie stranamente scavate dalle onde sembra una serie di archi trionfali adornanti una strada sommersa; a destra un Napoleone in feluca e panciotto bianco domina la frenesia d’una furibonda battaglia navale, a sinistra un tempio indiano zeppo d’idoli e d’elefanti invita le genti a cercare la statua di Siva.

Certo se uno si limita alla passeggiatina in formato ridottissimo delle scolte del «Servizio Turistico», pigiato la domenica in mezzo ad una folla di coloniali a diporto e di famiglie con la merenda, la visione di Along perde tre quarti della sua magnificenza. Ciò spiega forse come qualche viaggiatore si sia sentito recentemente in dovere di gettare un po’ di sarcasmo parigino sugli entusiasmi tradizionali suscitati dalla baia del Dragone. Per certi scrittori e giornalisti del tipo alla moda, l’arte consiste nel fugare con quattro banalità i fantasmi secolari d’un luogo. Nel caso di Along basta evocare con facili spiritosaggini le quotazioni in Borsa delle miniere di carbone di Honghai o descrivere la tolda del vaporino domenicale gremito di funzionarii con la lenza e di balie coi marmocchi per raggiungere l’effetto. Padronissimi del resto! Finchè mondo sarà mondo di fronte a qualsiasi spettacolo della Natura vi saranno sempre due categorie di spettatori, quelli che s’entusiasmano e quelli che sbadigliano, Io ringrazio Iddio d’appartenere ai primi e provo una infinita pietà pei secondi.

Un, vecchio marinaio annamita, giallo e taciturno, guida la mia scialuppa ed ogni tanto spegne il motorino pettegolo per non disturbare i fantasmi che escono dalle caverne e si staccano dalle roccie...

È questo un grande scenario romantico per leggende di terrore e per fiabe di spavento, popolato dagli spettri dell’Annam decrepito e della Cina quadri-millenaria. Ognuna di queste caverne ha una sua misteriosa storia che nessuno conosce, storia di corsari, d’assalti, di prigionie, di torture e di gozzoviglie. Tutti i poemi dell’Annam cantano le glorie e le infamie della baia d’Along. Principi imperiali e potenti mandarini hanno finito i loro giorni in mezzo a questi scogli servendo da sgabello ai filibustieri del Fiume Rosso. Nessuna traccia indica l’esistenza di abitazioni umane. La Natura forniva prodigalmente agli avventurosi abitanti della baia reggie e prigioni, circhi e piscine.

Se io fossi un miliardario americano, uno di quei fortunati mortali d’oltre Atlantico che hanno le loro ricchezze magicamente quadruplicate perchè altri popoli si trovano in gloriose ristrettezze, vorrei che nascosta dietro le rupi una formidabile orchestra suonasse per me le più indiavolate orchestrazioni del gigante Wagner e le più travolgenti sinfonie del gigante Verdi! I mille echi delle roccie e delle caverne vi aggiungerebbero il loro rombo ancestrale, quasi che in fondo agli abissi il Dragone mugghiasse d’ebbrezza e le sue ali battessero il tempo delle danze vertiginose dei serpenti marini!

Tutte le roccie sono nude. Solo qua e là s’erge – fosco e solitario – un cipresso di Cina od un ananas selvaggio apre a mezzo d’una rupe il ciuffo contorto ed ischeletrito dei suoi rami spinosi.

La scialuppa entra per un portale gotico nell’interno d’una cattedrale evangelica, infila un canale freddo fra due pareti di roccie che sembrano galleggianti, fa provvista d’aria e di luce nella corte allagata di un castello medioevale poi penetra nelle viscere stesse della montagna dentro un budello di tenebra in fondo al quale un disco di platino s’ingradisce e s’ingrandisce... e ci troviamo in un tempio d’India! Fatto dagli uomini o dalla natura? Chi può dirlo? V’è nella roccia l’abbozzo ciclopico d’una testa di Brahma, vi sono cento simulacri d’idoli incolleriti, le gradinate monumentali dei Gath di Calcutta e di Benares, in fondo una spiaggetta inverosimile, formata dai millennii nell’interno d’un grande scoglio, striscia d’ocra argentata dai frantumi microscopici delle conchiglie. Dall’alto il cielo lattiginoso versa nell’imbuto fantastico il pianto della sua luminosità livida ed opaca.

Il silenzio è assoluto. Nessun brivido d’aria e nessun fremito di acqua turbano la pace dei nascondiglio.

Quanto tempo restiamo qui? Non so, molto certo, perchè io scrivo interamente questa mia sotto lo sguardo impassibile dell’annamita che fuma con sbuffi lenti e regolari la sua pipa d’arec. Chissà che cosa pensa il giallo nella sua profonda saggezza vedendomi riempire nervosamente di sgorbi fogli e fogli di carta? Avrei forse fatto meglio a sdraiarmi anch’io come lui sulla spiaggetta d’ocra e d’argento e sorseggiare la voluttà di una solitudine così infinita. Non siamo solamente lontani dal tumulto della vita ma totalmente isolati dalla vita stessa nell’interno d’uno scoglio che è sospeso sul mistero degli abissi. È questa una vasca scavata nella roccia oppure l’acqua arriva fino alle profondità della baia? Siamo forse dentro un bizzarro anello di sasso, in bilico fra mare e cielo! Che cosa lo sostiene? Tutta l’immensità del mare è ridotta per noi ad un laghetto di trenta metri, tutta l’immensità del cielo ad un disco lontanissimo di bambagia.

— Dove siamo? — chiedo al giallo.

Laos – Rovine di un tempio nella foresta.
Gwalior – Mura del palazzo Nan Sing.

— Nella casa del Dragone, — mi risponde.

Poi, dopo una lunga pausa aggiunge: — Qui lo aspettavano le donne rubate dai tifoni e dai maremoti nei villaggi...

Pian piano rifacciamo in senso inverso la strada d’ombra fino alla corte allagata del castello medioevale, rientriamo nel canale delle roccie galleggianti, ripassiamo sotto le navate della cattedrale nordica fino al portale gotico.

Riecco la baia d’Along!

Ma l’ora è cambiata. Un tramonto formidabile empie del suo fuoco la reggia del Dragone. Prima di morire il sole è riuscito a spezzare l’involucro delle nubi ed ora si vendica della prigionia del giorno mitragliando furiosamente il cielo ed il golfo. Le nubi sgominate ed incalzate da venti improvvisi fuggono in disordine verso le lontananze. Altre nubi in fuga sopraggiungono dal fondo dei monti passando veloci sulla baia. Non tutte scappano però, che due o tre nuvoloni più bassi affrontano le collere del vento ed il bombardamento del sole, enormi masse d’acciaio listate d’oro turgido e solcate di lampi violacei.

Il giallo ed il rosso sono i colori dominanti dello scenario in fiamme, un giallo zafferano ed un rosso lacca, entrambi prepotentemente cinesi che fanno sì che questo cielo non somigli a nessun altro.

Ora la scialuppa fila veloce fra gli scogli per guadagnare l’uscita della baia prima del crepuscolo. Ogni tanto l’annamita interroga il cielo coi suoi occhietti di smalto. Una lunga ruga gli taglia in due la fronte sporgente. Forse ha veramente paura del Dragone o non vuole farsi sorprendere dalle tenebre nella baia?

Dalla parte dove sono situate le miniere di carbone di Honghai le montagne e gli scogli sono neri, orlati dal sole morente di gialli cupi e malvagi che evocano la peste e la quarantena. Dalla parte opposta invece le scarpate di calcare che franano a mare hanno la lucentezza bianca del marmo e gli scogli ardono come roghi. Su una rupe a forma di piramide che arde pazzamente in direzione del sole s’erge nero e sinistro un alto cipresso.

Un gran tappeto di topazi e di rubini ascende lentamente dalle profondità della baia fino a livello dell’acqua...

Faglioni alti duecento metri chiazzano la rada di macchie verdi. E le loro ombre camminano sul mare come fantasmi di città sepolte. La scialuppa scivola su misteriosi riflessi di cupole, di campanili e di guglie. Le vele della «Giunca» trapassate dalle freccie d’oro hanno la grazia fragile delle stuoie di bambù adoperate dai «sampan». Napoleone lascia la giacca d’Austerlitz ed il panciotto di Marengo per indossare un abito imperiale di velluto scarlatto; la roccia della Cattedrale e lo scoglio delle Colonne accendono tutti i loro ceri pel Vespro solenne. Sembra che sugli orifizi delle grotte dei pirati mani magiche stiano intassando i tesori delle razzie e delle catture.

La Grotta delle Meraviglie ha voluttuosi sbadigli d’oro. Mille bengala bruciano nella Grotta delle Perle. Dietro le piramidi di Saccarah balenano gli steli fragili della moschea di Mohammed Aly.

E s’aspetta il Dragone.

Dove il sole affonda una nube fantastica che ha la colorazione sinistra del cannello ossidrico, muta vertiginosamente forma ad ogni istante. Pare che il vento voglia portarla via e che il sole la trattenga. Ora la nuvola s’allunga ora si raggomitola, si sfilaccia e si ricompone, evapora e si riforma, salta, guizza, serpenteggia. Due occhi verdi folgorano in mezzo alla battaglia. L’orizzonte è dominato dalle sue contorsioni diaboliche. Tutta la baia cambia fulmineamente di tinta a seconda che la nuvola si scosta dal sole morente o si rannicchia contro l’astro.

La scialuppa fugge sull’acqua solitaria verso l’uscita della rada.

Poi il sole, ridotto uno spicchio di brace, abbandona al vento la sua preda che esplode in una grande vampa di razzi gialli e violetti. Si ha quasi meraviglia di non sentire il rombo immane dello scoppio. Resta un fumo luminoso striato di piccoli lampi...

Anche nelle foreste annamite i dragoni di seta e di carta scoppiano improvvisamente in una fiammata quando più ardente è l’entusiasmo della folla e più frenetiche impazzano le danze.

Share on Twitter Share on Facebook