Grandezza e miseria di un Imperatore d’Asia

HUE’, 3 settembre.

L’imperatore del Sud Pacifico è uscito in gran pompa dal Palazzo degli antenati per recarsi alla Pagoda di Confucio.

I cannoni francesi hanno annunziato con ventun salve equidistanti la partenza del corteo. Il lampeggiamento dei colpi si è perso nell’abbagliante luminosità del mattino.

Ora i «gong» delle pagode che rombano con vellutata dolcezza, comunicano alla moltitudine che comprende il loro recondito linguaggio le fasi della cerimonia.

— Sono uscite le Colonne del Trono!

— Il primo mandarino è passato sotto l’arco della Vittoria Splendente!

— Il Figlio del Cielo è salito sull’elefante bianco dell’Annam.

La folla sa, la folla capisce. Noi vediamo solo una moltitudine che aspetta e quando vedremo spuntare l’avanguardia del corteo diremo semplicemente:

— L’imperatore è qui!

La folla accompagna invece con lo spirito l’itinerario della processione imperiale: sa quanti minuti intercorrono fra un arco ed un altro, fra il ponte e la piazza, fra la pagoda del grande Buddha ed il tempio dei Genii: quanti inchini spettano a questa nicchia ed a quella statua, quante volte l’elefante bianco deve fermarsi prima di giungere dinanzi alla Pagoda delle Pagode. Tutto è regolato nei più minuti particolari da un rito preciso. E la folla è al corrente del cerimoniale quanto i più esperti maggiordomi del Palazzo. Forse lo spettatore annamita non sa leggere, forse non saprebbe dire con precisione la sua età, ma sa che il giorno del Dragone l’imperatore ha diritto a duecento sessanta parasoli e venti elefanti, che tredici baldacchini debbono seguire la lettiga imperiale, che nel terzo carro le ballerine sono dodici e nel quinto il Grande Bonzo è circondato da sedici accoliti coi turiboli, che il manto del re è quello dell’imperatore guerriero Già-Long mentre la mitra è quella dell’imperatore letterato Mihn-Mang.

Quando il sovrano vuol comunicar qualche cosa al suo popolo – un ordine, un avviso, un incoraggiamento – non ha bisogno di chiedere il permesso al rappresentante della Francia. Basta che durante il corteo sia omessa una fermata o che siano raddoppiate le riverenze dinanzi ad un determinato simulacro perchè la moltitudine intenda. Il linguaggio segreto dei secoli fra sudditi e re sfugge alla più ferrea censura. Allorché nel 1916 Duy-Tan entrò nella famosa congiura tedesca che doveva scacciare i francesi dall’Indocina, gli abitanti di Hué furono informati della decisione imperiale da un semplice rito apparentemente innocuo che il sovrano celebrò dinanzi alla tomba dell’imperatore Tu-Duc. Se un ufficiale meticcio non avesse tradito i congiurati la Residenza sarebbe stata sorpresa dalla rivolta.

Vecchi di cartapecora con un piede già nella tomba e piccole donne di porcellana sfiancate innanzi tempo dalla quotidiana fatica, hanno trascorso la notte in strada per assicurarsi un posto avanti, dietro la linea immobile dei soldati scalzi. Sono qui da ore ed ore. Aspettano: per vedere il corteo sfavillante di ori e di stendardi nel quale ogni anno rivive il vecchio Annam leggendario dei tempi eroici, per contemplare un momento in tutto lo splendore della sovranità divinizzata il Figlio del Cielo con la corona del Dragone dai cinque artigli.

Gli immensi cappelli di paglia dei soldati, larghi come un ombrello, decorano fantasticamente di chioschi lillipuziani le strade e le piazze. Certi alberi sembra si siano aperti la notte ad una straordinaria fioritura umana tanto sono zeppi di bimbe agghindate come bocciuoli e di ragazzetti in fronzoli. Le campagne e la costa hanno mandato le loro genti coi caratteristici costumi del litorale e delle provincie. Fino i più lontani distretti hanno un mandarino ed un seguito che li rappresenta. Le corporazioni artigiane sono riunite intorno all’emblema del mestiere: una scarpa, un pesce, un mobile, una forbice, tutto di proporzioni enormi e di cartapesta dorata. Le deputazioni dei villaggi Kas e quelle dei Mois semi-selvaggi dell’altipiano, raccolte all’imboccatura del Ponte dei Profumi, spiccano pel contrasto fra i ricchissimi abbigliamenti dei mandarini in mitra e pastorale e la fiera nudità muscolosa dei capi Mois armati di treccie e di faretra.

I parasoli policromi dei bonzi e quelli bianchi dei letterati, danno alle strade la bizzarra parvenza d’un pittoresco accampamento. Qua e là un baldacchino a tre od a sei ombrelli soprapposti indica la presenza di un alto dignitario. Vestiti e parasoli hanno colori crudi che colpiscono l’occhio. Bandiere gialle, verdi, violette, soprattutto gialle, sventolano a tutte le finestre. Grandi draghi di cartapesta ghignano ai balconi o danzano in mezzo alla folla in cima ad una pertica con buffi contorcimenti dei lunghi corpi di seta. Festoni d’erba e di carta colorata sono tesi fra casa e casa. Stoffe sgargianti pendono dalle finestre. Migliaia di lampioni e di palloncini danno un festoso aspetto di carnevale alla capitale di solito addormentata ed austera. Il vento è blando, quasi abbia rispetto per le pezze e la carta straccia dell’impero.

Nel giorno del Dragone Hué chiama a raccolta tutti i suoi figli e le sue bandiere. Vi sono vessilli nuovi fiammanti che incominciano appena oggi la loro modesta carriera, altri invece sono vecchi, laceri, stinti dai secoli, tolti per l’occasione dalla prua d’un «sampan» decrepito, dall’albero di una giunca centenaria, dalla nicchia di una lontana pagoda dimenticata in fondo ad un villaggio.

Questo straccio rosicchiato ha sventolato in testa agli eserciti invincibili dell’imperatore Jaja Harivar quando l’Annam dominava il Camboge, il Tonkino ed il Laos; questo sbrendolo giallo fu issato sulle mura di Hanoi dai cavalieri violetti di Gia-Long; v’è un drappo azzurro con un elefante d’oro che era l’insegna del re del Siam e sventolava in cima alla grande torre d’Angkor-Vat...

Così assicurano almeno gli annamiti che mi sono d’intorno e che mi usano riguardo perchè saluto i loro cenci colorati!

E l’imperatore è passato. Non in mezzo ad una scorta di guerrieri come i despoti delle Indie, non al galoppo di un brioso cavallo fra scintillar di lancie e sciabole, ma lentamente, a passo d’uomo, portato a spalla dentro un palanchino di lacca azzurra dai ministri e dai marescialli: è passato in mezzo ad un visibilio di parasoli e di ventagli, di turiboli e di orifiamme, alto sulle genti genuflesse e la loro fede, come trasportato dal rombo dei «gong» e dal tambureggiamento dei tam-tam in una atmosfera di sogno, il sogno d’un popolo...

Ha lasciato una scìa d’incenso e di salmi, una gran folla in ginocchio, un tappeto di fiori...

Dinanzi alla lettiga imperiale incedeva placido e solenne l’elefante bianco del Siam, simbolo di antiche glorie. Seguiva il baldacchino a nove parasoli d’oro terminato con la freccia di Angkor che rammenta altre vittorie dell’Annam sul Camboge, sulla Cina, sui birmani. V’erano i palanchini vuoti dei monarchi assoggettati durante i secoli dagli imperatori del Sud Pacifico. L’impero che più non esiste ma che teoricamente è ancora in piedi, era rappresentato nel corteo dagli emblemi dei regni non più vassalli e degli Stati che sono scomparsi.

Il re dell’Annam che si e no comanda nel recinto del suo palazzo appariva, attraverso la coreografia del corteo, imperatore di tutta l’Indocina, signore del Siam, del Laos, dell’Yunam, del Camboge, del Mekong e del Fiume Rosso, fastoso e potente autocrate d’Asia!

Ed il popolo lo adorava come tale, e si curvava al suo passaggio come un campo di biade piegato dal vento.

S’inchinavano i draghi, gli ombrelli e le bandiere. Suprema ironia, s’abbassavano anche i tricolori di Francia!

I palloncini liberati s’innalzavano a riempire il cielo di fiocchi colorati in mezzo ai quali due aeroplani francesi infiammati dal sole disegnavano guizzi di fuoco e d’argento.

Tra l’elefante bianco ed il palanchino azzurro, un bonzo recava le insegne dell’autorità sovrana, diverse da quelle di tutte le altre dinastie del mondo: un libro ed una pipa: lo studio e la meditazione.

— Avete visto l’imperatore? mi ha chiesto un’ora dopo un vecchio colono che da trent’anni abita l’Annam.

— Sì, sembrava veramente una divinità...

— Sono tutti così. Noi crediamo di tenere in pugno il monarca ed i sudditi, d’avere nel primo un fedele funzionario ben pagato e nei secondi una docile folla di soggetti. Basta però che i bonzi tirino fuori dai ripostigli delle pagode i loro cenci gialli ed i loro draghi di cartapesta perchè ci accorgiamo di avere in mano un bel niente. Il vero Annam è questo d’oggi, l’altro quello dei giornali collaborazionisti e del «loyalisme annamite» serve agli indigeni per arricchirsi ed ai funzionarii bianchi per far carriera. «N’en parlon pas»! L’attuale imperatore è stato scelto a casaccio dal Governo francese nel 1917 in mezzo ad una pleiade di principotti dopo la rivolta dell’imperatore Duy-Tan. Duy-Tan fu scelto anche lui a casaccio dopo la deposizione dell’imperatore Tan-Tai. Fabbrichiamo come vedete fantocci imperiali a serie. Adesso ne abbiamo uno a balia a Parigi. Sapete come fu eletto Duy-Tan? È storia abbastanza fresca ed è di attualità nel giorno del Dragone. Ventun colpi hanno tirato stamane i cannoni del forte Garnier e ventun volte ho visto il mio boy aprire le sue labbra sottili di giallo ad un formidabile sorriso. — Allora Duy-Tan?

— Ero capitano medico in quel tempo, oggi fabbrico saponi. L’imperatore Tan-Tai che non voleva più saperne di restare a Palazzo ad obbedire al Residente ne faceva di tutti i colori per farsi cacciar via: andava al mercato vestito da facchino, rubava galline nei pollai, si tuffava nudo sotto il Ponte dei Profumi, obbligava i ministri a cantargli le canzonette di Montmartre. Il Governo francese lasciava correre per non turbare la linea di successione ed i sudditi dicevano: l’imperatore sa quel che fa! Alla fine Tan-Tai si finse pazzo, affetto dalla manìa di fare il chirurgo ed aprì il ventre a due o tre ballerine. Allora Parigi ordinò telegraficamente l’abdicazione. Quella sera stavo facendo una partita alla «pelotte» col mio maggiore quando il telefono ci chiamò alla Residenza per un affare urgente. Dalla Residenza s’andò a Palazzo dove il governatore aveva riunito in una stanza tutti i figli dell’imperatore, i legittimi e gli illegittimi, una vera conigliera, e ci disse con solennità: «choisissez moi le nouveau empereur de l’Annam! Dans une heure je dois cabler à Paris le nom du successeur!».

Due guardie acciuffavano i principotti, ne spogliavano uno per volta e ce lo tenevano dinanzi. La maggior parte urlava come dannati. Il maggiore li squadrava, li palpava e me li passava con le sue osservazioni: dentatura guasta, scartato; grandi orecchie e sguardo sfuggente, tipo degenerato, scartato; tutto il ritratto di suo padre, scartato; tubercoloso, scartato; varicocele, scartato; cretino assoluto, scartato. Messi fuori concorso i sette figli legittimi si passò agli illegittimi, una trentina. E fra questi fu scelto l’imperatore Duy-Tan che aveva otto anni, dentatura sana, polmoni in buon stato e poca rassomiglianza col suo augusto genitore.

L’incoronazione ebbe luogo tre giorni dopo. Vi andammo col maggiore per curiosità. E sapete cosa vedemmo?

— Cosa?

— Vedemmo entrare in un palanchino azzurro in mezzo ai parasoli ed agli incensi la medesima divinità che voi avete visto oggi, una specie di idolo carico d’oro, quasi schiacciato sotto il peso dell’enorme corona scintillante di smeraldi; un idolo alto si e no un metro, che guardava sdegnosamente la folla con due occhi di smalto, straordinariamente profondi e straordinariamente imperiali. Una forza istintiva ed inesplicabile ci fece inchinare dinanzi a Colui che avevamo scelto tre giorni prima tastandolo come un montone al mercato. Trentasei ore erano bastate per trasformare quel moccioso in una di quelle simboliche immagini d’Estremo Oriente di fronte alle quali il nostro spirito occidentale resta perplesso tanto sono cariche di maestà e di mistero!

Nel 1917 Duy-Tan fu deposto a sua volta per un tentativo di ribellione contro l’occupazione francese. Un colonnello medico ha scelto tra i nostri rifiuti del 1905 l’attuale imperatore.

Il discorsetto dell’ex capitano che ora fabbrica saponi tipo Marsiglia e tipo Maiorca non era certo una buona preparazione per chi doveva come me recarsi nel Tai-Oà-Dièn a contemplare l’autoclave dell’Annam in tutto lo splendore della porpora.

Nella grande piazza prospiciente al Palazzo ritrovo la medesima folla del mattino, gli stessi soldati scalzi col cappello a tetto, gli stessi ufficiali calzati, col berretto a campanile, i pantaloncini, gli stracci, le bandiere, i draghi di cartapesta, i cantastorie, le trattorie ambulanti, i giuocatori di bussolotti, i mangiatori di fuoco, l’odore formidabile dell’Asia gialla.

Ogni cinque minuti un tizio colto da improvviso furore dinastico monta sulle spalle dei vicini per annunziare che alle sei in punto l’imperatore dell’Annam – genuflessione generale – dopo avere invocato sul popolo la benedizione del Dragone dai cinque artigli – altra genuflessione – riceverà l’omaggio annuale delle nove classi di mandarini. Ogni discorso è punteggiato da cinque minuti di balletto che mette in rivoluzione tutti i parasoli del pubblico ed i cappelli a chiosco dell’esercito. E sempre i «gong» rombano con vellutata e snervante dolcezza, ora con colpi sordi e lunghi, ora con un martellamento cupo ed ovattato, eco dei secoli morti, misterioso linguaggio dei Buddha decrepiti e delle pagode millenarie.

Alla folla non importa che i soldati che sbarrano l’accesso al Palazzo siano stranieri, che i cannoni che tuonano di quando in quando a salve occupino i punti strategici della capitale, che accanto al trono imperiale s’erga la tribuna del Governatore francese... Per la saggezza annamita queste sono inezie, cose che passano e finiscono. Quel che importa è che l’imperatore sia lì! Che il rito si compia secondo i precetti dei millennii! Che vi siano i draghi e le bandiere, i letterati ed i mandarini! Che gli antenati abbiano l’incenso e le offerte! Che l’imperatore abbia il numero di parasoli e di ventagli ai quali ha diritto il figlio del Cielo!

La folla si è aperta con rispetto al passaggio dei letterati che rappresentano il pensiero indistruttibile della razza e delle classi dei mandarini che sono l’impalcatura sociale e politica dell’Annam: aristocrazia democratica senza privilegi nobiliari od ereditarli, aperta da secoli ai figli del popolo in seguito ad una rivoluzione pacifica che ha preceduto di dieci generazioni quelle di Robespierre e di Lenine.

Ecco la famosa sala dei Tai-Oà-Dièn, tutta rosso ed oro, rosso violento ed oro carico, una sala che quando è vuota fa male allo sguardo tanto sono forti le due tinte. Gli artisti annamiti che l’hanno costruita non si sono preoccupati della critica, ma dell’uso al quale era destinata, cioè delle grandi cerimonie che vi si dovevano svolgere. Quando le pareti scarlatte scompaiono dietro i parasoli e gli stendardi, quando le nove classi di mandarini la rigano d’azzurro, di bianco, di giallo e di violetto, quando intorno al trono ardono le luci dei doppieri e tutto l’ambiente è invaso dal fumo argentato degli incensi, il rosso acceso e l’oro ardente impallidiscono dolcemente e tuttavia dominano con i due colori fondamentali della dinastia la straordinaria tavolozza dell’assemblea.

Tutto è fine e meditato nel vecchio Annam delle giade e delle lacche.

Ecco il trono d’agata negli artigli d’oro del Dragone; ecco l’alto seggio imperiale simile ad un altare, un po’ infossato tra due colonne d’alabastro per meglio isolare il Divino dal resto dei mortali!

L’imperatore è là!

Veste la tunica di seta gialla tempestata di rubini che ha ereditato dai suoi padri, calza gli stivali mandarini che i suoi antenati conquistatori portarono dalle profondità della Cina. La Cina è presente in ogni ornamento della sala ed in ogni ricamo delle vesti, la grande madre Cina dal cui grembo uscirono tutte le genti gialle del continente, nel cui grembo forse un dì torneranno per formare il più vasto impero del mondo. – La tiara imperiale è un sol brivido di diamanti. Ogni movimento del monarca si traduce in una fosforescenza. In mezzo a tante lucentezze bianche la lucentezza nera dei suoi occhi d’onice – impassibili e quasi vitrei – sono la grande sfinge del Tai-Oà-Dièn!

Solo lo scettro è rozzo, aspro e senza ornamenti, simile al bastone originario dei caprai del Tibet che fu il primo scettro della dinastia nelle lontananze dei tempi.

La figura stilizzata e quasi esangue del monarca non par di carne, d’avorio piuttosto, di cera, d’uno smalto freddo ed opaco. Il volto è assente, lontano, rapito in una estasi. Le lunghe mani affilate sembrano morte sull’orlo della tunica.

Tra lui ed il Governatore generale francese non c’è caso di sbagliarsi. L’imperatore è bene il giallo! Non so se l’Inghilterra lo faccia apposta, ma i suoi rappresentanti hanno quasi sempre fisicamente una certa prestanza altera che sostiene il raffronto coi principi asiatici. La Repubblica di Doumergue ha invece la specialità dei cranii calvi e delle pancette sporgenti.

Nella sala sono riuniti tutti i mandarini dell’Annam, le nove classi gerarchiche che costituiscono la forza intellettuale e morale del paese: i mandarini civili di primo rango (prefetti e governatori) in tunica giallo carico, i mandarini militari in tunica giallo pallido, i Tong Doc in tunica violetta, filosofi in tunica ciclamino, gli amministratori in tunica azzurra, i letterati in tunica bianca, i giuristi in tunica verde... Ognuno ha un parasole della stessa tinta dell’abbigliamento. Ogni tanto tutti gli ombrelli si aprono o si chiudono secondo le prescrizioni del cerimoniale. E quando s’aprono par che la sala sia invasa da uno stormo di gigantesche, sorprendenti farfalle.

Su certi manti «mandarini» artefici pazienti hanno ricamato interi episodi di storia annamita: tutto trattato con estrema minuzia, con cento sete diverse, con fili d’oro e d’argento d’innumerevoli gradazioni, con pietruzze lucenti, con scagliette d’avorio e di madreperla, fino ai dischetti di corallo che figurano l’incarnato dei pomelli sulle guancie dei microscopici personaggi. Su certi ombrelli verde-mare guizzano i pesci ed i mostri degli abissi, su altri un fantastico pavone spiega le sue ali spettacolose, su altri ancora l’artista ha in parte ricamato, in parte dipinto il sorriso dolcissimo d’un mattino o la frenesia di un tramonto o la fosca maestà d’uno stellato senza luna.

E gli ombrelli s’aprono, si chiudono... i ventagli sprizzano scintille... Il fruscio delle sete preziose accompagna le riverenze con uno stormir flebile di vento.

La ricchezza degli abiti, la magnificenza degli oggetti, lo splendore delle mitre, l’opulenza delle else e delle dragone, lo sfarzo dei labari e degli stendardi, formano un insieme di fasto e di grandezza di fronte al quale le nostre più lussuose cerimonie sono una povera cosa ed impallidiscono le stesse imponenti celebrazioni romane del Cattolicesimo.

Quando il principe ereditario ha inchinato i suoi sei parasoli d’argento dinanzi ai nove parasoli d’oro dell’imperatore regnante, il sovrano rivolge poche frasi di ringraziamento ai mandarini, frasi banali che sono passate rigorosamente attraverso i molteplici setacci della Residenza.

Ma il monarca le dice senza un gesto, immobile, statuario, velato dagli incensi, con una voce cantata che par venire di lontano assai, dalla profondità stessa delle tombe divinizzate, da quel passato che non è morto perchè rivive eternamente nel rito immutabile, mentre le mitre dei trecento mandarini dell’Annam piegate fino a terra formano intorno al trono un fantastico tappeto di testuggini d’oro.

E rombano i «gong».

E la storia dell’ex capitano medico non riesce a sminuire la maestà del momento!

Share on Twitter Share on Facebook