Una porta dell’Asia: Saigon

SAIGON, 26 aprile.

Saigon non è ancora la Cina, ma è già l’Asia gialla.

Si penetra per una porta laterale nel grande mondo degli occhi obliqui: s’entra in contatto con una umanità completamente diversa da tutte le altre, che durante millenni ha seguito uno sviluppo proprio; ci si trova in mezzo ad uno scenario caratteristico, che non è tropicale e non è indiano e non è neppure selvaggio, nel quale l’aspetto stesso della Natura è e sembra diverso dal consueto.

L’India tragica e formidabile sgomenta, ma affascina, l’Asia equatoriale sconcerta, ma seduce. L’Asia gialla dà invece all’occidentale un senso strano di ripugnanza, quasi direi d’ostilità, che permane anche quando, col tempo, l’anima subisce l’influenza della sua innegabile raffinatezza.

La prima volta io ebbi l’impressione di essere di fronte ad una umanità decrepita in processo d’auto-assorbimento, una umanità fatta di piccoli esseri saltellanti, pergamenacei o porcellanati, esemplari paradossalmente vivi di una specie già mummificata.

A lungo andare gli occhi s’abituano ai paesaggi di smalto e di lacca, ai tetti contorti, ai draghi inverosimili, ai piccoli uomini che hanno mosse da marionette, alle loro piccole case che hanno l’aspetto di giocattoli, alla fissità impenetrabile dei loro occhi uniformemente neri che riflettono il vuoto dell’immensità, alla maschera gialla ed impassibile dei loro volti vetrificati. Ma basta che uno s’allontani pochi mesi dall’Estremo Oriente perchè al ritorno il primo contatto con l’Asia gialla riproduca la medesima sensazione sgradevole d’un ambiente torbido e viscido, popolato di lombrichi e di vermi a forma umana.

Forse il viaggiatore che cammina col «Baedecker» trovando in ogni città del mondo il medesimo Palace e gli stessi menus, non prova che una impressione di curiosità di fronte alla gialla famiglia umana dagli occhi obliqui, ma colui che va pel mondo con l’anima a fior di pelle, sensibile a tutti gli urti, si sente a disagio ogni qualvolta una nave lo trasporta improvvisamente da un altro qualsiasi degli ambienti della terra, in uno scenario d’Estremo Oriente.

Ogni cosa in questi paesi turba e disorienta lo spirito europeo. È veramente un altro mondo che non ha nessuna analogia col nostro! L’India, nonostante il suo esoticismo ed il suo grande mistero, ci è più famigliare. Le forme della sua vita e l’essenza della sua civiltà sono accessibili al nostro spirito. Il sogno dell’anima indiana si perde per noi nelle vertigini dell’infinito, ma noi possiamo intuire ed in parte seguire l’estasi portentosa. Dinanzi all’inaccessibile smalto d’un occhio cinese la nostra intelligenza rimbalza, invece, paralizzata nella sua capacità intuitiva da una diga ben più potente della famosa Muraglia.

I gesti dei gialli sono l’opposto dei nostri. Il loro «sì» è il nostro «no». I loro libri finiscono dove i nostri cominciano. Gli stessi movimenti istintivi sono inesorabilmente antitetici.

I templi, le case, i ponti, i giardini, ci stupiscono per le loro forme fantastiche ed i loro colori bizzarri. Di primo acchito li contempliamo con interesse, poi ci accorgiamo che una profonda e misteriosa armonia collega questa architettura eccentrica agli altri aspetti del paese e della razza. Allora proviamo un curioso malessere e ci sentiamo fuori posto. Chissà per quali effetti di luce o di suggestione, i monti stessi, le campagne, i fiumi, il panorama, assumono la paradossale parvenza che hanno nelle lacche e nelle porcellane, nei ventagli e nei «kimono».

Alcune particolarità caratteristiche danno l’impronta all’ambiente, facendone un insieme che è in contrasto con le abitudini del nostro occhio e del nostro pensiero: la linea obliqua, per esempio, l’uso della seta e della carta, il lucido, la gamma gialla, si trovano dappertutto, dove non dovrebbero essere, dove non sono negli altri luoghi, e sconvolgono le nostre abitudini, ci urtano e ci dispiacciono.

Perchè quel facchino è in tunica di seta? Perchè quella lampada è fatta di carta? Perchè i tetti sono incurvati e gli archi sbilenchi? Perchè le cime degli edifizi sono fatti come le carene delle navi e le cupole come le chiocciole delle lumache? Perchè le foglie sono tutte lucide ed i tronchi tutti verniciati? Perchè i vecchi decrepiti hanno un ventaglio da bimba? E gli uomini hanno mani e piedi di donna? E le donne sono fabbricate a serie, tutte col medesimo viso di terracotta o di maiolica? Perchè tutto è storto, sghembo, sgangherato, messo di traverso e di sghimbescio?

Quando s’entra nell’Asia gialla per una delle sue grandi porte – Canton e Scianghai – si è tentati d’attribuire l’impressione di disagio fisico e spirituale al formicolìo sgradevole della folla che brulica vischiosamente nelle strade troppo strette e troppo gialle.

Ma a Saigon non c’è folla.

L’Asia gialla si presenta quasi senza personaggi, in un silenzio pesante ed in una solitudine immobile. Sono le cose che parlano ai sensi ed allo spirito: le cose degli uomini e della natura.

E respingono! Sulla terra rossa come impastata di sangue, gli alberi esageratamente verdi sembrano dipinti con misteriosi inchiostri. I tetti gobbi e cornuti delle case, le porcellane lucenti, le cocche rovesciate delle pagode, la forma inverosimile delle giunche, la colorazione del cielo, i riverberi dell’aria, tutto è strano e sconcertante.

E pare che i polmoni improvvisamente rammolliti, respirino insieme ad un’atmosfera oppiacea e pesante, torbidi fluidi d’indefinibile essenza....

Il piroscafo, dopo aver risalito per ventiquattr’ore il fiume Mekong, fra due rive d’un verde oleoso, che a volte s’avvicinavano fino a dare l’impressione d’un canale ed a volte s’allontanavano fino a perdersi nell’evanescenza, ha gettato l’ancora dinanzi ad una striscia di caseggiati: Saigon.

Saigon non è Singapore e neppure Hongkong. L’arrivo d’una nave è sempre un piccolo avvenimento per la colonia che è fuori delle rotte abituali dei traffici di Estremo Oriente. Europei vestiti di bianco, col casco coloniale, ed indigeni vestiti di nero, con un ombrello senza manico per copricapo, accolgono con un blando sorriso coloro che arrivano. Le banchine piene di sole sono discretamente animate.

Poi, quando i passeggeri sono sbarcati ed il furgone della posta se n’è andato col suo carico di sacchi, i moli diventano rapidamente deserti. La nave ha l’aria di appisolarsi pigramente in mezzo alle giunche ed alle barche annamite. Anche l’attività di bordo cede all’immenso torpore dell’Indocina. Il fogliame immobile e l’acqua morta, danno al paesaggio l’aspetto di uno scenario di cartapesta, dipinto di fresco ed ancora umido di vernice.

Sulle banchine gialle passa ogni tanto un indigeno con la sua ombra: un piccolo uomo, una grande ombra. E l’uno e l’altra non fanno rumore.

Io ho aspettato che la nave s’addormentasse, che i moli fossero deserti, che tutto s’adagiasse nel grande sonno della Cocincina, per scendere solo in città e rivedere così, dopo sedici anni, la mia prima amante di Estremo Oriente.

Il Palazzo del Governo in via Lagrandière e quello della Posta in piazza della Cattedrale non hanno cambiato posto. Sono sempre imponenti e ridicoli con le loro vasche copiate a Versailles ed i loro giardini squadrati alla francese. Le corolle di porcellana rossa degli spettacolosi ibischi d’Indocina sono fuori posto fra gli scherzi d’acqua ed i bossi rotondi, come vezzi di pagoda su una toeletta stile impero. Anche il Gambetta di bronzo ha conservato la sua pelliccia da esploratore del Polo Nord che fa sudare solo a guardarla.

Chi è abituato all’intensa animazione delle metropoli coloniali britanniche, resta sorpreso dalla tranquillità provinciale di Saigon, che pure è la capitale d’un vasto impero d’oltre mare. I francesi hanno cercato di dare alla città un aspetto monumentale. Il Palazzo di Città, il Palazzo di Giustizia, gli ospedali, le caserme, la Residenza del Governatore, le Dogane e gli edifizi delle Amministrazioni pubbliche, sono costruiti con pompa di materiali e di decorazoni. Il teatro dell’Opera è costato prima della guerra cinque milioni. Il Palazzo del Governo, con due ordini di loggiati ed il tetto d’ardesia alla francese, vuole ostentatamente imitare la maestà del Louvre. Larghe le strade, regolari e spaziose, ben tenuti i giardini, linde e civettuole le abitazioni private. I fanali del gas ed i globi della luce elettrica indicano che il Municipio ha pretese di lusso e d’eleganza.

Saigon è bella, non si può dire di no, ma Saigon è morta!

I seimila francesi scompaiono nelle strade troppo larghe. I diciassette mila annamiti sono troppo piccoli per occupare tanto posto. Il grosso della popolazione indigena (50.000 cinesi ed 80.000 annamiti) preferisce le topaie della vicina Cholon ai quartieri simmetrici della capitale.

Appena si lascia la rue Catinat, che è come il corso di Saigon, le strade diventano subito deserte. I grandi alberi allineati lungo i marciapiedi lasciano un corridoio di sole in mezzo a due gallerie d’ombra. Dietro i cancelli, i giardini sonnecchiano colle loro foglie di smalto ed i loro fiori di porcellana. Le case, tutte bianche, con le persiane verdi uniformemente chiuse, fanno pensare ad eleganti dormitori d’un popolo in letargo od a fumerie clandestine nelle quali si viva perennemente sdraiati a sognare...

Sono le due del pomeriggio. È l’ora terribile di Saigon, nella quale gli uffici sono chiusi, i caffè deserti, le strade silenziose, l’ora della siesta tirannica d’Indocina che sfibra i corpi ed intorpidisce gli spiriti, che invita gli uomini d’Occidente a chiedere alle pipe d’oppio la beatitudine filosofica dell’Estremo Oriente, l’ora dei lunghi abbandoni, delle estasi artificiali, delle anemie inesorabili.... ma è anche l’ora in cui si sprigiona con maggiore potenza, dalla terra e dalle cose, la infinita malìa di questa città meticcia, mezzo parigina e mezzo cinese, mezzo annamita e mezzo indiana: città orientale unica nel suo genere, che, accanto al fac-simile coloniale del Louvre, ad una riduzione dell’Opera di Parigi ed alle succursali dei caffè dei «boulevards», v’offre la fumeria d’oppio di Cin-Yat-Sen, la casa di tè della «conghai» Ti-bhà, il teatro annamita colle danze di Nam-ki, i suburbi di Scianghai e le suburre di Nagasaki.

La melanconica esibizione dei piaceri d’Occidente s’unisce alla indulgente tolleranza delle delizie d’Oriente. Pare che le genti abbiano voluto creare nell’artificiale scenario dei palazzoni europei e dei giardini tropicali, un artificiale Paradiso terrestre con tutte le illusioni di Montmartre e di Pekino.

Accanto ad un negozio ultra moderno che espone, sotto la dicitura parigina «chez Marcelle», una vaporosa «robe de soir», un mercante «malabar» allinea tutti gli idoli dell’India, un rivendugliolo cinese affastella paraventi di carta e trabiccoli di lacca dipinta, un povero annamita mette in vendita terrecotte azzurre e pipe di bambù.

I «coloniali» sono furibondi contro Claude Farrère che ha dipinto con straordinario verismo la torbida atmosfera di Saigon; ma i «coloniali» che si estasiano di fronte alla brutta facciata dell’Hôtel de Ville, non si accorgono che Saigon, colla sua quiete provinciale e coi suoi belletti d’Estremo Oriente, dà appunto al viaggiatore l’impressione d’una donna viziosa e malata, la quale nasconda sotto la cipria ed il carminio gli scempi d’una invincibile clorosi.

Il fascino di Saigon sta appunto in questo suo essere e non essere: tutto ciò che è francese è nostalgia, tutto ciò che è Estremo Oriente è malattia. Un angolo parla violentemente della Francia, un altro è Asia profonda. La vita stessa dei coloni non è nè europea nè orientale. Fra bianchi ed indigeni non v’è la rigida separazione delle colonie britanniche, non v’è neppure la fusione delle razze. È una mescolanza senza simpatie e senza rinunzie, fatta più che altro di abbandoni. L’indigeno facoltoso è quasi parificato al francese, il povero boy è meno d’un animale domestico. Il primo ostenta uno «chauffeur» ed una «mantenuta» di Francia, il secondo non si perita di alzare gli occhi sulla sua padrona. I «menages» misti sono altrettanto numerosi dei regolari. Ogni colono celibe convive con una «conghai» annamita. I meticci non sono europei e non sono asiatici. Le due civiltà se li palleggiano un po’, poi l’asiatica, più forte, se li riassorbe nel suo vortice millenario.

Mentre nelle colonie britanniche l’Occidente lotta brutalmente contro le resistenze millenarie dell’Asia contemplativa e beata, a Saigon pare che le due forze si neutralizzino in un punto morto. E l’impressione che predomina è quella dell’acqua stagnante.

Le strade piene di sole sono cariche di sonnolenza. Dormono le case e gli alberi. La vita cittadina è schiacciata sotto il peso dell’implacabile canicola indo-cinese. Nel cielo d’un azzurro immacolato il sole fiammeggia rabbiosamente. Dalla terra tropicale sale un profumo voluttuoso e malsano: odore di fiori, di acquitrini, di putredine millenaria, che viene dalla campagna circostante, dalle risaie, dalle acque morte del Mekong, dalle topaie del Cholon, dalle vaghe profondità del vecchio Annam...

L’Oriente adopera contro i conquistatori le sue droghe misteriose ed i suoi veleni sottili. Pare che gli indigeni lo sappiano ed aspettino il lento lavorio dei secoli.

Conosco un angolo del porto di Saigon dove sedici anni fa s’allineavano i «sampan» e le giunche. Avevo allora l’abitudine, sul tramonto, di chiedere ospitalità ad un piccolo caffè annamita.

Dopo sedici anni ho ritrovato il medesimo angolo quasi immutato: una linea di alberi verde-lucido verniciato di fresco, la stamberga annamita col tetto di porcellana gialla, le giunche cinesi, una accanto all’altra, coi draghi terribili sulle prue dorate, i «sampan» indigeni colle vele floscie e le tettoie di paglia; in distanza un mozzicone di pagoda su uno sfondo di cielo color zafferano.

Pare che nulla si sia mosso durante questi sedici anni, che le giunche ed i «sampan» non abbiano mai abbandonato la sponda tranquilla del fiume, che solo ieri io abbia vuotato l’ultima tazza di «scium-scium»!

Il tramonto incipria di terra di Siena e di polvere di zolfo l’azzurro delicato degli orizzonti di Cocincina. I «gong» delle pagode chiamano i piccoli uomini gialli dinanzi ai Buddha sorridenti. Sulla soglia della stamberga una donna dell’Annam intreccia una stuoia di paglia.

Lenta lenta, s’avanza sull’acqua immobile, una fila di giunche.

Giunche di Cholon, cariche di riso e di bambù, che hanno viaggiato settimane e settimane sul corso del Mekong in mezzo al verde lucente dei banani. E non hanno fretta di giungere a riva. Sembrano enormi cicale esitanti.

Giunche dell’Annam, col drago d’oro sulla grande prua ricurva e gli occhi di pavone dipinti a fior d’acqua.

Per festeggiare l’arrivo hanno pavesato il sartiame di orifiammi gialli, verdi, rossi, di palloncini di carta colorata, di bandiere e labari simbolici che per noi non hanno significato, ma che parlano alle genti dell’Annam un linguaggio secolare di tradizioni e di leggende. Sulle vele indescrivibili, rattoppate fino all’inverosimile, listate di bambù, sono scritte in caratteri «mandarini» frasi misteriose, germogliate nei millennii, che hanno la proprietà di rendere propizi i venti e le cateratte. Le giunche avanzano placidamente, dolcemente, insetti obesi che non hanno fretta. Benché la riva sia tutta ingombra di imbarcazioni troveranno anch’esse il loro posticino, senza urla, senza urti, senza litigi.

Intanto sui «sampan» s’accendono i fuocherelli della cena. Intere famiglie vivono per due o tre generazioni sul guscio decrepito e rabberciato che è la loro casa ed il loro patrimonio. Per le genti del fiume Saigon ed il mondo non esistono. Il «sampan» è tutto. Uomini, donne e ragazzi, si raccolgono intorno ai vassoi fumanti del riso. Sono gli stessi quadretti, i medesimi gesti e colori di sedici anni fa.

La Saigon burocratica costruisce nuovi palazzi e nuove ferrovie. A Cholon gli intraprendenti cinesi decuplicano i loro figli e le loro fortune preparando l’avvenire. Il piccolo Annamita del Mekong si disinteressa di tutto ciò che lo circonda, resta fedele alla sua barca centenaria, agli usi ed agli alimenti degli Antenati. L’oppio gli permette di dominare le vicende dall’alto d’una filosofia paradossale. I suoi bisogni ed i suoi desiderii si limitano ad un pugno di riso e ad una pezzuola di seta. A tutto il resto pensa l’oppio che quotidianamente distribuisce ai suoi sudditi, con inesauribile magnificenza, tutte le ricchezze del creato e lutti i capricci della fantasia.

Fra il tormento dei padri indiani che continuamente sondano l’infinito, e la febbrile attività dei padri cinesi che perennemente inseguono il barbaglio dell’oro, la piccola anima indo-cinese ha trovato un atomo di felicità nella rinunzia alle angoscie degli uni ed alle avidità degli altri.

Vi parlerò un’altra volta dell’Indocina francese, del programma Sarraut, dell’operosità cinese, degli appetiti nipponici, degli intrighi russi, del partito giovane-annamita, dei comignoli che fumano a Cholon, dei Consigli Municipali misti che educano gli indigeni al suffragio universale, degli «immortali principii» dell’89 applicati alle leggi dell’Annam....

Lasciate che stasera io riviva dinanzi alle giunche d’oro ed ai «sampan» centenarii il mio primo amore con l’Estremo Oriente.

Qui ho imparato tante cose, anche a voler bene ai francesi, i quali sono abbastanza simpatici e molto latini quando si convincono che Parigi non è il principio e la fine del mondo. Nella «brousse» dell’alto Camboge ho visto i soldati della Marne e di Verdun morire alla garibaldina per la patria lontana, come morivano quelli di Vittorio Veneto in Abissinia e in Libia. Avevano il medesimo coraggio e la stessa gentilezza. Ed ho sentito come la fratellanza latina non sia una semplice finzione rettorica, ma una bella realtà che gli uomini si sforzano di sepellire nel «bled» tunisino e nei vicoletti di Tangeri!

La sera mi sorprende sotto gli alberi verde-lucido in mezzo ai ricordi.

Come allora, anche ora i «sampan» accendono a prua il fanale rosso imposto dal regolamento. I «barbari» hanno voluto che fosse rosso e gli annamiti li hanno accontentati, benché da mille e mille anni tutte le luci dei fiumi, dei laghi e degli stagni siano sempre state gialle secondo le prescrizioni del Saggio dei Saggi, l’imperatore Hoang-ti.

I lampioni di carta dondolanti in cima ad un’asta illuminano gli innocenti segreti delle alcove asiatiche che non hanno soggezione della luce.

Sulle stuoie patriarcali l’amore degli uomini di pergamena con le donne di porcellana non ha altri testimoni che le stelle ed i miei occhi indiscreti d’occidentale. Il giallo non s’occupa mai delle gioie e dei dolori del suo vicino.

L’oppio – balsamo insostituibile di tutte le miserie asiatiche – empie le giunche rabberciate ed i «sampan» decrepiti di fantasmi imperiali e di divinità compiacenti. Il Mekong trattiene i brividi dell’acqua per non disturbare i sognatori.

Sulla terza giunca un vecchio d’avorio lucido, fuma con solennità sacerdotale. La luce del lampione rosso lo investe in pieno e lo inquadra nella penombra, emblema vivente della sua razza raffinatissima, frolla e bastarda, nella quale agonizzano simultaneamente l’India e la Cina.

In lui e nei suoi fratelli di Cocincina si estingue, per povertà di sangue, il grande tentativo fatto dall’umanità nell’oscuro travaglio dei secoli di fondere l’Asia indiana e l’Asia gialla, gettando un ponte su uno dei massimi abissi dell’avvenire.

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