Vita di piantatori

KADIRI, 3 marzo.

Il diretto Batavia-Surabaya si ferma alla stazione di Kadiri dopo una lunga corsa attraverso le risaie ed i boschi di tek. Un uomo vestito di tela bianca con un grande sombrero spagnuolo di feltro grigio si precipita al nostro sportello gridando a squarciagola:

Van der Selder! Van der Selder!

I Van der Selder siamo noi, cioè... per essere più precisi, Van der Selder è il ricco piantatore che ci ha invitati per una settimana nella sua tenuta di Kadiri. Fra me, per esempio, ed il signor Van der Selder c’è tra le altre differenze la bazzecola di parecchi milioni di fiorini, ma pel bravo meticcio, il quale si fida alle apparenze, anch’io sono Van der Selder!

Tre vetture equatoriali aspettano fuori dalla stazione gli ospiti ed i bagagli. L’uomo del sombrero apre il corteo in sella ad un poney indiavolato dell’arcipelago e via a trotto serrato attraverso canne di zucchero e palme-cocco.

Ogni tanto una villa bianca sporge in avanti una veranda di colonnine sulla cima d’un poggio. Sulle case degli europei è innalzata la grande asta della bandiera e nei giorni di festa ogni proprietario spiega ai venti dell’Equatore il vessillo nazionale. I villaggetti malesi, nascosti nelle foglie, sembrano alveari d’api. Il sole fiammeggia sui canali. Le ali d’un mulino fanno pensare all’Olanda.

Dopo due ore di trotto cambiamo i cavalli. Il meticcio ci informa che entriamo nella tenuta Van der Selder, ma ci vogliono altre due ore prima d’arrivare in vista della villa.

Il grande feudatario coloniale ci riceve all’ingresso della sua abitazione in stivaloni ed in maniche di camicia. È il tipo classico dell’olandese, alto, tarchiato, un po’ altero. Da trentacinque anni abita la colonia, da dieci non è più ritornato in Europa, da quando la sua unica figlia sedicenne morì stritolata da un albero della jungla.

Gli indigeni attribuiscono la disgrazia agli spiriti della foresta vergine che s’erano vendicati sull’innocente fanciulla di tutta la dinastia dei Van der Selder, colpevoli d’aver spianato la jungla fino alle falde dei vulcani, disturbando le «forze» millenarie che abitano nei tronchi e nel cavo delle foglie. Il meticcio ci racconta che dopo la morte della padroncina nessun boscaiolo malese voleva avvicinarsi alla foresta. I lavori furono sospesi per tre mesi. Van der Selder in persona dovette accendere le mine dinanzi alla popolazione riunita dei villaggi secondo l’antico rito della jungla per sfatare la leggenda che metteva in pericolo le sorti della piantagione. Alla prima detonazione tutti gli indigeni fuggirono terrorizzati aspettando un cataclisma. Solo quando constatarono che i tronchi non si erano trasformati nè in draghi, nè in vampiri, tornarono pian piano alle loro occupazioni.

V’è indiscutibilmente un grande soffio di poesia in questa superstizione giavanese che spiritualizza la secolare battaglia dei bianchi contro la foresta equatoriale. La bionda fanciulla olandese uccisa da un gigante d’alto fusto nel misterioso silenzio della foresta dopo cento anni di duello fra i suoi antenati e la boscaglia, offrirebbe ad un grande maestro della sinfonia un soggetto di wagneriana potenza per celebrare la lotta ciclopica dell’uomo contro la Natura. L’Equatore offrirebbe all’artista le languide canzoni delle capanne, i dialoghi ancestrali del vento con la jungla, la tragica orchestrazione delle collere tropicali e vulcaniche, tutto il fàscino musicale dell’Asia ardente, della Sonda perennemente cullata dal respiro dell’oceano e dal soffio dei monsoni!

I Van der Selder posseggono da oltre un secolo la tenuta di Kadiri e, di padre in figlio, durante quattro generazioni hanno battagliato con indomabile tenacia contro la foresta vergine perseguitandola fino nelle viscere profonde della terra.

L’ultimo discendente che avrebbe dovuto ereditare, secondo la legge degli uomini, l’immensa fortuna, dorme il suo sonno eterno sul campo di battaglia. Quattro dadap ombreggiano il tumulo bianco. Dieci anni fa il piccolo sepolcro si trovava sui margini stessi della jungla omicida che ritmava col suo murmure oceanico l’estremo riposo della vergine bionda.

Quando il bisnonno Van der Selder comperò dal governo di Batavia per novemila fiorini la tenuta di Kadiri, questa estensione di terra era foresta vergine abitata solamente dalle serpi e dai gatti selvatici. Ora le canne da zucchero sciolgono al vento dell’Equatore le lunghe capigliature, gli alti fusti dei dadap proteggono coi loro ombrelli lucenti cinquecento mila arbusti di caffè arabico, rosseggiano a centinaia di migliaia i caffè più vigorosi della Liberia, le guttaperche innalzano a perdita d’occhio, i loro tronchi gagliardi.

Le sirene della raffineria, della distilleria e delle segherie annunziano la fine del lavoro. I bufali tornano a mandrie folte dai pascoli. Qualche macchina agricola cigola sugli stradoni e sembra fuori posto in mezzo alle palme. Rombano in lontananza le ultime mine che schiantano al di là delle lave i trinceramenti della jungla.

Cinquemila persone vivono e prolificano dove s’amavano solo i pitoni e s’azzuffavano rabbiosamente i felini. Sul volto maschio dell’ultimo Van der Selder trentacinque anni di Equatore hanno stampato la loro impronta. Le rughe s’irradiano dagli angoli degli occhi verso la fronte ed il mento. Il portamento è altero, quale si conviene ad un uomo nato pel comando che deve spesso far indietreggiare anche la morte. Ma negli occhi v’è una grande dolcezza. Questo ras d’oltre mare deve essere certamente un buono ed un leale uomo.

La vita d’un grande piantatore della Sonda incomincia la mattina col primo sole, quando i coltivatori indigeni escono coi bufali dai villaggetti nascosti sotto le palme-cocco e si sparpagliano pel possedimento. Lunghe teorie di donne s’avviano pei canali coi cenci del bucato e la minutaglia dei figli. Le sirene delle fabbriche chiamano a raccolta gli uomini delle capanne. Le scimmie della foresta vergine scappano all’avvicinarsi dei boscaioli che adoperano il fuoco e la mitraglia per aprire nella jungla le strade della civiltà.

Prima che la gente incominci il lavoro del giorno il padrone è già a cavallo nei campi. V’è sempre per lui qualche cosa di importante da controllare nelle piantagioni, negli opifici, nella foresta. Vi sono fattorie lontane da visitare, nuovi canali da tracciare, irrigazioni, potature, semine, raccolti; nel pomeriggio l’amministrazione coi suoi formidabili amminicoli, poi le vendite e le transazioni commerciali. Il feudo è un piccolo mondo da governare e dirigere. Il sole ed il vento sono spesso nemici. Anche Maometto e gli Antenati si mettono sovente d’accordo per dar del filo da torcere al piantatore. I meticci sono buona gente, ma bisogna saperli prendere.

Alle dieci di sera il piantatore è sopraffatto dalla stanchezza. Il giorno dopo ricomincia. Così per mesi, per anni! Chissà se Lenine si è mai posto il caso di coscienza delle ricchezze d’un piantatore!

Quando ogni tanto il colono ritorna in Europa, attratto dal fàscino della Civiltà che rivendica il suo figlio stregato dall’Equatore, s’accorge che gli altri uomini sono diversi, che la loro vita è tutta ingombra di piccole cose che non hanno senso per lui. La nostalgia della jungla lo avvinghia infallibilmente nei dancing e nel Palace: le canne da zucchero lo richiamano in mezzo alle loro carezze: i lontani dadap lo invitano, con misteriose lusinghe, a riposarsi all’ombra dei loro baldacchini. Il colono torna senza rimpianto alla sua solitudine riempita d’immensità. Abituato ai grandi orizzonti ed alle grandi battaglie dell’umanità originaria, intisichisce nelle serre delle metropoli. Il vero colono è un soldato che muore al suo posto.

Mentre questa sera m’attardo sulla veranda di Kadiri a contemplare i giuochi della luna coi canali, dinanzi al vasto silenzio dell’Equatore addormentato, sotto i velluti dell’Equinozio fiammeggianti di solitarii, la mia anima vagabonda sente la poesia dell’esistenza di questo milionario, il quale potrebbe chiudere i suoi giorni fastosamente nel tripudio d’una qualsiasi Parigi, soddisfacendo tutti quei capricci che a noi sembrano tanto importanti; che resta invece qui, senza famiglia, senza figli, a lavorare pel governo di Batavia che sarà il suo erede; che ogni mattina alla cinque è a cavallo in mezzo alle canne da zucchero ed alle piante di caffè; che da sette lustri, ogni anno, caccia indietro la jungla di cinquanta ettari verso le lave del vulcano Lavoe!

4 marzo. – La piantagione di caffè di Kadiri conta circa un milione e mezzo di piante, metà della specie arabica, che è un arbusto, metà della specie africana, che è un albero. Il risultato è sempre lo stesso: sacchi di caffè.

L’ardore equatoriale favorisce lo sviluppo della preziosa bacca, ma i raggi del sole l’anemizzano, per cui ogni tante unità è piantato un grosso albero di dadap il quale ha l’incarico di setacciare l’oro del sole pei suoi protetti. In capo a pochi anni i dadap finiscono col congiungere i loro grandi ombrelli formando una unica tenda verde-lucente, sotto la quale sono allineate come soldati, a gruppi di cinquemila, le piante del caffè.

Non potete immaginarvi quanto sia suggestivo il bighellonare fra le bacche rosse sotto la tettoia dei dadap, mentre il vento porta l’eco dei canti dei malesi dispersi per le lontananze. I canali fiammeggiano come lastroni di diamante. L’Equatore vi sbuffa in faccia il suo alito tiepido e profumato e vi parla misteriosamente col fruscio delle grandi foglie, col lento ondeggiare delle palme, col fermento della terra umida e grassa, col fischio strano d’un uccello, col guizzo furtivo d’una biscia. Résine ed essenze imbalsamano l’aria. Le bacche rosse del caffè tintinnano dolcemente ai brividi dell’atmosfera, come se una mano frugasse in mezzo a grani di corallo.

I coltivatori indigeni abitano agli estremi della piantagione due villaggetti: capanne di bambù, col tetto di tegola rossa. Ogni villaggio ha una piccola moschea con un mozzicone di minareto ed un baraccone che il giorno serve da mercato e la sera si trasforma in bettola o teatro.

Al calar del sole Don Alonzo, che è precisamente addetto al caffè, ci fa assistere ad una paga. Quando il disco d’oro si rimpiatta dietro il cono del Lavoe, gli indigeni abbandonano i campi e s’ammassano coi capoccia dinanzi al baraccone per riscuotere il salano della giornata. Accanto a Don Alonzo è il gerente del mercato – un cinese – coi debiti d’ogni operaio, che debbono essere liquidati giorno per giorno. Il pagamento settimanale sarebbe certo più spicciativo, ma è impossibile nella Sonda perchè gli isolani non si presenterebbero al lavoro che dopo aver consumato la paga fino all’ultimo centesimo. Manca completamente agli indigeni il senso del risparmio. La parola domani è per loro quasi un controsenso. Il mercato interno è organizzato in tutte le piantagioni appunto per anticipare agli operai ed alle loro famiglie gli alimenti della giornata, altrimenti i disgraziati lavorerebbero tutta la giornata collo stomaco vuoto e, riscossa la paga, la consumerebbero in alcool e in oppio.

Nel pomeriggio abbiamo visitato le piantagioni di guttaperca ed abbiamo assistito al raccolto della resina che è fatto barbaramente abbattendo il grande albero.

Un albero di trent’anni fornisce mezzo chilo di gutta pura che è mescolata sul posto con resine inferiori fino a formare un pane di tre chili. È venduto così a Surabaya ai primi intermediari i quali s’incaricano di aumentarne il peso aggiungendo altre resine. A quanto ho potuto capire il traffico della guttaperca è pieno d’imbrogli, per cui le grandi fabbriche europee ed americane, compresa la nostra Pirelli, hanno finito per comperare le piantagioni e pasticciano le resine per conto loro!

5 marzo. – Stamane con Van der Selder siamo partiti a cavallo per la jungla, cioè per quella zona del possedimento che è ancora allo stato di foresta vergine e che è conquistato all’agricoltura in ragione di cinquanta ettari all’anno.

Quando giungiamo sul luogo, dopo tre ore di cavalcata fra le canne da zucchero, il sole è già alto e bombarda furiosamente la vallata di Lavoe. I bambù che crescono abbondantemente fra le canne zuccherine ci hanno riempito la biancheria dei loro peletti neri che pizzicano terribilmente. Sembra d’essere il campo di manovra d’un corpo d’armata di... pulci, ma guai a grattarsi! I peli di bambù giavanese hanno la specialità di conficcarsi nella epidermide e di trasformarsi in spine di fichi d’India. Van der Selder ci raccomanda di cambiarci completamente prima di far colazione perchè i minuscoli aghi di bambù mescolati agli alimenti ed introdotti nel tubo digestivo possono forare impercettibilmente gli intestini. La morte è allora lenta, ma sicura. Per conto mio rinunzio alla colazione fino al ritorno in villa.

I boscaioli hanno scavato a colpi d’ascia nell’ammasso vegetale un largo corridoio a forma di ferro di cavallo che isola dal resto della jungla mille metri di foresta. È la superficie condannata. Quando i nostri cavalli entrano nella galleria verde abbiamo realmente l’impressione di che cosa sia la ciclopica potenza d’una foresta equatoriale.

Vista in condizioni normali la jungla è dominata per l’occhio dal fattore verde, cioè dall’immensità del fogliame, per cui nonostante il formidabile numero dei tronchi s’ha sempre l’impressione d’uno sbarramento formato, più che d’altro, di foglie. Non si riesce quasi a concepire perchè si debba ricorrere alla dinamite. Vista invece di sezione, nella scavatura d’un traforo, le foglie diventano un accessorio. Si vede la mastodontica ossatura d’una roccaforte di pali e di travate, rinforzata con miliardi di traversine ferroviarie ed altri miliardi di graticciate, il tutto riempito di zavorra e solidamente legato con chilometri e chilometri di funi che vanno dallo spessore delle gomene di transatlantico alle cordicelle dei pasticcieri, ma così fitte, così aggrovigliate, così zeppe di nodi e di cavicchi che si comprende come una scarica di melinite vi debba fare meno danni che dentro una roccia.

Mentre i boscaioli meticci dispongono le mine, in numero d’oltre duecento, gli indigeni appiccano fuoco tutt’intorno ad un centinaio d’alberi. Quando i braceri ardono bene e le fiamme favorite dalle resine incominciano a salire dai tronchi verso l’intreccio dei rami, un tamburo ordina a tutti d’allontanarsi a considerevole distanza.

Aspettiamo. Il rullo fa pensare ad un attacco imminente ed è infatti una battaglia. Il vento soffia sulle fiamme, ma l’umidità e la compattezza della foresta si oppongono alla sua avanzata. Il fumo nero e denso incappuccia sinistramente la colossale catasta. Le mine sono appunto destinate ad aprire le strade al fuoco e brilleranno quando le torcie periferiche avranno avviluppato intorno al blocco vegetale una cortina di vampe.

Il cratere fumante del Lavoe pare irridere la debolezza degli uomini che con cento bracieri non riescono a distruggere mille metri di jungla.

Le lave balenano al sole. Nell’ardore del riverbero equatoriale le fiamme sembrano bianche. L’occhio stenta a seguirne il cammino. Il sepolcro dell’ultima Van der Selder domina l’orizzonte col suo memento.

Una detonazione secca, seguita da un tiro rapido di mitragliatrice, annunzia l’accendersi dei primi tubi di gelatina, poi l’alto silenzio è squassato da una scarica violenta ed un po’ sorda, come lo schianto d’una caldaia di dreadnought nelle profondità marine.

Per un istante nulla è cambiato nella foresta. Vediamo un uccello partire freneticamente verso l’azzurro, un correre di scimmie in alto alle ultime foglie... poi è un crollo di scenarii. Folti ammassi di fogliame si inclinano tutti d’un verso, restano un momento in bilico, sostenuti dalle impalcature interne, s’abbassano a strattoni, franano, rovinano. Certi tronchi s’innalzano verticalmente come cocche di vascelli silurati. La foresta fa pensare all’oceano. Il fumo assume la tragica maestà d’una nuvola che sia scesa fino al livello della terra. Il fuoco s’intrufola negli spazi vuoti ad attaccare i cordami. Le resine diffondono uno strano odore d’incenso.

L’incendio durerà trenta giorni, forse sessanta, poi ci vorranno ancora tre mesi per incenerire sistematicamente tutti i residui. Altre mine scalzeranno in profondità le radici. I temporali s’incaricheranno d’impastare le ceneri col terriccio. Duecento uomini lavoreranno ogni giorno di zappa e di vomere per preparare il suolo ad una prima semina di parassiti.

Van der Selder dirige personalmente l’operazione che il suo bisavolo incominciò centoventi anni fa e che non è ancora finita. Alle nostre spalle ondeggiano le canne da zucchero che erano foresta, tremolano le piantagioni di caffè e di cassia che erano foresta, i giganti della guttaperca fanno corona ai comignoli delle tre fabbriche che erano foresta...

Una fanciulla dorme coi suoi capelli biondi sotto una lastra bianca. Il rombo delle mine dev’essere dolce al cuore del padre come un canto di vendetta...

Gli scoppi hanno messo a nudo un gigantesco ficus indica. Intorno al tronco centrale, di dieci metri di diametro, cento altri tronchi secondarli, generati dalla medesima radice, intrecciano le loro travate, quasi per dire: di qui non si passa. Il vecchio ordina di far saltare la cattedrale. Rughe cattive oscurano la sua fronte di lottatore.

Un colono colloca nello spacco d’un tronco un grosso tubo di fulmicotone che agisce a comando elettrico, ma quando la saetta scocca con un fragore d’inferno facendo strage dei piloni, la colonna centrale resta al suo posto. Solo le foglie hanno subito lo scempio sfrondandosi come pel sopraggiungere d’un istantaneo inverno. Le radici non hanno mollato la stretta secolare ed il tronco, abituato forse alle più terribili saette del cielo, resta al suo posto. Bisogna ricominciare.

Nello splendore del meriggio equatoriale la piccola scena evoca le battaglie dell’uomo delle epoche primitive.

Il fumo avviluppa l’alta statura dei coloni in nembi di pece. Il vento sfiocca le foglie bruciate. Le orchidee selvaggie scompaiono nei bracieri come farfalle.

Un sorriso caparbio illumina il volto maschio del Van der Selder. Veggo il medesimo sorriso sulle labbra dei coloni bianchi. Meticci ed indigeni seguono invece con gli occhi imbambolati la resistenza della foresta. Hanno paura. Le due espressioni classificano le due razze.

Forse i poveri malesi pensano agli spiriti cattivi ed alle potenze invincibili della jungla, alle canzoni della foresta, ai racconti delle capanne. La loro anima semplice aspetta che i genii della terra rispondano al fulmicotone di Van der Selder con le lave del Lavoe.

Sulla foresta in fiamme le sirene della distilleria lanciano il consueto segnale di mezzogiorno. È l’ora del riso. Il vento porta per le lontananze dell’Equatore l’urlo gioioso della civiltà conquistatrice.

Chissà se arriva fin dentro al bianco sepolcreto dell’ultima Van der Selder?

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