Fantasmi d’una notte equatoriale

SURABAYA, 22 marzo.

Un viaggio non è rappresentato solamente dalle città che si visitano, dai tipi che s’incontrano, dalle genti che si studiano, dai personaggi che s’intervistano, dai monumenti che si ammirano o si finge d’ammirare, dalle cattive colazioni che si pagano salate, dalle buone cene che non si digeriscono, dalle chiacchiere che si dimenticano, dalle altre chiacchiere che si ricordano, dai panorama che stupiscono, dalle mancie che non contentano mai il cameriere, dai bauli che si fanno e si disfano, dalle valigie che passano la dogana...

Un viaggio è anche pieno di tante cose indefinibili le quali nascono e muoiono in fondo all’anima... fantasmi, nonnulla, povere mammole che lasciano un po’ di profumo.

E col tempo, quando gli anni passano, inesorabilmente, la spugna sulle visioni e sui ricordi, sono forse unicamente le povere mammole quelle che restano!

Ieri dopo un pomeriggio dell’Equatore, afoso, pesante, ardente, carico di luce e di calore, nel quale pareva che tutte le cose abbrustolissero e che tutti gli esseri viventi fossero condannati a liquefarsi in sudore, s’era alzato verso le cinque il solito vento del mare a soffiar tiepido sulle case di Surabaya.

Allora dalle abitazioni, dagli uffici, dagli alberghi, dai fondaci, dagli innumerevoli nascondigli della città, la gente s’era riversata nelle strade lungo il lido. I caffè s’erano riempiti d’umanità vestita di chiaro, uomini, donne, bianchi, meticci, gialli, indigeni, tutti avidi di una boccata d’aria dopo dieci ore di fornace.

Surabaya, per chi non lo sapesse, è la città più torrida di Giava, una delle più terribili dell’Asia ardente. L’isola di Maura posta di fronte alla baia, intercetta tutti i venti del largo meno uno, quello che s’alza regolarmente alle cinque e muore alle sette. Le notti sono torbide e calde. Durante tutto il giorno il sole formidabile della Sonda pompa violentemente dal «fiume d’oro», dai mille canali, dalle immense risaie, i fermenti della terra equatoriale che s’addensano, sotto forma di vapori, sui tetti di Surabaya. Sono così fitti che al tramonto la città sembra avvolta in una zanzariera. Poi, quando il vento del crepuscolo abbandona il litorale, i vapori s’abbassano, penetrano nelle case e nelle ossa, macerano i colletti e le esistenze, accendono nelle vene accaldate tutti gli ardori. Perciò Surabaya è città d’amore!

Siccome però il caro-vita ha aumentato in tutte le latitudini il costo dell’amore, tanto di quello domestico riconosciuto dalla legge, quanto di quello avventizio disciplinato dalla polizia dei costumi, Surabaya è anche città di lavoro e di fatica. I giavanesi ed i dacota, che nell’interno si lasciano cullare dal dondolìo della jungla, paghi di condire l’amore con un pugno di riso cotto e due banane profumate dal respiro dell’isola, quando emigrano in città s’ammazzano a sfacchinare nel porto e nelle fabbriche per soddisfare i capricci delle loro belle, le quali hanno appreso dalla Civiltà a desiderare il braccialetto di corallo e lo straccetto di seta.

Moli e dogane brulicano di movimento. La periferia è irta di comignoli. Anche nelle ore tremende del sole i vinchs dei piroscafi continuano a stridere sulle calate e sui boccaporti. E vi sono disgraziati che montano e scendono dai pontili delle navi con sacchi di zucchero e cassette di tè sui dorsi nudi e sgocciolanti. Durante l’orgia solare il rombo dei doks ed il martellamento dei bacini fanno pensare al canto d’Israele nei deserti d’Egitto.

Il sudore delle genti ed il marciume degli specchi d’acqua ammorbano l’aria senza vento. L’oppio, la cannella, la vaniglia, i manghi, le banane stemperano nel gran fetore di Surabaya gli effluvi delle loro essenze. La città ha l’odore d’un cadavere imperiale mal imbalsamato. Il colera e la diarrea amebica nicchiano nei polveroni. Molto più si morrebbe se alla lunga il sangue non s’immunizzasse da solo contro i lieviti della morte.

Surabaya sta a Batavia come Milano sta a Roma. Batavia è la capitale politica e burocratica, Surabaya il centro dei traffici, dei commerci d’oltre mare, delle banche, delle industrie, del lusso, della speculazione. Ci sono molti ricchi a Surabaya e molti poveri che sperano di diventarlo. Chi non riesce a Batavia tenta la fortuna a Surabaya che è di manica più larga. Greci, armeni e levantini ne hanno fatto una stazione di partenza!

Trecentomila abitanti, fra i quali sono rappresentate quasi tutte le razze e le nazionalità del globo, si ripartiscono lo spazio abitabile nella vecchia città olandese che sembra un angolo di Rotterdam, nel quartiere cinese che pare un pezzo trapiantato di Canton, nella contrada araba che è ricalcata sui vicoli di Bagdad, nel grande «campong» indigeno che ha l’aria d’un concentramento di villaggi della jungla, nel quartiere aristocratico di Simpang che rivaleggia per splendore di palme e di ville con Colombo e Buitenzorg.

Ieri il pomeriggio era stato caldo, caldo assai anche per la gente del paese che trova discreti i trentasei gradi!

Alle cinque tutti coloro che non erano incatenati ad una mola avevano preso posto nei caffè dinanzi ad una bibita diaccia per non perdere quel po’ di carezza che vagolava nell’aria. Ed erano uscite le carrozze per la passeggiata.

Voi non conoscete la «passeggiata» di Surabaya!

Carrozze antiche, carrozze moderne, faitongs, cabriolets, vittorie, panieri, birocci colle tendine a righe rosse, automobili da sport, da passeggio, da città, tutti i veicoli della creazione passavano e ripassavano dinanzi alla mia aranciata...

E colle carrozze passavano donne d’Europa coll’ultimo figurino di Parigi, donne di Cina con l’ultimo modello di Canton, donne del Sole Levante col «kimono» di Nagasaki, donne dell’Oriente mussulmano con la veletta di Mohammed, donne di Manila con grandi paglie vaporose, donne del Laoi con la maschera di porcellana, donne di Bangock coi denti neri ed i capelli a pagoda: faccie scure, visi pallidi, ovali di vecchio avorio, occhi di tempesta, occhi di mattino, fiori del Nord, frutti del Sud, bambole del Levante, baccanti dell’Equatore, piccole Butterfly di oltre mare: grande svolazzar di nastri, sfarfallio di veli, giostra di ventagli, vecchiezze dipinte che non vogliono morire, giovinezze precoci maturate dal sole troppo ardente, braccia nude, scollature tropicali, trasparenze assassine, gonnelle corte, gambe accavallate, qualche sigaretta... molti sguardi soprattutto e molte carezze d’occhi che mi facevano dimenticare l’aranciata...

Sul ponte Rosso, gettato a cavaliere del «fiume d’oro» a congiungere il quartiere europeo con quello cinese, i pedoni alimentavano un flutto incessante d’umanità in cammino: mandarini, samuraij, emiri, principi ed arlecchini, gente troppo vestita, gente quasi nuda, le grandi razze dei cinque continenti, le piccole mescolanze dell’alcova equatoriale, indigeni di Giava e della Sonda, cosette saltellanti dell’Arcipelago, daiàki del Borneo, baiala di Sumatra, figurine incerte del Lombok e di Celebes, uomini di maiolica delle Molucche, prodotti indefinibili della bassa Malacca, cinematografia di rasi, di cenci e di parasoli, tutti gli aborti, e gli enigmi della specie...

Il sole s’abbassava sull’orizzonte in un’orgia di porpora, di lacche e di fiamme.

La zanzariera di Surabaya era un tessuto di garze d’oro e di argenti diafani.

Ed essa passò in una vettura di piazza che aveva il cocchiere vestito di bianco ed i cavalli col cappuccio di paglia. I suoi occhi neri, carichi d’ogni fàscino e d’ogni malìa dell’Equatore s’incontrarono con quelli dello straniero e forse ebbero pietà della sua solitudine perchè vi si fermarono.

La carrozza passò e ripassò parecchie volte. La «passeggiata» è lunga a Surabaya e dura fino al calar del sole. Ed il sole tardava ieri sera. Pareva avesse pena d’abbandonare il quadro di bellezza che aveva creato con le sue magnificenze. Pareva che le guglie accese dei campanili cristiani, che le mezzelune ardenti delle moschee mussulmane, che le cuspidi fiammeggianti delle pagode buddiste, che i pinnacoli luminosi dei templi brahamini, pregassero il sole di prolungare la magìa del tramonto e l’incanto della «passeggiata».

Così sembrava allo straniero!

Poi il sole s’immerse pian piano nell’infinito, fu un atomo di fuoco, una scìa di rubino, nulla... E le vetture diventarono più rade. I caffè si vuotarono. Si spopolarono le strade ed il ponte Rosso. Anche la sua carrozza non tornò più. Surabaya aveva inghiottito la maga dagli occhi di promessa nel mistero delle sue case e dei suoi giardini.

Allora lo straniero si sentì solo nella città, nella sera e nella vita...

Rimanevo lì senza scopo, senza la forza fisica d’andar via, intorpidito dal tepore dell’aria, inchiodato dalla pesantezza del sangue. Guardavo la città ed il mare affondarsi gradatamente nell’acquosità del crepuscolo, i lumi accendersi lungo la costa, il faro aprire e chiudere la sua palpebra verde, le giunche dalle ali di farfalla entrare in porto, le navi andarsene verso il loro destino.

Non avevo voglia di rientrare all’albergo per prendere il mio posto di collegiale alla table d’hôte fra la vecchia britannica che mi domanda invariabilmente ad ogni pasto notizie del barometro ed il grosso alsaziano che quando ride fa glu-glu come i tacchini del suo paese.

No, proprio non ne avevo voglia, ieri sera!

La canicola del giorno, il torpore del crepuscolo, un po’ di febbre che incominciava, le troppe donne che erano passate, le troppe banane che imputridivano nell’aria, le sirene stesse delle navi che svegliavano gli echi delle lontananze, una campana che si accaniva a far don don, tante cose concorrevano a creare quello stato indefinibile di melanconia, anzi di miseria, che di quando in quando sorprende coloro i quali, perchè viaggiano molto e parlano con molta gente, finiscono coll’essere anche molto soli nel mondo e nella vita.

È uno stato d’animo difficile ad analizzare, più difficile ancora a far capire; come un senso d’isolamento, con un pizzico di sconforto, con una sfumatura di tristezza, con mille desideri del sangue e dello spirito. Sotto la sua pressione potente il cuore s’apre come una corolla avida di sboccio che cerchi un bacio di sole.

Ma la gente passa, non sa, non s’accorge. Se le donne intuissero, lascerebbero forse cadere un sorriso per pietà di mamma, per affetto di sorella, per consapevolezza d’amante. In genere il malato ha l’aria stupida e gli occhi melensi, due cose che non sono fatte per attirare l’attenzione delle donne che passano.

Coloro che hanno un’amante vicina, una sposa, una madre, una sorella, magari un’amica, anche solo una conoscente, con cui scambiare due parole innocenti, un tantino affettuose, una donna, insomma, la donna a portata di mano con l’attrazione magnetica della sua multiforme e insostituibile femminilità, non possono rendersi conto della somma infelicità nella quale certe volte annegano i camminanti pel mondo, quelli che vanno sempre per paesi nuovi, fra gente estranea, in un’atmosfera senza risonanze, e non possono quindi comprendere come in certi momenti una qualsiasi donna, turca, magari giapponese, annamita, non importa, possa impersonare pel malato, nella sua grazia fragile e nella sua venale gentilezza, tutto l’amore e tutto il rispetto dell’uomo per l’Eva del paradiso terrestre!

In genere quando un poveretto sente, come sentivo io ieri, incombere pian piano la cattiva nebbia, cerca una distrazione nel giornale, ma la politica batte a vuoto nel cavo dell’anima; tenta allora di buttar giù una lettera all’amico, ma la penna s’impunta sulla carta. La sigaretta è amara. Tutto irrita e non riesce. S’è troppo stracchi per camminare ed a rimaner seduti par d’essere in gabbia.

L’occhio segue le donne che passano, le fruga, le spoglia, le carezza. E vengono alla mente tanti ricordi!

Lo spirito rammenta tutte quelle che hanno occupato un anno od un giorno della vita, quel po’ di sole che ognuno ha avuto nella sua esistenza dal bacio inimitabile della mamma all’inimitabile bacio della vera amante. Quelle che non si sono sapute amare si vendicano accendendo il desiderio ed il rimpianto, le altre che si sono troppo amate stuzzicano le ferite chiuse dai balsami del tempo...

Si vorrebbe gridare il proprio tormento, far qualche cosa per rompere il cerchio e vincere il male. In genere il cameriere vi guarda di sottecchi con l’aria di domandarvi: Che ha costui? Se per caso in quel momento la sirena d’un vapore sveglia i silenzi del mare, il cuore ha una stretta brutale che gela la fronte.

Quando la crisi è giunta al diapason, vi sono diverse risorse che caratterizzano le razze: gli anglosassoni vanno in genere al bar ad annegare lo spleen nel wisky fino all’ubriachezza, i latini si lasciano tentare dalla prima avventura, gli slavi – non so che cosa facciano gli slavi di Lenine, ma quelli dello Zar attaccavano lite col primo venuto e finivano al posto di guardia.

Una vecchia gialla, sdentata, scheletrica, infagottata in un cencio senza colore, s’era fermata contro un lampione a fissarmi con gli occhietti di smalto che era l’unica cosa terribilmente viva in quel corpo terribilmente morto.

Poi s’avvicinò e mi sorrise.

Le posi mezzo fiorino della regina Guglielmina, per amore del mio e del suo Dio che confondono le fisionomie delle razze quando la vecchiaia incalza, ma non allungò la mano di cartapecora.

Le sue labbra dissero invece: – Ma-rasi! (vieni).

Io che avevo imparato a Batavia il dialoghetto, risposi:

Gia-sà? (dove?).

Ma-rasi!

La bisavola lasciò il mare, prese pel ponte Rosso gettato sul «fiume d’oro», entrò nel quartiere cinese, infilò una strada con le botteghe accese, tutte piene di specchi, di dorature e di mandarini che si facevano vento, poi un’altra strada più scura, una terza quasi nera, su per scale e scalette, dentro vicoli, lungo muri di giardini, fin che le case finirono e cominciarono le palme del quartiere di Simpang.

Io la seguiva, senza pensare alla stranezza della passeggiata ed agli incerti dell’avventura, già mezzo guarito del mio male dal fascino dell’ignoto, occupato a guardare negli spazi chiari, fra palma e palma, le nostre due ombre che s’inseguivano.

Surabaya – La costa e l’isola Madoera.
Soerakarta – Abitazione d’una principessa dell’harem.

S’era alzata la luna, la grande luna d’argento dell’Equatore, che ingentiliva la notte di Giava. Le palme sussurravano le loro confidenze.

La vecchia si fermò dinanzi ad un cancello che s’aprì con una lieve spinta, traversò un giardino folto, entrò in una casa, salì per una scaletta di legno che scricchiolava, poi mi lasciò in una stanza dopo avermi salutato con una di quelle riverenze profonde che si fanno agli altari.

Sentii i suoi passi furtivi che rifacevano piangere la scaletta.

Il fruscio d’una portiera mi fece volgere gli occhi.

— Come ti chiami?

Maia-dà.

— Cosa vuol dire Maia-dà?

— Vuol dire «fiore d’acqua».

— Di dove sei?

— Del Pangerman, ma sono figlia di bianco. Mamma era di Sumatra.

Era bella Maia-dà, come si è belle nell’Equatore quando l’incrocio di due razze, invece di mettere alla luce un aborto, crea un capolavoro. Aveva la snellezza della donna d’Occidente e la grazia della donna d’Oriente. Non chiara la carnagione nè scura, un po’ ambrata, con l’opaco caldo della pelle meticcia, con un non so che nella carne che faceva pensare al velluto della pesca matura quando manca poco che si stacchi dall’albero per troppo sugo.

Era bella Maia-dà!

Molta gente aveva certo fatto la medesima constatazione prima di me, ma che mi importava se nell’infinita miseria del mio isolamento essa mi offriva l’eterna carezza d’una voce di donna! Che m’importavano il suo povero passato ed il suo avvenire se nel grande giardino di Surabaya, dove era proibito toccare tutti i fiori, essa m’offriva la sua olezzante corolla di primavera, colorita e profumata dalla magìa dell’Equatore?

Nei suoi occhi neri, appena obliqui, smisuratamente allungati dall’henne e fantasticamente sfumati di lilla, erano raccolte tutte le seduzioni dell’oltre mare che fascinano i naviganti ed i vagabondi, occhi di Estremo Oriente, occhi del lontano maliardo, dolci, smaltati, profondi.

Forse non v’era niente dietro quegli occhi, altro che una piccola anima di mezzo selvaggia, ma davano l’illusione di contenere tutte le dolcezze e di possedere tutte le profondità.

Essa mi parlava come fossimo amici di molti anni, così come io volevo. Nei capelli neri – in mezzo alle forcine d’oro che richiamavano alla memoria le divinità delle pagode – era puntato un fiore scarlatto, più scarlatto della sua bocca dipinta. Ed aveva intorno al collo un vezzo di pietruzze lucenti che facevano pensare al riflesso delle ghiaie marine nelle notti di luna.

Era una bimba, ma una di quelle terribili bimbe che le razze dell’Equatore addestrano all’amore come per un sacerdozio, senza che conoscano altro della vita perchè destinate ad essere solo le Clarisse della Voluttà e della Concupiscenza.

Mentre le sue mani manipolavano le foglie dell’aree e del betel, le pipe dell’oppio, le misteriose bevande che danno l’oblìo nelle notti equatoriali d’abbandono, mi pareva di veder balenare nei suoi grandi occhi tante fiamme, quelle che lucevano nelle pupille ardenti della sconosciuta della passeggiata di Surabaya, altre fiamme ancora che in paesi ed epoche diverse avevano arso in occhi indimenticabili, tutte, tutte, fino alla prima luce che m’abbagliò accanto ad un pozzo della Bergamasca quando la vita appena sbocciava...

Ballò per me come danzano le donne di Sumatra sulla soglia delle capanne nella foresta millenaria.

Cantò per me con una vocetta dolce e melodiosa certe canzoni d’amore della jungla che paiono ninne-nanne di mamme accanto ad una culla.

La lampada rosa dell’oppio stemperava nella stanza una luce strana, strana come Maia-dà, un misto d’aurora e di crepuscolo che dava un valore prezioso alle stoffe banali ed alle cose insignificanti. E nella penombra gli occhi sembravano grandi, smisuratamente grandi, troppo grandi per me.

Per la finestra aperta entrava l’alito caldo della notte. La luna, alta nel cielo, guardava dentro la stanza.

La sapienza infame degli allevatori aveva certo rotto il suo corpo di adolescente a tutte le ignominie, ma l’anima inconsapevole era rimasta candida e puerile. Maia-dà aveva la convinzione di compiere un dovere imposto dagli Antenati, d’essere nel suo destino. I nostri scrupoli non avevano presa sulla sua incoscienza.

Nella piccola stanza illuminata dalla lampada rosa, fra i tappeti d’Oriente ed i tendaggi della Cina, fra un placido Buddha sorridente che indulgeva a tutte le pazzie ed una poupée-chiffon di Parigi che rappresentava Montmartre, «Fiore d’acqua» impersonava per me in quel momento tutta la femminilità dell’universo. Era un idolo, un piccolo idolo equatoriale della religione universale degli uomini che, dopo Dio, adorano nella donna la suprema quintessenza del creato.

Allora per quella stupida sensitività che hanno a volte i marinai, i vagabondi ed i solitari, coloro cioè che, vivendo tanto diversamente dagli altri, finiscono col concepire in modo diverso la vita e le sue cose, col conservare, anche coi capelli bianchi, certe «ingenuità» dell’adolescenza, io non chiesi alla femmina equatoriale che il suo canto e le sue danze.

E siccome l’anima di ogni donna anche primitiva ha un intuito che cento psicologi maschi presi insieme non riusciranno mai ad eguagliare, «Fiore d’acqua» capì.

Sahib, tu sei uomo di mare.

— Perchè, «Fiore d’acqua», questa domanda?

— Io so, sahib, quelli che come te vogliono solamente canzoni, sono quelli che abitano sul grande azzurro dove dorme la luna.

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Per la finestra aperta entrava l’alito caldo dell’Equatore profumato dai manghi acerbi e dalle banane putrefatte.

La donna sentì il bisogno di velare la sua nudità inutile con un cencio di seta. Il suo istinto le faceva comprendere che gli uomini i quali abitano «il grande azzurro dove dorme la luna» chiedono a lei ed alle sue piccole sorelle di peccato un po’ d’illusione, un soffio di profumo, uno di quei tenui fantasmi d’oltre mare che li sedussero fanciulli quando la vita incominciava, che per tutta l’esistenza continueranno ad affascinare la loro anima vagabonda.

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