Montanari Teng

TOSARI, 15 marzo.

Arrivati ieri sera a Poespo, villaggio incassato fra due montagne, abbiamo avuto la sgradita sorpresa di trovare il piccolo albergo olandese zeppo fino ai classici bigliardi, sui quali due disgraziati col mal di fegato, univano fraternamente i gemiti ed i moccoli di una colica epatica.

O dormire alla bella stella od accettare l’offerta di un indigeno addetto all’albergo che ci offriva la sua capanna. In mancanza di meglio, abbiamo accettato di passare la notte su una stuoia di cocco, dentro una casa di bambù.

La stuoia non era a contatto diretto della terra, ma stesa all’uso giavanese sopra una specie di telaio di canne, che per gli indigeni supera in mollezza tutti i nostri materassi. Noi, svegliati stamane dai galli, con le ossa peste e le membra ammaccate, non siamo del medesimo parere, ma deve essere evidentemente questione di abitudine.

La prima colazione è servita fuori dalla capanna dalle tre mogli dell’anfitrione, il quale, per essere da dieci anni cameriere del primo ed unico albergo di Poespo, ha tenuto a trattarci con tutte le regole del perfetto albergatore. Sopra un’altra stuoia di cocco che funge da sala da pranzo, sono i vassoi carichi d’ogni ben dell’Equatore. Ci sono perfino delle frittelle fumanti, ma rinunziamo ad esplorarne il mistero contentandoci di latte, banane, manghi e focaccie di riso.

Le tre donne ci guardano mangiare sorridendo coi denti neri: tre età, venti, trenta e quarant’anni, tre tappe della vita coniugale del comune signore. I loro «sarrong» ricamati sono nuovi e graziosi, abiti di festa tirati fuori per l’occasione dal baule a placche di rame made in Germania che è la immancabile dote d’ogni ragazza malese. Sotto la mussola bianca i rilievi del seno indicano la data dei tre matrimoni senza bisogno d’interrogare i visi. I fiori di Giava avvizziscono presto ma nella primavera le corolle erette hanno tutta la grazia e la potenza dell’Equatore.

Invece di vasellame abbiamo piattini di palma e foglie d’albero, invece di cucchiai e coltelli, un pacco di ferretti, di quelli che adoperavano le nostre nonne per scalzettare.

Diversi bufali ed un cane si riuniscono ad ammirare l’insolita riunione. Il sole si alza lentamente dietro i contrafforti del Paserpan ad indorare i monti e le valli. Il quadro non è privo di georgica bellezza e senza l’inconvenienza del telaio di canne indurrebbe a tener compagnia all’harem tutta la giornata, rinviando a domani la partenza per Tosari.

Invece partiamo. Le tre donne sorridono nel lasciarci. Un bufalo tiene ad accompagnarci un pezzo di strada, fin quasi in vista dell’albergo.

Stiamo per montare in automobile, quando il proprietario della locanda, un belga di razza fiamminga, si precipita dinnanzi alle ruote con una misteriosa bottiglia.

— Un bicchiere del mio liquore, fatto con le erbe della jungla.

— Vada pel cicchetto!

È di buon umore il signor Tawaer, pardon, Van Tawaer. Fra parentesi tutti gli olandesi che ho conosciuto a Giava sono Van. Deve essere una malattia coloniale. Gli affari prosperano all’albergo di Poespo che è tappa obbligatoria per tutti i disgraziati che si recano al sanatorio di Tosari, clientela di tisici, di anemici, di epatici, di diarroici, di malarici, di mezz’ammazzati, che si fermano una notte soltanto senza far troppo caso al conto.

— Ho clienti che tornano ogni stagione da dieci anni.

Accorre un cameriere ad informare che il numero nove si sente molto male e non può proseguire il viaggio.

— Un bicchierino del mio liquore lo rimetterà in piedi, assicura il sor Tawaer, il quale deve essere abituato ad avere morti in albergo.

Sono le sette quando la nostra piccola auto, che par costruita apposta per gli stradini delle montagne di Giava, lascia Poespo. Attraversato il paesotto indigeno, la foresta equatoriale ci accoglie nella sua grande ombra.

I «sanatorii» in Asia sono dei luoghi in alta montagna nei quali un bianco, ridotto mal in arnese dal clima della pianura e della costa, trova la temperatura d’Europa che o l’ammazza subito, o con quattro scudisciate, lo rimette in gamba.

Più s’è vicini alla linea infernale dell’Equatore, più bisogna salire in alto. Il sanatorio di Tosari, per esempio, è a duemila metri, ma ve ne sono fino ai tremila. A tale altezza clima e vegetazione corrispondono agli ottocento dell’Appennino. A zero gradi sull’Equatore tutto è in proporzione. La neve avrebbe bisogno di seimila metri per consolidarsi, quindi le incipriate che di tanto in tanto aggraziano le alte vette del Tenger non resistono più d’una settimana al bombardamento del sole. A mille e cinquecento i banani smettono d’arrampicarsi pei costoni della montagna e fanno apparizione le abetine d’Italia. Solo le felci conservano a qualunque altezza le fantastiche dimensioni della zona equatoriale.

Alle stazioni climatiche dell’Asia torrida tocca la stessa sorte delle consorelle d’Europa. Vi sono luoghi i quali per la simpatia di un lord o per la protezione di una banca acquistano rapidamente una celebrità mondana che aumenta il costo dei terreni ed il prezzo al metro cubo d’aria fornito dagli albergatori; altri invece i quali conservano modeste le tariffe e le dimensioni delle case. Ai primi appartengono, per esempio, Simla e Dajerling, dove per tre mesi all’anno stabiliscono le loro tende tutti i flirt rispettabili delle Indie britanniche; ai secondi la giavanese Tosari, la quale non ha che tre alberghi di second’ordine, benché, a mezza giornata appena da Batavia e Surabaya, offra, in piena canicola equatoriale, la temperatura del Kreuzberg e di Val d’Agordo. Si aggiunga che il panorama di Simla sta a quello di Tosari come una cartolina illustrata ad un paesaggio vero; ma Simla è Simla!

— Siete stata in Europa, quest’anno? Ad Ostenda? A Scheveningen?

— No, ma sono andata a Simla.

Una signora di Batavia che dicesse alle sue amiche del Nederlandia Golf Club d’aver passato l’estate a Tosari, si sentirebbe degradata al livello d’un coolye cinese.

Io che non sono socio del Nederlandia Golf Club, sono entusiasta di Tosari. Immaginate che dalla fornace di Jokakarta si giunge comodamente con poche ore d’automobile in un nitido albergo d’alta montagna dove si rivedono, fra le altre vecchie conoscenze, le coperte di lana sul letto, dove soffia una brezza montanina che vi mette a nuovo i polmoni, vi sferza il sangue, vi risveglia la giovinezza, vi fa istantaneamente desiderare un piatto di pasta asciutta ed una bistecca sanguinolente.

Solo chi da lungo tempo si stempera nella perenne umidità giavanese, coi panni addosso sempre sudati ed appiccicosi, con un peso sul petto che non si sa che cosa sia, ma che comprime, con un cerchio alle tempie che continua a stringere nonostante il piramidone, con una voglia quasi rabbiosa di sentire una ventata diaccia sulla pelle accaldata, col desiderio ossessionante d’un suicidio per congelamento, solo uno di questi disgraziati può comprendere la nostra felicità quando, giunti a Tosari ed entrati nell’atrio del primo albergo, vediamo nel camino un allegro fuoco di legna che ci saluta col cigolìo solenne d’un ceppo e collo scoppiettìo birichino d’un pugno di sarmenti.

Dedichiamo la giornata a Tosari che ci compensa con infinite cortesie. La Provvidenza, nella sua immensa bontà, ha condotto fin quassù un grossetano che esercita la nobile professione del cuoco proprio nel nostro albergo.

Avete spaghetti?

— No, ma vi condisco una polenta da leccarsi le dita.

C’è dunque ancora della polenta al mondo?

Tosari è in vena di follie. Dopo la polenta ci offre fragole, lamponi ed uva spina, una pineta selvaggia, un fiore d’edelweiss, pascoli d’Alpe con mandrie di vacche, una sfarinata di neve sulla vetta più alta del Tenger (3800 metri), macchie di mirtilli, ciuffi di valeriane, certi sfondi di boschi sotto un costone di roccia rossa che fanno pensare alla strada delle Dolomiti.

A quest’altezza le piante riprendono le proporzioni della flora europea; i tronchi si raccorciano, le foglie rimpiccioliscono, il verde perde la lucentezza oleosa dei verdi equatoriali, tutta la vegetazione assume un aspetto più modesto che per noi è pieno di grazia famigliare. Riconosciamo le nostre piante, le nostre foglie, e ci fa piacere come se in una fantasia cinematografica riconoscessimo la strada che di tutte è la più cara perchè l’abbiamo guardata da bambini col naso appoggiato ai vetri quando la vita incominciava...

A sera, mentre pian piano il sole spegne le sue fiaccole sulle coste dei monti per concentrare tutto l’oro nelle valli, ed il mare sfuma in lontananza la sua azzurra immensità, le montagne di Giava organizzano per noi un meraviglioso concerto. Le vacche e le pecore tornano dai pascoli alti alle stalle di Tosari. Certo i mandriani hanno sul volto il marchio dell’Asia ardente, ma noi non li vediamo. Ascoltiamo solo la musica dei campanacci, i fischi dei pastori, i latrati dei cani, il belato tremulo degli armenti, il mugghio di qualche toro ribelle. A chiudere gli occhi ci si crederebbe sui mammelloni della Valle d’Aosta, quando il sole d’Italia si rimpiatta tra due fiancate del Monte Bianco e le bestie scendono dai maggesi guidate dai cani sapienti che sono nati per fare i capi-popolo.

La nostalgia delle Alpi invade inavvertitamente lo spirito con singolare potenza, avvinghia l’anima e la stringe fino a farle male.

Se i rintocchi d’una pieve trasvolassero per le lontananze, la sinfonia delle montagne sarebbe troppo dolorosa pel vagabondo che non ha dimenticata la patria, ma il cristianesimo è rappresentato a Tosali solo da una chiesetta presbiteriana senza campana.

Lente le ombre scendono dai picchi alle valli. Di mano in mano che la porpora si ritira, il cerchio dei monti diventa cupo, nordico, alpestre. L’Equatore è lontano assai. La musica delle campanelle digrada, si smorza, si esaurisce. Pare che le mandrie siano partite lontano, verso i luoghi cari evocati dalla nostalgia. Il crepuscolo è pieno di fascino alpino. Il vento porta un odore di pini e d’abeti al quale non siamo più abituati. L’anima sdrucciola verso i ricordi. Una acquata si avvicina. La tristezza affiora alla superficie....

Fortunatamente ci avvertono... che la polenta è pronta.

La moderna Tosari è formata di tre alberghi europei, d’una ventina di case e di un centinaio di casupole, tutte abitate da gente bianca, meticcia o nera che, in un senso o nell’altro, ha da fare col Sanatorio.

La vecchia Tosari è sdegnosamente appartata in cima ad un greppo. Si tratta di una cinquantina di capanne di legno. Uno steccato di bambù, che da lontano assume l’importanza d’un muro di cinta, protegge il villaggio dalle bestie della montagna e dalla curiosità dei viaggiatori. Il paese è abitato dai Teng, interessantissima tribù della montagna giavanese, disseminata nell’altipiano. Secondo le statistiche olandesi i Teng sarebbero diecimila, ma i rapporti fra i montanari e i funzionari della Regina Guglielmina sono così superficiali che non so su quali dati si basino le statistiche.

I Teng non sono nè giavanesi, nè dacota, nè cinesi, nè indiani. Assai probabilmente sono gli ultimi discendenti d’una razza aborigena della Sonda, distrutta dalle invasioni storiche di Giava. i quali si sono salvati ritirandosi nell’alta jungla al di sopra dei duemila metri. Di carnagione scura, molto più scura dei giavanesi, ricordano, anche pel vigore delle membra e per l’alta statura, i montanari del Tibet. Non conoscono però nè Buddha, nè Maometto. La loro religione è un misto di brahmanesimo e di feticismo con una accentuata adorazione del fuoco che fa pensare a Zoroastro. Il loro Dio principale è il Siva delle Indie, ma ignorano gli altri due personaggi della Trimurti. Invece di Brahma e di Visnù, veneranouna serie di divinità femminili, le dewas, la cui professione è di tener compagnia a Siva nei crateri dei vulcani ed un certo numero di «eroi» non meglio identificati che sarebbero gli antenati dei Teng.

Ogni villaggio è amministrato patriarcalmente da un Capo che è anche il prete ed il medico della comunità. All’inizio di ogni stagione tutti i Capi, accompagnati da una rappresentanza del villaggio, si riuniscono in una specie di grande assemblea – lo Slamatam – nel cratere del Dasar.

Il dialetto teng non è capito nè dai giavanesi, nè dai dacota. Un professore olandese che è quassù a curarsi una enterocolite buscata in quel di Borneo, m’assicura che la lingua dei Teng rassomiglia ai dialetti delle tribù interne delle Molucche. Non ho difficoltà a credergli, però, per conto mio, stamane ho sentito un teng litigare e m’ha fatto l’impressione che miagolasse, anzi ogni tanto, nel colmo dell’indignazione, ho visto che soffiava tre o quattro volte di seguito contro l’avversario, proprio come fanno i micioni quando sono fuori dei gangheri.

I Teng hanno fama di gente onesta, mite, coraggiosa. Il furto è per loro un delitto e l’adulterio sarebbe a quanto mi dicono, sconosciuto! Naturalmente lascio la responsabilità di quest’ultima gravissima affermazione al mio autorevole informatore, professor Van den Mulder.

Il nostro albergatore, il quale per essere un forte consumatore di latte e d’altri prodotti dei Teng, è in eccellenti rapporti con la tribù, ha organizzato per stanotte una gita in massa della clientela nel cratere del Dasar per assistere ad uno Slamatam.

Non starò a descrivervi nè il viaggetto notturno fino al cratere, nè le precauzioni prese per raggiungere un poggetto senza destare i sospetti dei bravi Teng, i quali, quando sono in Slamatam, non vogliono spettatori. Fra parentesi credo che i Teng e l’albergatore siano d’accordo su questa messa in scena che giustifica il prezzo di quaranta fiorini, altrimenti solo le pietre che abbiamo fatto rotolare a valle avrebbero dato l’allarme a una popolazione di sordomuti!

Lo Slamatam dei Teng è certo una delle cose più strane che abbia visto nella mia vita di vagabondo, ma nella quasi totale mia ignoranza sui Teng e sulle loro abitudini, non saprei come illustrarvi questo antichissimo rito equatoriale. L’emerito professore olandese sul quale avevo fatto assegnamento per fare bella figura ha l’aria di... saperne quanto me. Dell’albergatore non c’è da fidarsi perchè tira a sparare.

In fondo ciò che m’ha colpito è il quadro. Eccovelo:

Il Dasar è il più grande cratere del mondo. Qualsiasi trattato di vulcanologia ve ne darà quindi i caratteri scientifici. Al chiar di luna io lo vedo sotto l’aspetto d’una gigantesca vallata di carbon fossile nella quale sorgono diversi alti castelli di pece, in cima ad uno dei quali è acceso un faro. L’emerito professore m’insegna che quel faro è il Bromo, cratere attivo. I castelli sono le bocche spente del Dasar.

Secondo i Teng invece quel fuoco è lo spirito di Siva, il quale abita nel cratere in compagnia delle famose dewa, perciò essi chiamano la montagna «Dio» parola che, nella loro lingua, si pronunzia «Bromo».

Nel cielo sono accesi tutti i globi e le luci dell’Equatore, ed è notte di gala. Forse lassù è ancora carnevale, a giudicare almeno dalle stelle filanti e dalle serpentine che sgaiano nello spazio. La luna che sale dal mare, fra il vulcano Ardiòno ed il vulcano Kàwi, è velata da una sfilacciatura di nuvolaglie, ma quando, fra uno strappo e l’altro, appare per intero la sua livida maschera di pagliaccia, tutta la valle di carbon fossile ha un magico brivido d’argento.

Allora in fondo si mostra quale essa è realmente, mare di sabbia formato dalla millenaria agglomerazione delle ceneri vulcaniche.

A duemila duecento metri d’altezza sul livello dell’oceano, questo fondo di mare spaventa per la sua paradossale esistenza.

Il nostro poggio è la garitta avanzata di una ciclopica terrazza la quale circonda tutto il cratere e termina bruscamente a strapiombo, senza parapetto, con un salto di trecento metri.

Pare d’essere in un teatro, in un teatro della luna!

Sulle pareti verticali i vulcani si sono divertiti a disegnare con pece e mercurio una farragine d’epigrafi cabalistiche.

L’orizzonte è chiuso all’intorno da alte montagne che fanno cerchio. Il cono del Semiroe (3700 metri) domina l’emiciclo col suo cratere che ogni tanto s’arrossa...

Nel chiarore lunare il «Bromo» sembra di cristallo nero, il Semiroe di ferro arrugginito.

Si sente il respiro asmatico d’una zolfatara, ogni tanto uno sbadiglio. Qualcuno, che non è animale e non è uomo, brontola. L’alto silenzio è turbato solo dai soffi misteriosi della terra.

Poi una processione di spettri bianchi si snoda sul ciglione della terrazza titanica. Ogni fantasma ha una torcia accesa. Vengono alla mente certe lontane istorie dell’infanzia...

Sono i Teng che dopo la grande Assemblea fanno il giro dell’anfiteatro fin dove il bastione dirupa verso il Bromo. V’è là una strada pei caprai che conduce fino ai piedi dell’idolo e le fiaccole vi si spiegano a zig-zag. I fantasmi sono molti, certo più di mille. Quando la testa della processione è già alle falde del Bromo ancora l’alta terrazza è tutta punteggiata di torcie camminanti.

Pian piano l’esercito degli spettri si raccoglie intorno al mostro dal sorriso di fuoco. Siamo troppo lontani per seguire le vicende della cerimonia: vediamo le fiaccole alzarsi, abbassarsi, roteare, saltellare ad un passo che deve essere certamente di danza. Siva risponde ai suoi adoratori con un muggito cupo che l’eco sperde di gola in gola nelle viscere dei monti. Si sente la respirazione faticosa dell’idolo, ogni tanto un tonfo di sassi, uno sciacquio d’acqua sbattuta, il rotolar d’una botte, lo stridio d’una chiave dentro una toppa...

Un lume s’inerpica su per le falde del cratere verso la cima. «Bromo» coi suoi mugghi ha indicato la vittima che preferisce ed il Grande Sacerdote dei Teng sale fino alla bocca dell’imbuto ad esaudire la sua volontà. Una volta la vittima era un Teng, oggi l’uomo designato dallo spirito di Siva dà invece la sua capra. Così assicura il professore olandese che tiene a garantire dinanzi agli stranieri che il suo governo è in regola con la Civiltà!

La cappa meravigliosa del firmamento equatoriale brulicante d’atomi d’oro e la desolata valle vulcanica folgorante d’arene magnetiche formano un quadro che non ha nulla della nostra terra. È una visione del cosmo. Così la fantasia immagina gli orizzonti dei lontani pianeti camminanti per l’infinito senza sole...

Quasi non meraviglia la religione dei Teng. Fra sabbie e stelle, Dio parla agli uomini della montagna col rombo dei crateri e col rigurgito delle lave. La coreografia del Sinai è inutile. «Bromo» scrive col mercurio sui lastroni di carbon fossile il suo decalogo.

Adesso capisco perchè i Teng non conoscono il furto e l’adulterio. Con un Dio così terribile e così vicino non vien voglia di scherzare. Facilis descensus Averni!

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