Un tifone fra Borneo e Celebes

PONTIANAK (Borneo olandese), 28 marzo.

L’Alting, grosso vapore di cabotaggio della Koninklike-Paketvart-Matchappy, giunto ieri mattina a Pontianak con un carico di duecento malesi e ottocento maiali, dopo aver caricato non so quante centinaia di sacchi di noci-cocco ed una turba di nativi di Celebes che tornano in patria, ha lasciato stamane lo scenario d’operetta nippo-fiamminga di Pontianak per riprendere il mare.

Il frate cappuccino italiano che amministra la chiesetta cattolica di Pontianak m’ha urlato dal molo all’ultimo momento un «mi saluti la patria» nel quale era tutta la nostalgia della sua fiera anima lombarda provata da otto anni d’esilio. Solo ogni dieci anni le superiori gerarchie consentono sei mesi di riposo in patria agli apostoli moderni del cattolicesimo, i quali insegnano ai daiàki di Borneo ad adorare un Dio che non permette si taglino le teste del prossimo. Le divinità locali sono invece di manica larga in materia, tanto che gli abitanti sono indicati col grazioso nomignolo di «koppen snellers», che in olandese vuol dire tagliatori di teste. Non è raro il caso di trovare ancora nell’interno della jungla capanne di bambù decorate da una fila di zucche affumicate che, ad osservarle bene, sono semplicemente teschi collezionati dagli avi.

Il governo olandese, che a Giava protegge le missioni presbiteriane ed evangeliche, favorisce invece a Borneo, a Celebes, nelle Molucche e nel resto dell’Arcipelago, i missionari cattolici, l’esperienza avendo dimostrato che soltanto essi riescono, senza tanti fronzoli e senza tanti capitali, a cattivarsi la fiducia degli indigeni. Vivono in mezzo a loro, adottano le stesse forme esteriori della loro povera vita, vanno a trovarli nella foresta fin dentro i «kampong» isolati ed i villaggetti di fango, col bagaglio della loro fede e una cassetta di medicinali, senza altre armi che un piccolo crocefisso ed un grande sorriso, pattuglie avanzate della civiltà che alla lunga addomesticherebbero totalmente le barbarie dell’Equatore, se la loro opera di persuasione non fosse in seguito fatalmente compromessa dai funzionari del fisco, dai piazzisti dell’alcool e dalle necessità politico-economiche del potere civile.

Povero padre Vito! Ieri gli ho sacrificato Pontianak, le sue palme-cocco ed i suoi quartieri d’operetta, tanto era visibile e commovente la sua gioia di poter parlare italiano con uno della sua terra. Ogni tanto l’eccellente uomo non s’accorgeva d’intercalare nella bella lingua d’Italia un termine sensa senso che doveva certo essere una parola daiàk! È nel Borneo da ventiquattro anni, interrotti solo da tre brevissimi soggiorni in Europa.

Buon frate e buon italiano, due qualità che in genere si trovano riunite nei nostri missionari del Levante e d’oltre mare. Sotto la umile tonaca di San Francesco il cuore batte per Dio e per la Patria. Nella solitudine della jungla, a contatto della natura primordiale, rivivono i santi del primo cristianesimo ed i patriotti dell’epopea. Le superbe virtù della stirpe che fanno dell’emigrante italiano il primo colonizzatore del mondo, fanno anche del frate italiano il miglior missionario del Cattolicesimo.

Un belga di fede valdese che col medesimo piroscafo lascia Pontianak dopo aver venduto ad un cinese le sue tenute di caucciù m’ha detto sul ponte: «Celui-là, voyez, c’est un brave!». E l’omaggio era pieno di significato sulle labbra d’uno, non italiano e non cattolico.

La macchia avana di padre Vito sullo spiazzo chiaro della banchina assolata è l’ultima cosa di Pontianak che si vede all’orizzonte. Poi la jungla che bordeggia dalle due parti il fiume ci chiude nel suo scrigno verde.

Pontianak, capoluogo del Borneo olandese, è adagiata sul fiume Kapuas che si getta nel piccolo Koboe, il quale a sua volta s’immette nel grande Koboe che finalmente sfocia in mare. I piroscafi debbono scendere successivamente i tre corsi d’acqua per raggiungere l’oceano.

Il piccolo Koboe è tutto seminato d’isolotti a fior d’acqua dai quali alte palme-nibonghe ergono nell’incandescenza equatoriale i loro tronchi smilzi ed i grandi ventagli delle foglie. Da una parte e dall’altra della riva trabocca la vegetazione strapotente della jungla. Dove batte il sole, l’acqua è tutta una luce, dove arriva l’ombra della foresta, il fiume ha l’austerità dei laghi d’alta montagna. I cocuzzoli dei monti Ambavanghi dominano l’orizzonte.

Sugli isolotti più vicini alla rotta delle navi montano la guardia malesi seminudi con un casco di foglie ed un corno da caccia, i quali guidano a suon di tromba le manovre di bordo nei passaggi difficili. E fa un effetto strano di sentire la grossa nave moderna guidata dai tritoni equatoriali col cimiero di foglie. V’è una sproporzione quasi inconcepibile fra i motori a turbina dell’Alting ed i piloti nudi degli isolotti!

A Koboe il fiume s’allarga e la navigazione diventa più spedita, sempre però in mezzo ad un fantastico paesaggio di palme che stendono, a perdita d’occhio, l’ondeggiamento dei loro ventagli. Il profumo meraviglioso della jungla imbalsama l’aria ardente. Giganteschi lilla dei tropici, agglomerati qua e là a cespi folti, fanno pensare a civettuole pagode di lacca cinese disseminate in un grande tempio.

La jungla, con la sua solennità ed il suo silenzio, dà soprattutto la sensazione di un tempio, immenso tempio innalzato dalla Natura equatoriale alla maestà di Dio.

Quando la nave s’accosta ad una delle sponde, l’ancestrale basilica mostra la magnificenza delle sue decorazioni di fronte alle quali sono povere le pareti di San Pietro. A volte il meraviglioso soffitto verde è sostenuto da blocchi di colonne levigate e cupe che ricordano la nudità diaccia delle cattedrali gotiche: a volte invece morbidi velluti fasciano i piloni e le travate, orchidee di porcellana e corolle di smalto decorano pomposamente l’edifizio vegetale, bughenviglie roventi e rampicanti carnicini sfoggiano i loro sfarzosi broccati, fiori, muschi e muffe in tutto il lussureggiante rigoglio dell’Equatore, richiamano allo spirito la calda opulenza del cattolicesimo romano. In certi punti fioccose fluorescenze color dell’aurora creano mistici scenari di sogno, in altre migliaia e migliaia di piante terminate a pennacchio evocano fantastiche visioni di Babilonia e di fasto faraonico. Le gigantesche antenne dei varinga improvvisano Pantheon e cupole: le liane intrecciano festoni e reggono lampadarii; accanto agli organi monumentali dei bambù, lunghi steli bianchicci, che finiscono con un paradossale fiore rosso, rappresentano i candelabri ed i ceri accesi della spettacolosa funzione.

Navighiamo così tutta la giornata in uno scenario pontificale. Incrociamo navi inglesi che salgono verso Pontianak, barconi indigeni carichi di legname che scendono a mare, una grossa giunca dorata con la testa di drago e le vele dipinte che par costruita apposta per questa navigazione irreale.

Rari i villaggi e miserabili, molte scimmie riunite in assemblea lungo la sponda che continuano i comizi senza scomporsi pel nostro passaggio.

Quando verso sera il sole formidabile della zona torrida s’abbassa sulla jungla, un grande incendio di fiamme d’oro investe la foresta ed il fiume.

Sulla linea dell’Equatore asiatico il cielo assume riflessi e decorazioni che fanno impallidire i più sgargianti scenari dell’Africa e delle Indie. I tramonti del Borneo e dello stretto di Macassar sono semplicemente sbalorditivi. Stasera il grande mago della Sonda s’è divertito ad improvvisare coi vapori e le nebbie dell’Arcipelago una pazza cavalcata di chimere che fuggono verso le lontananze dell’Australia, inseguite da una muta di cani roventi che incessantemente scaturiscono dalle profondità dell’oceano indiano.

È inutile provare a descrivere! Solo uno straordinario pittore riuscirebbe a riprodurre questa magnificenza, non sull’opacità di una tela, perchè sarebbe impossibile, ma sulla trasparenza di un vetro, dietro il quale perennemente avvampasse il bagliore di un incendio.

A me pare di vedere su uno sfondo di soli una di quelle miracolose vetrate nelle quali i grandi maestri dell’arte vetraria sapevano imprigionare particole di fuoco acceso. Azzurri ardenti, rossi di brace, verdi di cannello ossidrico, smeraldi d’acqua, baleni di rocca, argenti spumosi di cascata, porpore rutilanti, tutti i tesori dei cieli, dei fiumi e dei mari sono profusi nell’iridescenza dell’infinito sul quale le fantastiche chimere fuggono e fuggono inseguite dalla muta dei cani roventi....

Il bisogno istintivo di cercare un pallido raffronto nei capolavori degli uomini per far meglio sentire a chi legge ciò che io vedo, mi fa pensare alle opere degli antichi vetrai, semi Prometei che sapevano rubare al fuoco il suo ardore e chiuderlo in una teca di materia trasparente. Ricordo d’aver avuto a Lucca in piccolo una impressione quasi simile dinanzi ad una vetrata magnifica, una sera che il sole riverberandovi le sue ultime porpore aveva elettrizzato i guizzi magnetici del fuoco vetrificato. V’era in basso un Cristo bianchissimo fra la Madre e Giovanni: in alto in una frenesia di astri e di stelle l’ascensione del Verbo in tutta la gloria pasquale verso un empireo d’evanescenze. Colori ed atmosfere avevano la luminosa potenza di questo miraggio tropicale.

Cielo, fiume e foresta sono così suggestivi nell’orgia del tramonto, che quando le prime tenebre smorzano le fiamme d’oro si ha l’impressione di precipitare da sterminate altezze in un ambiente più vicino ai consueti orizzonti della terra!

Siamo entrati in mare a mezzanotte. A bordo tutti dormivano, sui ponti e nelle cabine. I maiali sognavano chissà che truogoli! Solo il personale di quarto ha fatto caso alle strizzatine d’occhio del minuscolo faro.

Passeggeri ed animali sono stati svegliati invece verso le quattro del mattino dal rumore caratteristico d’un vento grosso contro l’intelaiatura d’una nave. Le furie dell’Equatore sono subitanee e violente. Solo certi vecchi lupi dell’Arcipelago sanno intravedere, nel troppo oro dei tramonti, il sintomo d’una collera vicina. Subito la nave ha incominciato a dar segni di irrequietezza con un rullìo scomposto, inframmezzato da colpi bruschi e spasmodici di beccheggio.

Lo stretto di Macassar è mal famato presso la gente di mare. Le burrasche ostacolate nella loro esplosione dai baluardi di Giava, di Borneo, di Celebes e delle innumerevoli isole minori, infilano a tromba lo stretto di Macassar per aprirsi un varco verso il Pacifico. Alle volte un’altra tempesta proveniente dalle Filippine percorre in senso inverso il medesimo itinerario. Allora il cozzo delle due forze nell’imbuto di Macassar determina uno schianto degli elementi.

I passeggeri dell’Alting si adattano alla cattiva fortuna. Il ponte s’organizza per la danza del mare. I malesi che s’erano installati a prua e sui boccaporti con tutti i loro comodi, s’affrettano a riporre nei bauletti cianfrusaglie e trabiccoli. In un battibaleno le stuoie di cocco sono arrotolate, scompaiono paraventi e ventagli, tutte le improvvisate cabine che davano alla quarta classe l’aspetto di un bazar siamese, cedono il posto ad una folla miserabile e muta. I marinai ammainano le tende che il vento minaccia di portar via ed i disgraziati restano sotto l’acqua coi loro fagotti. Ogni tanto un’ondata grifagna scudiscia i dorsi appoggiati alle murate.

Gli ottocento maiali meno filosofi urlano alla disperata, dando alla situazione un carattere tragicomico. Vien da ridere a sentire i futuri salami sgolarsi come dannati, ma alla lunga il loro urlo di terrore finisce coll’esasperare i nervi della gente. Sono esseri viventi che hanno paura, paura dell’ignoto che incombe e minaccia. E non v’è nulla di più comunicativo! Non avrei mai immaginato che dei grugniti potessero assumere un’intonazione così drammatica.

Il capitano assicura che l’Alting è solidissimo, vecchia nave costruita in Olanda senza economie, che quando la tempesta incalza si sbanda d’un lato e tien duro, ma i profani sono male influenzati dal continuo scricchiolìo degli assi e delle lamiere. Quando l’elica fuori acqua rulla a vuoto, sembra che tutto il vapore si scardini, che i pezzi debbano da un momento all’altro separarsi divelti da una forza più potente dei bulloni e delle chiavarde.

L’alba è livida, solforosa; il mare grosso, carico di spuma. Cavalloni neri incalzano d’ogni lato. Il vento urla, fischia, scuote ferramenta e cordami.

Ieri l’aria era così piatta, pesante, piena di sole! Tale era il torpore delle genti e delle cose che pareva dovessimo sempre andare verso un eterno sole, sopra un’acqua d’olio, in un’atmosfera d’oppio...

Un colpo di mare azzanna sopra coperta un fascio di bambù. Pochi secondi bastano perchè l’enorme involto diventi un piccolo punto lontano.

Qualche cosa s’ammassa laggiù nel cielo, come una montagna di bitume, come un accavallamento di muraglie. Nel piombo dell’aria è soffusa una sinistra lucentezza verde che fa pensare alla bile degli abissi.

Ogni tanto il vento si queta. Sembra che tutto sia terminato, poi una forza improvvisa acciuffa la nave pel sartiame e tira, tira, quasi voglia rapirla in alto, nei vortici della bufera. Le mani s’aggrappano istintivamente ad un sostegno, tanto è brutale la sensazione d’essere avvinghiati. Il vento aspetta che la nave precipiti fra due onde per cambiare fulmineamente direzione e spingere rabbiosamente verso la voragine.

L’urlo terribile dei maiali impazziti aumenta l’orrore della battaglia.

Un tifone si forma laggiù dove s’accatastano le muraglie di pece. Sul mare scomposto la nave fugge perdutamente, in senso opposto, impennacchiata dal rigurgito delle caldaie, sgocciolante d’acqua, scapigliata dal vento...

Il giorno ha la morta luce d’un eclisse solare.

Fra la calma piatta di ieri ed il sonnacchioso torpore di domani, questo sabba dello stretto di Macassar mi fa capire tante cose delle terre equatoriali e delle loro genti.

Sì, comprendo la frenetica sarabanda dei draghi che terrorizzano le notti e le infanzie cinesi, le divinità digrignanti della Sonda, i riti terribili dei Teng, l’eccitazione morbosa degli uomini del Borneo, il fatalismo supino dei Dacota, gli occhi sempre sgomenti dei poveri Daiàk, le credenze degli Antenati e delle «forze» che snaturano la stessa fede mussulmana di Giava e di Sumatra, le leggi inesorabili della jungla, le vendette ereditarie per placare la collera degli avi, le follie del kris, tutto ciò che v’è di eccessivo, di smisurato, d’incerto, di ondeggiante, d’implacabile nella vita e nelle religioni di queste povere razze dell’Asia ardente.

Non v’è proporzione fra l’immobilità morta di ieri e la furia satanica d’oggi. Mancano le leggi della gradazione e dell’armonia. L’anima delle folle subisce l’influenza astratta d’un clima paradossale e d’una natura scomposta: troppo oro nei tramonti, troppa pece nelle tempeste, un sole che abbrustolisce, tifoni che spazzano mari e campagne, vulcani che vomitano fuoco, montagne che sussultano, fiumi che per un niente straripano e per un niente si prosciugano, perpetua mancanza di sicurezza, squilibrio di rapporti, tutte le magnificenze e tutti i cataclismi, tutti i profumi e tutti i veleni. Le genti vivono in un mondo senza ordine apparente, in una perpetua assenza di simmetria, sotto l’incubo d’un ignoto immanente, si sentono spettatori impotenti di collere ancestrali, giuocattoli in balìa di potenze occulte ed indefinibili.

Non vogliono lavorare. Hanno ragione! Cercano nella carne delle loro femmine e nei fumi dell’oppio l’attimo di felicità senza preoccuparsi del domani. Hanno ragione! In cinquanta milioni non pensano a ribellarsi a poche migliaia di olandesi e di britannici perchè la parola «futuro» non ha senso per loro. Il loro cervello non concepisce l’avvenire. Solo il passato è una realtà innegabile e verso di esso è orientato il loro senso primitivo. La civiltà deve educarli pian piano ad una esistenza meno soprannaturale, con paziente opera di persuasione, creando in loro la coscienza dell’equilibrio che, nonostante tutto, esiste fra le forze cieche della Natura e la ragionata imperturbabilità dell’uomo. Ma la civiltà d’occidente coi suoi assiomi scientifici è troppo brutale per questa umanità infantile; la vecchia civiltà cinese, che durante millennii ha misteriosamente forgiato le moltitudini asiatiche in pochi quadri invariabili, è indiscutibilmente più adatta per queste razze e per questi climi.

Mentre nell’India metafisica e sognatrice un grande soffio di libertà sommuove la coscienza profonda delle turbe, nell’isola olandese e negli Straits Settlements nessun movimento spirituale minaccia il tranquillo possesso europeo. Per la mentalità indigena la fortuna dei bianchi è «provvisoria» quanto la servitù dei nativi. Tutto è provvisorio nell’arcipelago dei vulcani, dei tifoni, dei terremoti, dei diluvii e dei cataclismi.

La minaccia per gli interessi coloniali dell’Olanda e dell’Inghilterra è d’altra natura: nelle folle che l’immensa Cina continuamente ammassa sulle terre e le isole dell’Equatore nonostante le leggi limitative ed i divieti d’immigrazione. Ed il Giappone è materialmente e spiritualmente quasi pronto per fornire insieme ai quadri ed ai comandi una bandiera ideale!

Il vento sibila, rugge, sghignazza. Le saette serpeggiano con contorcimenti violenti. Le nubi s’abbassano e s’abbattono sul mare. In fondo all’orizzonte s’innalza qualche cosa che non si sa cosa sia, se una fantastica colonna d’acqua od il pino d’un vulcano oceanico emerso improvvisamente alla superficie. Forse domani cielo e mare saranno una sola liquescenza d’oro! Frattanto il tuono rimbomba con schianti di finimondo. Uno scroscio, una vampa; una saetta è caduta in mare. Poi i lampi riprendono a barbagliare...

L’uragano non ha nulla di comune con le tempeste del Mediterraneo e dell’Atlantico. Non vi sono più nè mare nè cielo, nè giorno nè notte: v’è un caos di abissi e di fragori.

L’urlo dei maiali interroriti è l’unica voce non ancestrale della battaglia. Ed è spaventosamente umana!

Agglomerati sui boccaporti, pigiati gli uni agli altri, i poveri malesi formano una massa miserabile di carne livida e sballottata. Non piangono, non gridano. Aspettano! Il malese aspetta sempre, anche faccia a faccia con la morte.

Perchè urlare, perchè raccomandarsi, perchè pensare ad una tavola o ad un salvagente? Gli Antenati sorvegliano l’immutabile compiersi del destino.

«Non scegliere fra destra e sinistra; qualcuno guiderà il tuo cammino!»

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E la nave fugge in mezzo al convulso cozzo degli elementi, fugge... coi suoi maiali imploranti, con la sua plebe rassegnata...

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