Il "Pericolo giallo"

SAIGON, 4 maggio.

Due strade allacciano Saigon a Cholon. Mezz’ora di carrozza e tre quarti d’ora di «pus-pus» sono sufficienti per essere trasportati in piena Cina. Il nostro veicolo tirato dall’uomo-cavallo ha scelto la Via Bassa che corre parallela al «canale cinese».

Rasentiamo l’acqua. Centinaia d’imbarcazioni scivolano nei due sensi sul canale giallastro, fiammeggiante di sole. Sono giunche, «maone», zattere, gondole d’Estremo Oriente, «sampan» dell’Annam, barconi fantastici colle prue a testa di drago, coi tetti a pagoda, cogli altarini degli antenati sui ponti di comando, le vele istoriate, le carene dipinte a soggetti mitologici, lampioni di carta e di seta dondolanti un po’ dappertutto, bandiere ed oriflammi multicolori in cima agli alberi ed i pennoni, labari giallo-oro di Compagnie e di «Congregazioni» issati a bompresso, come pavesi di battaglia, strani tabernacoli incassati nelle murate di babordo con piccoli Buddha dagli occhi di cristallo, casseri argentati, parasoli, baldacchini, tende, stracci, flabelli, una frenesìa di fregi, di maschere, di pupazzi e di colori.

Sembra d’assistere ad una fantasia mezzo giapponese, mezzo veneziana, per la ricostruzione cinematografica d’una ambasceria di Marco Polo agli imperatori del Sol Levante! È invece una giornata di lavoro, una delle solite giornate di navigazione del canale di Cho-lon che si susseguono sempre eguali da cento e cento anni.

Certe giunche arrivano dalle profondità dell’Armarli, fino dall’alto Camboge. Hanno viaggiato settimane e settimane nei canali millenarii, in mezzo alla verde immensità delle campagne di Cocincina punteggiate di pagode...

Certi convogli di «sampan» carichi di bambù sono partiti dalle foreste acquitrinose del Laos, hanno seguito per più di mille chilometri i gironzolamenti del Mekong, attraverso le savane del Peu-hong abitate da gente quasi selvaggia, hanno navigato senza fretta secondo il capriccio del vento ed i ghiribizzi dei canali, facendo il cabotaggio di fattoria in fattoria, incettando il miele di papavero, fermandosi ogni sera in piena campagna per la sosta notturna fino all’alba. Si sono aiutati un po’ col vento un po’ con le correnti, qualche volta sono andati avanti puntando i remi contro i cespugli. Lumaconi di terra e d’acqua dolce, non temono la concorrenza dei vapori e della ferrovia, perchè i «cavalli di fuoco» dei «barbari d’Occidente» non possono seguire le loro rotte pazienti e secolari...

Altri barconi vengono dalla parte opposta, dal Grande Lago, lungo il To-lé tappezzato di fiori di loto, nelle cui acque incantate si specchiano i ruderi imperiali delle antiche magnificenze «kmer». Provenienti da angoli diversi si sono incontrati a Pnom-Pen dinanzi alle «grandi pagode», hanno fatto sosta un giorno ed una notte secondo l’uso che si tramanda da tempo immemorabile per dar tempo ai marinai di fumare il miele nero e di parlare con le donne, poi hanno ripreso il loro vagabondaggio pei canali verso Cholon.

E vi sono anche grosse giunche che vengono di più lontano ancora, da Canton, da Scianghai, da Fu-ceu, perfino da Giava e da Formosa, che hanno sfidato, col loro fragile legname dorato, le collere dei mari di Cina protette dal pavone sacro che erge il suo ciuffo in cima alle prue e spiega le ali magnifiche lungo le cocche multicolori.

Ogni tanto un rimorchio a vapore turba coi suoi rigurgiti di tubercoloso ed i suoi vomiti brutali di pece nera, la navigazione millenaria dei draghi d’oro e delle farfalle gialle. Può sbuffare e rombare quanto vuole l’impaziente rimorchio! I draghi non hanno fretta e non si scostano d’un centimetro per lasciarlo passare.

Zattere e barche cariche di mercanzie fino all’inconcepibile. Le casse sporgono fuori dei bordi e s’innalzano a piramide con un miracolo permanente di equilibrio. I sacchi vengono su dalle sentine accatastati a parallelepipedo come le fiancate d’una fortezza, poi incomincia il regno senza limite dei bambù leggerissimi che sono ammonticchiati a covoni uno sull’altro a formare torri e castelli.

In cima alle mercanzie sono istallati i piccoli equipaggi coi parasoli, le pipe ed i ventagli, fantastici quadretti d’Estremo Oriente che paiono staccati da una vecchia lacca o da una antica porcellana.

La strada lungo il canale è gialla di polvere, picchiettata di sangue dalle innumerevoli espettorazioni dei masticatori betel fiancheggiata di palme pompose e di bambù giganti che riflettono la loro ombra sulle giunche ed i «sampan» in cammino.

Dal canale maggiore si staccano con frequenza altri corsi d’acqua che zig-zagano coi loro nastri d’oro attraverso i campi verde-lucido degli arachidi e delle banane. Più indietro fiammeggiano a perdita d’occhio i cristalli sterminati delle risaie. Qua e là una casetta sparge in mezzo agli alberi un tetto di porcellana rossa a corna di daino od una veranda di porcellana gialla a testa di lumaca.

Un brutto tram a vapore, quattro vetture cariche di marionette dietro una motrice preistorica, ricorda a chi lo dimenticasse, che non siamo nel cuore della Cina ma a pochi minuti dalla capitale d’un impero coloniale europeo.

Quando l’uomo cavallo è all’altezza del tram accelera la corsa per sorpassare il traballante scatolone di ferro dipinto. E se i «pus-pus» sono diversi si aizzano l’un l’altro urlando «iòh! iòh!». Il casotto del dazio è la staffetta di Cholon.

Saigon è la residenza della burocrazia coloniale francese, Cholon, il centro della vita economica della Cocincina.

A Saigon vi sono grandi strade, bei caffè, cinematografi, teatri d’opera e di varietà, alberghi, case di tè e di altre esibizioni esotiche. Francesi ed annamiti si suddividono il pacifico possesso della capitale. A Cholon vi sono grandi Banche, giganteschi emporii, depositi, magazzini generali, fabbriche, opifici, mercati, cantieri, distillerie, e tutto è cinese dal capitale alla mano d’opera, dai direttori ai facchini.

Duecentomila «celesti» sono a Cholon. Tutto il commercio interno e tre quarti del commercio estero dell’Indocina sono nelle loro mani. Mentre gli annamiti passano la vita a sorridere ed a fumare l’oppio, mentre i coloni francesi hanno gli occhi rivolti verso il mare aspettando col desiderio il piroscafo che li ricondurrà in patria a fortuna fatta od a carriera finita, i cinesi pensano a consolidare sempre più il loro predominio. Sono i cinesi che prestano denaro agli agricoltori annamiti e comprano i loro raccolti; sono i cinesi che incettano il riso, lo mondano, lo brillano, lo vendono sul mercato interno e lo esportano in Europa. Ogni settimana diecimila giunche, tutte di proprietà cinese, scaricano sulle banchine di Cholon le ricchezze della Cocincina e dell’Annam.

Per ora i francesi non sono stati capaci ne di sostituirsi ai cinesi nè di svegliare gli annamiti. In realtà i veri padroni della Cocincina sono i cinesi, che già monopolizzano la vita economica e finanziaria del paese e crescono continuamente di numero, ipotecando anche l’avvenire politico.

Un francese mi ha riassunto la situazione con una frase espressiva: «L’Indochine est une colonie chinoise avec une administration française!». È perfettamente esatto.

Del resto i cinesi considerano la Cocincina, il Tonkino, il Camboge e l’Annam alla stessa stregua del Laos, e dello Yu-nam, come appendici naturali della Repubblica Celeste. La loro infiltrazione è antichissima. Al tempo della conquista i francesi trovarono nella bassa Cocincina porti, moli, canali, strade, tutto già costruito dai cinesi. La via commerciale che allaccia il Camboge a Saigon passando per Mintho, fu costruita dai mercanti di Cholon nel 1800. I cinesi come non si interessavano durante il regno dei monarchi annamiti, del regime politico del paese, occupandosi esclusivamente dei loro traffici, così dopo l’occupazione francese hanno continuato a vendere e comperare senza immischiarsi nei rapporti fra conquistatori ed indigeni. Hanno semplicemente approfittato della maggiore tranquillità per intensificare i loro commerci.

Dalla bassa Cocincina sono risaliti per via d’acqua nel Tonkino, dove sono già più di 50.000, con una colonia di diecimila anime nella sola Haifong. Secondo le statistiche del governo coloniale i cinesi sarebbero 300.000 in Cocincina e 100.000 i «mihn-huong» o cinesi meticci, ma i funzionari stessi riconoscono che si tratta di cifre molto inferiori alla realtà, perchè i cinesi si sottraggono con mille raggiri al censimento per eludere il fisco e le leggi proibitive d’immigrazione.

Per avere una idea della loro importanza economica, basti dire che la base dell’alimentazione indigena è il riso. L’annamita non coltiva che riso e non mangia che riso. Ebbene, i nove decimi del commercio del riso sono in mano dei cinesi. Tutti gli altri prodotti della colonia: il grano, la coprha, la colla di pesce, il legno di tek, sono per otto decimi sotto il controllo cinese. Le industrie locali sono per quattro quinti cinesi. Il credito agricolo è esercitato quasi esclusivamente da Banche cinesi contro le quali gli Istituti francesi non possono lottare, perchè le Banche cinesi hanno in ogni villaggio il loro bravo rappresentante che lavora senza bisogno di grandi nè di piccoli uffici. Gli bastano un buchetto, una placca di legno dorato col nome della Banca ed un modesto «sampan» col quale, all’epoca delle semine e dei raccolti, batte le campagne sgusciando entro i più piccoli canali ed arrivando dappertutto.

I contratti sono preparati a Cholon da causidici cinesi, i quali sono maestri nell’abbindolare il coltivatore annamita a filo di rasoio del Codice francese. Alla fine i tribunali francesi sono obbligati, per applicare la legge, a spodestare i poveri annamiti a benefizio dei cinesi che pian piano diventano padroni della terra.

Oltre alle loro doti caratteristiche d’operosità, tenacia, parsimonia, finezza, spirito d’iniziativa, i cinesi sono favoriti, in questa lenta conquista della Cocincina dalla formidabile organizzazione delle loro «congregazioni» che fanno capo alle «congregazioni maggiori» della madre patria, specialmente di Canton, di Fu-kien, di Trie-han, di Hué, di Has-kas.

Tutti i tentativi fatti, per esempio, dal governo coloniale francese per estendere ai cinesi l’obbligo del servizio militare come per gli annamiti, sono sistematicamente falliti di fronte alla resistenza passiva dell’intera massa cinese, la quale obbedisce militarmente agli ordini dei Capi delle «congregazioni». Il governo della colonia ha finito col venire a patti con le onnipotenti «congregazioni». Esse garantiscono l’ordine pubblico nei centri abitati dai cinesi e pagano anticipatamente tutte le tasse della collettività.

Ogni congregazione ha la sua gerarchia elettiva. La disobbedienza ai Capi è punita implacabilmente secondo leggi millenarie e la Polizia francese è impotente ad impedire il corso inesorabile della giustizia interna cinese. I «celesti» liquidano le loro faccende senza fare mai appello alla polizia francese, la quale si limita a mantenere, pro forma, qualche agente nei crocicchi più importanti di Cholon.

Il cosidetto «pericolo giallo» che già colpisce il viaggiatore a Giava, a Singapore, negli «Straits Settlements» e nelle colonie europee dell’arcipelago, si presenta sotto forma ancor più minacciosa nei possedimenti francesi d’Estremo Oriente. I cinesi aumentano continuamente di numero in colonia, grazie ad una prolificità che non ha confronti neppure in quella siciliana o giapponese, ed a continue infiltrazioni che eludono qualsiasi divieto. In teoria l’immigrazione è proibita, in pratica com’è possibile sorvegliare le incerte e sterminate frontiere del Siam, dell’alto Laos, dello Yu-nam, del Tonkino, i mille e mille canali, le foreste acquitrinose senza vie regolari di comunicazione, le innumerevoli diramazioni del Fiume Rosso, del Fiume Giallo, del Fiume Nero, i viottoli trimillenari delle montagne, non indicati in nessuna carta topografica, ma battuti da una immigrazione che ha le sue radici nei secoli?

I cinesi vivono appartati, formando una massa compatta ed omogenea che si mantiene fedele agli usi ed allo spirito della madre patria, che non si lascia assorbire nè dai conquistatori occidentali nè dagli indigeni, che anzi assorbe con facilità questi ultimi nella grande famiglia meticcia dei «mihn-huong», la quale è fatalmente destinata a diventare cinese dopo due o tre generazioni. Per ora le cose corrono liscie perchè la Cina è in letargo, ma il giorno in cui l’immensa Repubblica seguisse l’esempio del Giappone – al quale sono bastati cinquant’annii per diventare uno Stato moderno – le colonie cinesi dell’Indocina costituirebbero senza dubbio una brutta ipoteca pel dominio coloniale francese d’Estremo Oriente.

E non si tratta d’una organizzazione artificiale a fine politico, ma di qualche cosa di peggio: d’una organizzazione, cioè, tradizionale e spontanea che fa parte della medesima mentalità cinese, che esercita la sua influenza sullo spirito delle genti, facendo d’ogni «congregazione» un esercito che obbedisce ciecamente per istinto al suo Capo. Un giorno basterà che Pekino o Canton impartiscano un ordine a cento Capi per mettere in moto i cento eserciti di Saigon, di Singapore, di Giava, di Haifong, di Hanoi, di Hué, di Calcutta, di Madras, ecc.

A Saigon è sorto un partito Giovane-annamita di paternità francese e di filiazione democratico-massonica, il quale si propone di svegliare gli indigeni dalla loro secolare sonnolenza per farne una forza locale, capace domani di combattere i cinesi sul terreno economico e politico. Ogni tanto la «Tribune Indigène» o l’«Opinion» di Saigon pubblicano un roboante articolo a firma annamita contro «l’invasione cinese», facendo appello alle tradizioni puramente annamite di Giao-ki e degli avi guerrieri, ma sono articoli di giornali che nascono e muoiono a Saigon!

La realtà è che gli annamiti non si preoccupano neppure alla lontana del «pericolo giallo». Anzitutto sono gialli anch’essi, poi sono abituati da secoli ad avere gli «zii» tra i piedi. Lo «zio» fa parte del paesaggio. È lui che impresta il denaro, che s’incarica di preparare e vendere il riso, magari bello che cotto, che fornisce i vestimenti, le stoviglie, l’oppio, la luce, i combustibili, i mezzi di trasporto, tutto!

L’annamita è per temperamento pigro, indolente, dolce, filosofo. Non domanda che di vivere in pace, con un po’ di riso ed un po’ di oppio. È felice nella sua somma infelicità. La «Tribune Indigène» e l’«Opinion» predicano al vento.

D’altra parte i francesi stessi non possono fare a meno dei capitali cinesi, dell’attività cinese, dell’abilità cinese, perchè dovrebbero sostituire i trecentomila celesti con altrettanti francesi! E dove li pigliano?

Un vecchio colono col quale parlavo ieri, mi diceva francamente: «I cinesi, dopo aver monopolizzato i commerci della colonia, si stanno impadronendo della proprietà immobiliare. Cholon è ormai interamente cinese e noi siamo ridotti alle funzioni di sindaco e di gendarme. Saigon sta diventando cinese. In due anni i cinesi hanno riscattato per trenta milioni di immobili. A Caman, porto destinato ad un grande avvenire, tutti i terreni sono già proprietà dei cinesi. Così tutti i terreni che costeggiano il canale Saigon-Cholon appartengono a capitalisti cinesi. Cinese è il mercato di Saigon, cinese è il Monte di Pietà, cinesi i fornitori delle Amministrazioni Pubbliche, cinesi i grandi distillatori di alcool, le Compagnie di Assicurazione e quelle di trasporto, i depositi di carbone e di petrolio, i grandi «garages», perfino i depositari della Regia dell’oppio. La mano cinese agguanta tutto. La concorrenza cinese ammazza tutti. Un giorno a noi francesi non resterà che imbarcarci o prendere la... nazionalità di Cin-cin!».

La sudicia Cholon di venti anni fa ha fatto toeletta. In omaggio alle sue condizioni di nuova ricca ha ceduto agli ingegneri una dozzina delle sue straducole centrali perchè ne facessero due vie moderne con belle case e filari d’alberi. Chi ha visitato Cholon nel 1900 od anche solo nel 1910, non la riconosce più: s’è lavata, pettinata, agghindata, messa in fronzoli. Solo profumarsi non ha potuto ed ha conservato il suo caratteristico sentore di topaia cinese, il grande odore di Canton, qualche cosa d’estremamente vago fra il sandalo, l’oppio, l’olio di ricino ed un esercito di piedi sporchi.

Nelle nuove arterie i palazzi sono costruiti all’europea, ma le insegne delle Banche, degli uffici e dei negozi sono rimaste cinesi: tavolette verticali a caratteri d’oro su fondo nero, come assi non ancora inchiodati di feretri principeschi. Dinanzi alle botteghe, accanto ai globi della luce elettrica, continuano a dondolarsi i vecchi lampioni di carta col nome del proprietario. Le finestre aperte lasciano intravedere mobili di lacca, paraventi di seta, bonzi vestiti di raso alle scrivanie. La macchina da scrivere non ha bandito l’altarino degli antenati. E per le strade formicola la folla minuta di Canton, in pigiama nero di stoffa lucida, colle teste nude e rasate, sulle quali è ancora visibile il dischetto più folto dove prima penzolava il codino soppresso dalla Repubblica.

Fra le costruzioni più sontuose troneggiano la villa del miliardario Tai-Maien che è la copia esatta del palazzo del Governatore di Saigon e la sede della Banca San-Son-An, che è il fac-simile della Residenza della Zecca. Simboli forse di condominio?

Appena si lasciano però le strade principali e ci si interna nel labirinto delle traverse, ricompare la vecchia città cinese che ha conservato immutato il suo aspetto di lercia e dorata suburra.

Le strade si rimpiccioliscono, si contorcono, s’intrecciano, perdono ogni apparenza di regolarità, seguono i capricci delle costruzioni caotiche, muoiono in un cortile, risuscitano al di là d’un muro, finiscono col diventare semplici corridoi in una farragine di stamberghe e di casupole. A mano a mano che uno si addentra nelle viscere di Cholon ha l’impressione che la città si trasformi in un gigantesco retrobottega nel quale una fantastica metropoli ammassi i suoi stracci, le sue catapecchie, le spazzature dei carnevali e delle esposizioni, tutti i rifiuti d’una vita grassa e fastosa. Oro e letame sono l’impasto fondamentale della vecchia Cholon.

I più caratteristici sono i quartieri della crapula e dei godimenti ai quali il cinese del centro chiede un’ora al giorno dopo il duro lavoro del giorno. Le case sono affastellate, pigiate, quasi si direbbe accavallate. Strade ed abitazioni sono curiosamente collegate fra loro da un sistema indescrivibile di sottopassaggi che risolvono i più difficili problemi della circolazione violando ogni diritto del domicilio privato. Non è raro il caso di passare attraverso una camera da letto per accorciare la distanza fra un vicolo ed un altro.

Certe bicocche dall’apparenza miserabile nascondono, nelle loro interminabili cantine, sontuosi luoghi d’orgia e di delizie. Nessun controllo di polizia è possibile in questi alveari tutto buchi e gallerie. Quando è indispensabile sanare un quartiere l’unico rimedio è il piccone.

Nonostanze la presenza onorifica di qualche agente annamita, non è consigliabile ad un europeo d’avventurarsi, solo, di notte nei quartieri eccentrici di Cholon. Può non capitargli niente, come può capitargli di scomparire dalla circolazione senza lasciare traccia. Nessun pericolo invece per chi è in compagnia di cinesi. Allora tutte le porte sono aperte senza l’istintiva diffidenza delle città mussulmane. Cholon non ha soggezione dei suoi segreti. Ogni cosa è a disposizione di chi paga senza distinzioni di razza o di religione: taverne, lupanari, case di giuoco, ristoranti notturni, teatri, «dancings» d’Estremo Oriente, fumerie d’oppio, scannatoi pubblici, gli spettacoli più imbecilli ed i vizi più mostruosi, droghe, depravazioni, orgie, turlupinature, pazzie. Il cinese s’infischia del giudizio straniero. Chi non è contento non ha che fare a meno di disturbarsi! La moralità gialla è di manica larga e la sua filosofia ancora di più. In teoria nulla è proibito pei gialli e la pratica corrisponde alla teoria.

Alla febbre diuturna degli affari succede la febbre notturna dei piaceri. Ricchi e poveri cercano il godimento dove meglio loro aggrada. L’unico limite è imposto dal portafoglio. E gli intraprendenti mercanti di delizie fanno miracoli per contentare tutti i gusti.

Il cinese che durante il giorno sembra così freddo, così flemmatico, così lontano da ogni cosa, tutto preoccupato del suo commercio, quasi ipnotizzato dall’avidità del guadagno, si rivela, a chi può osservarlo di notte nei suoi luoghi di bagordi, un gaudente sfrenato. Milionari e facchini spendono con larghezza. Il cinese sa arricchirsi e sa rovinarsi. Le tavole dorate del «ba-càn» divorano, ogni notte a Cholon grosse fortune, ma il suicidio per dissesti finanziari è ignoto ai cinesi. Non v’è differenza tra il facchino che diventa milionario ed il milionario che finisce facchino. Per l’uno e per l’altro restano aperte le porte dell’avvenire. Nel frattempo l’oppio offre a tutti la risorsa d’una vita effimera, nella quale ogni desiderio dei sensi e dello spirito può essere appagato con pochi centesimi.

Cholon ha quindi due faccie, quella del giorno e quella della notte: «Piccadilly Street» e «Montmartre». Le due popolazioni sembrano diverse, mentre sono la stessa cosa. I clienti delle taverne, dei lupanari e delle fumerie che spingono l’orgia fino ai confini della bestialità o della demenza, sono i medesimi placidi mercanti che di giorno contrattano gravemente i «pad-dy» di riso, i medesimi ingegnosi operai che lavorano magnificamente nelle officine tutti i metalli.

Il quartiere della seta, il quartiere delle porcellane, quello delle lacche, quello dei bronzi, dei mobili, dei vetri, della carta, delle curiosità, delle macchine utensìli, provano le singolari attitudini della razza a tutti i lavori manuali ed artistici. I «doks», i cantieri, l’arsenale delle giunche, i bacini di calafataggio, i mulini, gli opifici di decorticazione e di brillatura, le segherie moderne, dimostrano la capacità delle maestranze gialle ad eseguire perfettamente qualsiasi lavorazione europea dopo un breve tirocinio.

L’esempio di quello che ha saputo fare il Giappone obbliga a pensare. Fra un cinese ed un giapponese qualunque europeo pratico dell’Estremo Oriente vi dirà, senza esitazione, che il primo è infinitamente superiore al secondo come operaio, come mercante, come contadino, come uomo d’affari, come piccolo artigiano e come grande banchiere. Ai cinesi manca solo una classe dirigente. E sono quattrocento milioni!

Chiedevo ieri al direttore della Banca San-Son-An, un cinese, naturalmente, quando la Cina si deciderà ad imitare il Giappone.

Eravamo fermi dinanzi ad una profumeria francese della rue Catinat, nella quale erano elegantemente esposti boccette e barattoli delle più rinomate Case di Parigi. Il giallo, fissandomi coi suoi occhietti di smalto, scelse un barattolo.

— Permettez-moi de vous offrir avec la réponse, un flacon de mon parfum, préféré.

Sulla bottiglietta di cristallo smerigliato, sotto il nome di un grande profumiere e proprietario di giornali parigini, erano scritte tre parole: «un jour viendra!».

Il titolo d’un profumo alla moda... il titolo d’un grosso capitolo della storia futura del mondo...

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