La pianura dei morti

HUE’, 26 agosto.

Talvolta il viaggiatore si trova di fronte a formidabili visioni della Natura o dell’umanità che s’impongono da sole al suo spirito per la loro stessa potenza intrinseca, senza bisogno di alcuna preparazione. Lo spettacolo soggioga chi guarda e lo suggestiona. Altre volte, invece, la visione ha linee meno grandiose o meno appariscenti: allora sfugge all’osservatore frettoloso e distratto; riserva il suo fascino al viandante che si attarda a contemplarla, che è in grado di sentirne la poesia, che sa apprezzarne il significato storico od il valore umano, che riesce per un momento ad immedesimarsi coi luoghi, coi tempi, con la coscienza oscura delle moltitudini.

La pianura dei Morti e degli Imperatori – immenso ossario di molteplici generazioni e supremo altare di tutta una razza – può lasciare indifferente o commuovere.

L’occhio non basta, bisogna che anche l’anima veda! Chi non scorge che un macabro cimitero di plebi miserabili ed anonime, passi oltre: la pianura dei Morti di Hué non è fatta per lui. Segua il consiglio delle Guide: si limiti a visitare in automobile le tombe di Gia-Long e di Ming-Mang che dormono il sonno eterno in un bosco secolare, in mezzo ad un triplice cerchio di elefanti, di cavalli e di mandarini di pietra. Accanto al mausoleo di Gia-Long un vecchio Annamita di cartapecora che parla francese gli offrirà un sasso-ricordo ed un tazza di «scium-scium».

La sua coscienza di viaggiatore sarà così a posto! Tornato in patria potrà dire di aver visitato le tombe reali dell’Annam e di aver assaggiato il beveraggio delle Ombre.

Viste alla svelta, nel breve tempo che concede l’autocarro del servizio turistico, le tombe degli imperatori del Sud-Pacifico mi avevano fatto una prima volta poca impressione. Il chiacchierìo frizzante di una «parisienne en voyage d’agreement» fugava inesorabilmente le ombre che sono i lari misteriosi di certi luoghi. Il cimitero m’era sembrato troppo vasto e troppo brullo, i mausolei troppo civettuoli e pettegoli, l’erba troppo pettinata e troppo verde...

Abituato ai sepolcreti giganteschi dell’India, scolpiti superbamente nelle montagne di granito, quasi per obbligare la natura medesima ad eternare col suo petrame immutabile la fragilità dei grandi della terra che scompaiono nella polvere, le tombe graziose dei monarchi dell’Annam m’avevano lasciato freddo. Più che altro m’era parsa originale l’idea di quegli antichi sovrani d’arredare l’interno dei loro sepolcri coi mobili che avevano adoperato in vita e di far riprodurre in pietra intorno alle tombe la scorta di elefanti, di cavalli e di mandarini, alla quale ha diritto l’imperatore per non rimanere dopo morte troppo solo in mezzo agli alberi secolari ed agli stagni putrescenti.

Ma tre settimane di soggiorno nell’Annam m’hanno fatto comprendere il posto enorme che occupano i morti nell’esistenza dei vivi di questo paese la reale immortalità dei monarchi che continuano a regnare nel cuore dei sudditi diversi secoli dopo la loro ultima partenza dal Palazzo. E la Pianura dei Morti e degli Imperatori ha cessato di essere per me il bizzarro cimitero di un popolo che scherza con la morte: è diventata il più grande tempio dell’Annam, un tempio che ha per cupola l’immensità del firmamento e per cripta la cenere di dieci generazioni, illuminato dal sole e dalle stelle, riscaldato dalla fede perenne di tutto un popolo.

Benché il Buddismo sia la religione ufficiale dell’Annam e le classi superiori ostentino di seguire i precetti di Confucio, l’unica vera religione degli annamiti è il culto degli antenati, l’adorazione dei morti, nei quali si perpetua di generazione in generazione la personalità della razza. Tutto il resto è semplicemente «rito», cerimoniale o costume, senza corrispondenza sentimentale nell’anima delle folle. I riti si confondono anzi con le Leggi e con gli ordinamenti sociali in modo che non si sa dove finisca la credenza e dove incominci la morale ed il regime politico. Solo il culto dei trapassati è realmente radicato nella coscienza del popolo e su di esso legislatori e filosofi hanno costruito i loro sistemi che reggono da secoli la vita pubblica e privata dell’Annam.

I Morti sono il passato, sono il presente e l’avvenire. Essi continuano a far parte della nazione, «esistono», vagano in mezzo alle loro gioie ed ai loro dolori, aspettano di riprendere forma terrena in una esistenza animale od umana secondo il capriccio del Caso oppure d’immedesimarsi in un oggetto fino a costituirne l’elemento essenziale, fino cioè a diventare quella misteriosa e meravigliosa «anima» degli alberi, dell’acqua, delle pietre, delle tegole, del vento, della luce, che fa del mondo, per gli annamiti, un unico immenso Essere di natura spirituale.

E la Pianura dei Morti nella quale noi non vediamo che tombe e mausolei più o meno indovinati ed artistici è per le genti dell’Annam un fantastico Pantheon. Non solamente vi sono raccolti tutti gli spiriti della razza, ma hanno una personalità ancestrale i medesimi alberi, le erbe, le pietre, la luce e l’atmosfera, perchè alberi ed erbe sono alimentati dai succhi delle generazioni, perchè l’aria stessa e la luce sono soffi e luminosità usciti dagli occhi e dalle labbra dei trapassati. Quando un annamita dice di andare nella pianura per respirare i morti noi non possiamo capirlo. Perciò non possiamo comprendere la sua Pianura. Essa non fa parte dei clichés degli scrittori che s’occupano dell’Indocina, ma tutto l’Annam è in quella sterminata distesa di tumuli sulla quale i sepolcri degli imperatori ergono i loro bizzarri ombrelli di porcellana lucente.

Entrate in una casa annamita, sia essa ricca o povera, sia il palazzo dell’imperatore o la capanna dell’avventizio di risaia, sia l’abitazione di un indigeno che ha adottate le forme di vita europee o di un altro che è rimasto fedele alla tunica dei padri, sempre la camera più bella o l’angolo migliore dell’unica stanza sono riservati agli antenati, all’altare dei morti, dinanzi al quale le ingenue offerte di fiori, di cibi, di tabacco, di giornali, attestano la fede dei vivi ed il rispetto dei discendenti.

«Finché il padre vive, egli dirige la casa: dopo la sua morte i figli debbono seguire scrupolosamente il suo modo di vivere ed astenersi almeno per tre anni dal modificare anche le più insignificanti abitudini domestiche».

In questo precetto di Confucio è tutta la psicologia dell’Annam. Esso fa della famiglia annamita una fortezza che il tempo non smantella, che anzi i secoli rafforzano; fa della società annamita una più grande famiglia che ha per capo l’imperatore, nella quale l’ordine è facile perchè è naturalmente insito nella coscienza dei suoi componenti.

È inutile tentare di comprendere questo vecchio popolo, la sua arte, il suo regime politico, i suoi istituti sociali, la sua stessa evoluzione moderna, se non si tiene costantemente presente che agli occhi del paese non i giovani, ma i vecchi rappresentano la spina dorsale della razza. Lo spirito delle moltitudini è ritorto verso il più lontano passato nel quale è concentrata la saggezza dei secoli. Perchè un annamita accetti in pieno la vita moderna, non solamente nelle forme esteriori, ma nella sua civiltà essenziale, deve rompere violentemente con la famiglia e con la razza. Non lo fa. Coloro che in buona fede cercano laboriosamente di mettere d’accordo le esigenze della evoluzione con le intransigenze della tradizione, finiscono coll’essere inesorabilmente sopraffatti dall’impossibilità di conciliare due modi nettamente antitetici di concepire la vita e l’umanità.

L’annamita che è dotato di straordinaria capacità di adattamento può imitare le forme della nostra esistenza, ma nel suo intimo resta «figlio dell’Annam». I secoli lo tengono stretto nella loro morsa. Può adoperare una macchina agricola, un motore a scoppio, un telefono come noi, ma il suo spirito non riesce a considerare questi ordegni come semplici strumenti meccanici. Essi hanno per lui un’anima, una loro misteriosa personalità trascendentale che fa parte dell’arcano del mondo. Nella loro efficacia egli non vede la potenza del cervello umano che piega al suo volere le forze della Natura, ma adora un riflesso dell’anima del mondo, del suo mondo annamita. Mentre le gru sollevano dalle banchine i metalli e le granaglie, e le calano nei boccaporti delle navi, il bonzo annamita s’inchina al «Genio misterioso» della macchina. Il guidatore indigeno adora lo «spirito» della sua locomotiva o della sua automobile e di fronte a un guasto il primo moto istintivo è una preghiera. Prima di mettersi al lavoro le operaie di un laboratorio bruciano una cartina d’incenso davanti alle macchine da cucire od ai telai meccanici.

Quando un annamita rompe i ponti e salta risolutamente dall’altra parte, perde contemporaneamente la sua morale e la sua personalità etnica. Scompare il figlio dell’Annam; resta un «giallo», miscredente e scaltro, senza la morale dei padri e senza la coscienza degli occidentali, un essere ambiguo che i vizi assorbono rapidamente nel loro risucchio, svalutandolo, o che la propaganda rivoluzionaria trasforma in un pericoloso ribelle.

La superficialità e la caducità della dominazione francese dipendono precisamente dal fatto che il «partito annamita moderato» e la «politica coloniale di associazione» non hanno fondamento nella coscienza del paese. I francesi si rendono perfettamente conto di questo stato di cose che dà un carattere di fatalità alla perdita della bella colonia. L’opinione pubblica è famigliarizzata con l’idea che «tôt ou tard il faudra quitter l’Indochine»! La politica di associazione iniziata da Francis Garnier per sopperire alla mancanza di coloni metropolitani ed intensificata in questi ultimi tempi da Albert Sarraut – l’ex ministro delle colonie, oggi ambasciatore e candidato alla successione di Lyautey – lascia completamente indifferente la coscienza annamita. In genere gli indigeni che s’arricchiscono nei commerci, nell’agricoltura o nell’industria, si dicono per opportunismo partigiani della «politique d’association», ma quando a fortuna fatta si ritirano dagli affari, ritornano «vecchio Annam». Coloro che non tornano più indietro entrano nella «avanguardia costituzionale», pattuglione rivoluzionario che già chiede puramente e semplicemente l’indipendenza politica dell’Annam.

Quel grande problema della collaborazione fra Occidente ed Oriente che giustamente appassiona la società moderna pel tragico contrasto fra il pensiero occidentale e le millenarie coscienze asiatiche, problema che in India, in Cina e nel Giappone, si presenta confusamente per la stessa vastità di quei paesi e per le innumerevoli inframmettenze politico-religiose che intorbidano la visione centrale, si mostra nello stesso Annam terribilmente chiaro nella sua semplicità.

L’Annam fa capire il Gandhi delle Indie! Qualunque osservatore può constatare ad Hué l’abisso che separa le due mentalità e misurare l’immensità del ponte che bisognerebbe gettare da una parte e dall’altra per permettere alle genti d’Oriente e d’Occidente d’incontrarsi. Quando Gandhi nella sua intransigenza di Apostolo nega alla civiltà occidentale il primato spirituale e ci contesta di rappresentare il progresso dell’umanità, la sua parola è compresa non solo dagli indiani, ma anche dai persiani, dagli afgani, dai turkestani, dai cinesi, dagli annamiti, dai giapponesi, dagli indocinesi, da tutte le genti del vasto continente, senza differenza di religione o di razza, dal Mediterraneo al Mar Giallo, dalle coste del Dekkan a quelle della Corea... Ed in questa universalità dell’apostolato di Gandhi stanno la grandezza filosofica e la forza storica della sua predicazione che si vagliano meglio a mano a mano che ci si allontana dalla sua piccola casa di Calcutta!

La nostra civiltà proiettata nell’avvenire, sforzo perenne e quasi affannoso che tende a perfezionare le forme esteriori dell’esistenza, a valorizzare la potenzialità economica del globo, a generalizzare il benessere materiale, ad imprigionare le forze della Natura e sviluppare la capacità di dominio dell’uomo, civiltà tipicamente conquistatrice e fatalmente incontentabile, basata sull’emulazione dei singoli e delle razze, sulla bellezza della lotta e sulla voluttà della vittoria, fatta di velocità e di ardimento, di superbia e di desiderii costantemente inappagati, operosa, tumultuante, temeraria, sembra addirittura una crisi di epilessia barbarica alle genti asiatiche per le quali ogni battaglia è uno sterile sforzo ed ogni conquista un ridicolo buco nell’acqua, giacché la vita umana non solamente non è un fine, ma una semplice vicenda accidentale di quello «spirito del mondo», il «Tao» di Lao-Tzé, che è nell’uomo come nell’acqua, nell’erba come nel fuoco, nei rifiuti come nella quintessenza di Dio!

Come possono questi popoli concepire allo stesso modo di noi la vita degli individui e delle nazioni, se sono profondamente convinti che le civiltà umane sono nate perfette essendo di natura divina ed hanno avuto nel ciclo già passato il loro periodo migliore? Noi diciamo: avanti, sempre più avanti; in alto, sempre più in alto! Essi dicono: indietro, sempre più indietro! Per essi ogni nuova generazione rappresenta un fatale regresso e tutti gli sforzi debbono tendere all’immobilità per ritardare l’ineluttabile.

I morti sono tutto. Il passato è divinizzato fino al punto di confondersi con Dio e spesso di superarlo. L’umanità avviata verso la decadenza e la perdizione è trattenuta sulla voragine dalla catena dei morti che hanno pietà dei discendenti.

Persuaso di questo l’annamita non ha paura della morte, anzi, si preoccupa in vita del suo sepolcro e degli onori postumi che gli tributerà la famiglia. Sovente il feretro è già in casa, dono gradito che i figli fanno al padre, l’amico all’amico intimo, la donna amata all’idolo del suo cuore. La morte, semplice cambiamento di condizione, non spaventa. L’anima continuerà più spedita il suo cammino verso le serenità supreme, aiutata dalle preghiere e dalle cure di coloro che rimangono. I funerali sono senza tristezza, tranquilli cortei che accompagnano un partente alla stazione. Il dolore trova immediato conforto nel culto. La morte non toglie all’amore che una forma. La morte non distrugge! La morte non è nulla...

Ed ecco che la civiltà annamita mostra la sua reale immagine, di fronte alla quale il nostro spirito rimane perplesso...

Posto un limite all’incontentabile desiderio umano che è la fonte di tutte le infelicità, la saggezza annamita aveva fabbricato la felicità relativa. L’individuo deve contentarsi in vita della sua sorte, anche se meschina, perchè unici responsabili ne sono i suoi diretti ascendenti, cioè egli stesso! Quanto ai soli irrimediabili dolori della vita, cioè agli strappi causati dalla morte nella famiglia e negli affetti, essi sono senza asprezza per la profonda persuasione che i defunti continuano a vivere invisibili dentro le pareti domestiche in mezzo ai superstiti.

Così si avvicendavano le generazioni e scorrevano i secoli...

Il sorriso si stereotipava sulle labbra dei Buddha e delle genti.

Oggi la civiltà occidentale è venuta a turbare coi suoi terribili interrogativi e coi suoi pungenti bisogni la pace secolare di una razza che aveva risolto con un compromesso la tragedia dell’esistenza.

Quando un viaggiatore è arrivato ad avere la sensazione di ciò che è la morte per un annamita e di ciò che i morti rappresentano per lui, allora può visitare la Pianura dei Morti e degli Imperatori. Comprenderà.

Vada solo, senza guide, senza compagni. Scelga l’agonia del giorno, meglio ancora l’avanzato crepuscolo quando arrivano d’ogni parte le ombre. Cammini a caso attraverso l’immensa pianura seminata di tombe tutte eguali ed anonime, in mezzo ai viottoli che hanno per bordatura i secoli scomparsi. Il mausoleo dell’imperatore Tu-Duc che domina la necropoli lo inviterà a riposarsi su una panca, ad accendere una sigaretta, ad ascoltare il sussurro dei venti dell’Annam che giuocano coi salici e coi frangipane in fiore...

Le nostre cappelle mortuarie, austere, fredde, marmoree, cogli emblemi visibili dell’annientamento e dello strazio, colla brutale documentazione della fralezza umana, non hanno nulla a che vedere con questi recinti graziosi che sono solamente l’ultima abitazione di un monarca. La spoglia mortale non è chiusa come da noi in un sarcofago che diventa col tempo la macabra prigione di poche ossa miserabili, ma è sepolta senza feretro e senza sudario a contatto della terra, in un punto qualsiasi che non è indicato da nessun segno particolare e che finisce per essere dimenticato anche dagli intimi. Chi ha amato una forma non può evocare un pugno d’ossame. La forma amata si diluisce nel verde delle erbe e nelle tinte dei fiori.

Che cos’è in fondo il mausoleo di Tu-Duc? Un giardino fiorito, due rivi d’acqua corrente che si scapricciano in fontanine e cascatelle, un grande stagno addormentato ricamato dai fiori di loto ed ombreggiato dai salici, tre chioschi di mattone, tre tetti lucenti di porcellana, qualche arco di legno dipinto, qualche panca, molta ombra, pace e frescura.

In uno dei chioschi è il letto imperiale di sandalo rosso, il suo, nel quale egli dormì. C’è la stuoia di cui si serviva e vi sono le pantofole messe di sghembo, pronte per essere calzate. Ogni mattina una mano pia rinnova sul tavolo di lacca il tè, il riso, la bevanda profumata di «scium-scium» la pipa, il tabacco, le foglie di betel. All’intorno sono raccolti gli oggetti che egli adoperò e predilesse in vita, i suoi abiti, i suoi gioielli, le sue armi, i suoi scrigni, i suoi libri: in un angolo i parasoli, in un altro i ventagli: su un vassoio le collane d’ambra e le coroncine di giada che egli maneggiava, in un cofano il pennello per scrivere, i vasetti degli inchiostri, un rotolo di carta di riso con le sue ultime righe interrotte dalla morte.

Tutto fu costruito mentre egli era vivo e sovente il monarca veniva a leggere, fumare od amare, dove avrebbe «vissuto» dopo morto pei secoli ed i millennii. È lui che ha fatto erigere qua e là nel giardino questi archi di legno dipinto ornati di porcellane che non hanno ragione di esistere. Egli li volle allora per incorniciare un ciuffo di alberi che gli piacevano, per isolare un roseto che prediligeva. Ora gli alberi sono cresciuti, il roseto è scomparso, ma gli archi restano. Ogni tanto il vento ne butta giù qualcuno e la mano pia d’un discendente lo rialza. Restano da secoli e resteranno per altri secoli, finché durerà la fede, come tante altre cose inutili dell’Annam. Così era, così deve essere!

I tre chioschi hanno un nome: la casa dei Genii, la casa dei Ricordi, la casa dell’Anima. In quest’ultima è l’altare supremo sul quale è conservato in uno scrigno prezioso il fazzoletto di seta che un dignitario posò al momento della morte sulle labbra imperiali raccogliendone l’ultimo soffio, la vita che se n’andava.

Nel grande cortile prospiciente ai tre templi la scorta è pronta: aspetta: è di granito, coi mandarini, i parasoli, gli elefanti ed i cavalli, in regola col rito e col cerimoniale. Gli uomini sono rivolti verso il chiosco dove egli dorme e donde può uscire, gli animali verso il Palazzo donde venne l’ultima volta e dove potrebbe tornare. Gli spiriti degli esseri rappresentati abitano le forme di sasso.

Ciò che si dice per l’imperatore vale per tutti i milioni e milioni di morti sepolti nella pianura. La grandezza e la bellezza del recinto variano secondo il rango e la condizione sociale, ma tutti hanno il tè, il riso, le foglie di betel, gli oggetti che ebbero cari, i segni d’una pietà che non si spegne perchè è il fuoco stesso della razza.

Allorché il sole morente ha ritirato dalla pianura il suo grande bacio d’oro, e le ombre escono dagli stagni lungo il filo delle canne tremanti a velare la moltitudine dei sepolcri, il grande altare dell’Annam si popola di lampioni camminanti. I vivi vengono a trovare i morti.

Due sposini annamiti entrano tenendosi per mano nel recinto di Tu-Duc, s’inchinano dinanzi alla Casa dell’Anima, sfogliano un mazzetto di fiori sulla soglia, poi si seggono su un banco a sorridersi ed a baciarsi.

Altri gruppi di amanti, di famiglie a passeggio, di amici usciti per prendere una boccata d’aria, si sparpagliano attraverso la pianura delle tombe e dei mausolei, lungo i viottoli innumerevoli che indicano l’avvicendarsi delle generazioni. Nessuno fa caso ai cortei funebri che vanno per le loro strade ad aggiungere un’altra piccola cosa senza vita alle infinite altre.

Gli alberi, i fiori, le aiuole, i cespugli si empiono di fuochi fatui e di fiammelle follette. Le lucciole dell’Estremo Oriente aggiungono i loro guizzi. I lampioni di carta e di seta che ardono accanto ai tumuli dondolano al vento. Nessuno prega ma una immensa preghiera sale dalla terra verso l’Infinito.

E con la tacita preghiera salgono i vapori degli stagni, simili ad un leggerissimo incenso. Empiono la pianura, confondono i sepolcri imperiali col tritume delle generazioni, attenuano le luci, sfumano i contorni, nascondono la città ed i suoi palazzi, il fiume ed i suoi ponti, il cimitero e le sue genti.

La visione si spegne in un grande velario. E si sentono le Ombre.

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