Il "Lago bianco"

...29 gennaio.

Sono le cinque del mattino quando partiamo da Garoet in automobile diretti ai Telaga-Bodas, cratere spento a mille metri di altezza su Garoet e mille ottocento sul livello del mare. Il luogo ci è stato consigliato da un vulcanologo di Buitenzorg per gettare un colpo d’occhio sul pittoresco insieme del massiccio. Gli scienziati sono sovente grandi poeti.

La macchina fila per due ore sulle belle strade di Giava – nessuna colonia ha un così perfetto sistema di rete stradale – fra campi di tabacco e boschi di palme di cocco. Dove la strada è bordeggiata d’alti bambù giavanesi, pare che l’automobile entri in un’atmosfera musicale, tanto sonora è la vibrazione delle canne e delle foglie nel vento. I birocci indigeni che si recano al mercato di Garoet sfoggiano un aristocratico ombrello-padiglione, rosso o giallo, sotto il quale cavoli ed insalate vanno imperialmente verso il loro destino che è indubbiamente una pentola.

Di mano in mano che si sale, lo scenario dei monti s’allarga. Il cielo mattutino è tutto pennellato di lacche rosa che si diluiscono soavemente nella luminosità dell’aria mentre il grande sole dell’Equatore s’innalza sul cerchio della montagna, ostia dardeggiante di fuoco.

La vallata di Garoet e la pianura di Leles stendono a perdita d’occhio la loro immensità. Le risaie costruite a terrapieni sovrapposti, come usano i liguri per la coltivazione dei fiori sulla riviera di Ponente, s’innalzano fino ad altezze inverosimili sui fianchi dei monti, e di lontano, nella magnificenza solare, sembrano fantastiche gradinate di cristallo costruite da un popolo fatato per dar la scalata ai giganti del fuoco.

A Vanargia lasciamo l’automobile e proseguiamo a piedi per i zig-zag del bastione vulcanico. Tra il cono del Tikorai ed il cratere del Gontor, i vapori solforosi del Papangian stendono un bucato giallo che il sole irradia di lucentezze.

A mille metri la vegetazione sparisce. Il sentiero serpeggia in mezzo a schisti neri ed a roccie ferrigne su un suolo di bitume. Ogni tanto uno sterpo, una pianticella spinosa, un fiore isolato di montagna. In certi tratti il nero diventa improvvisamente bianco, un bianco minerale, opaco e sidereo, fatto di scorie e di pietre pomici, detriti di lontane eruzioni. Brontolii di caldaie indicano di quando in quando l’avvicinarsi d’una solfatara o d’una sorgente d’acqua calda. Dall’orifizio d’una caverna esce un rumore di mantice d’officina. La forgia deve essere lontana e profonda. Noi ci attardiamo ad ascoltare con rispetto il misterioso respiro della terra.

L’ascesa è lenta e faticosa.

A mille e trecento metri il sentiero, valicando un colle, entra subitamente in una paradossale foresta di felci giganti dell’Equatore coi tronchi grandi come palme. A pochi passi dal deserto delle pietre pomici, la natura tropicale riserva la sorpresa d’una selva vergine del centro Africa. Il sole non riesce a filtrare attraverso lo spessore del fogliame. Dall’acciecante bagliore delle scorie si passa così nell’ombra umida e folta d’una galleria vegetale.

Avanziamo circa un’ora entro i camminamenti delle felci. La guida giavanese deve spesso ricorrere all’accetta per aprirsi il passo in mezzo alle liane che ogni notte rifabbricano celermente le loro reti. Verso le undici la densità del bosco è bruscamente spezzata da un alito invisibile di morte. L’esuberanza strapotente dei tronchi e delle foglie è paralizzata all’improvviso, da un principio di calcinazione, stranissimo a vedersi, come la cauterizzazione violenta di un cancro in una carne giovane e sana. Dieci metri più innanzi il «Lago bianco» mostra il suo grande catino di latte. È la cima del Telaga Bodas e siamo sugli orli del cratere spento.

La foresta fascia nella sua ombra l’imbuto maledetto, ma dall’alto del cielo il formidabile sole di Giava mitraglia perpendicolarmente l’acqua morta. Nel castone verde la grande opale luccica satanicamente.

Non un uccello, non una farfalla, non un ronzìo d’insetto, nulla, un silenzio da sepolcro. Si è fuori del mondo e della vita. Così la fantasia immagina siano fatti i paesaggi lunari quando s’attarda a contemplare, in una notte di melanconia, la grande lampada dell’universo. Ogni tanto l’acqua ha un brivido, poi riprende la sua immobilità. Sono le bollicine dei gas idrosolforici che salgono alla superficie. Par d’ascoltare denti di morti che digrignano nel cavo dei teschi.

Il lago, che deve avere all’incirca un migliaio di metri di diametro, è orlato su tre lati da una merlatura di roccioni a punta, alcuni dei quali superano i cento metri d’altezza, tutti impellicciati esteriormente dalla foresta, nudi invece verso l’acqua, irregolari, torvi, spalmati d’un bitume secolare che li fa parere di carbon fossile. Le roccie non si riflettono nell’acqua opaca. Solo v’arde il sole terribilmenie. Sui bordi i solfati d’alluminio formano una schiuma pesante d’argento, come limatura di metallo impastata con una gomma luminosa.

Il cratere dorme dall’82, epoca in cui distrusse duecento villaggi con un improvviso vomito di lapilli e di scorie.

La guida s’avvia verso uno dei roccioni che è aperto a terrazzo sugli abissi. È quasi mezzogiorno quando arriviamo in cima del belvedere diabolico. Mezzogiorno dell’Equatore, l’ora pazza del sole! Ai piedi del macigno giacciono alla rinfusa i ruderi d’un antichissimo tempio indù, edificato dalle genti scomparse della montagna dinanzi al circo massimo dei crateri per adorare la potenza di Dio nel regno delle sue collere. E veramente quei lontani uomini primitivi dovevano sentire la presenza immanente della divinità quando in cima ai vulcani vedevano accendersi i fuochi del globo ed il silenzio delle altitudini era dominato dal rombo dei magli che fucinavano metalli ed incandescenze nelle misteriose profondità della terra.

L’occhio domina la galoppata delle montagne, bizzarro oceano pietrificato nel diapason dello spasimo ancestrale dalla volontà dell’Infinito. Undici grandi vulcani in attività ergono i loro coni impennacchiati sulla bizzarra irregolarità del bastione, il Gontor, l’Haroman, il Tikoray, il Kalandong, il Papangian, il Seda Klung, il Gong, il Ktatiak, il Pengiakai, il Bodas. Altri pennacchi s’allineano in lontananza, altri ancora chiudono come quinte l’immenso scenario del «Lago bianco».

Più alto di tutti, il Tikoray (2800 metri) domina col suo picco di pece la cerchia delle montagne. Una cascata d’acqua, accesa dal sole, spicca come un diamante sulla crosta nera della vetta.

La mescolanza delle foreste coi campi di lava è di un effetto teatrale. Dov’è passato il vomito satanico la vegetazione è morta ed il sole folgora su pendici di carbon fossile.

Ma sugli orli stessi dell’eruzione la vegetazione indomabile dell’Equatore afferma la sua vitalità potente che il fuoco stesso e le ceneri non riescono a distruggere per sempre. Solo là dove i mostri hanno sbavato la loro bile infernale la vita è sopraffatta per l’eternità.

Alta Giava – Capanna di bambù di un indigeno dacoti.
Giava – Villaggio nella jungla.

Il sole è al culmine della sua possanza. Posto nel centro dello spazio visibile lo domina e lo empie. È il Re! I primitivi della montagna dicevano: è Dio!

Nemmeno in pieno Sahara m’è parso così terribile. I fumanti bracieri della terra stabiliscono un fantastico rapporto fra l’astro ed il pianeta. Fuoco giù, fuoco su. La foresta equatoriale con la sua immagine d’ombra è un controsenso. L’uomo soggiogato dal gran mistero del principio e della fine che incombe sullo spirito sente quasi una certa solidarietà col mondo vivo ed umido delle foglie.

Investito dalla mitraglia solare il massiccio rivela tutti i suoi orrori: gole, spacchi, rovine, fortezze di tufo, prue di vascelli, teschi e scheletri di mostri favolosi, immense mammelle, qua e là una lavagna nera rigata da geroglifici di cabala, un bastione color zafferano ingiallito dalle emanazioni sulfuree, una scarpata metallica illividita dalle evaporazioni d’alluminio, ogni tanto il vuoto pauroso d’una profondità indefinibile che non si sa che cosa sia e dove finisca.

L’aria è un unico immenso bagliore. Gli occhi cercano con voluttà il verde degli alberi per riposare un po’ le pupille nelle quali pare s’accenda una magica fiamma rossa.

Sotto la silenziosa mitraglia le lavagne di pece balenano d’infinite lucentezze, le roccie vulcaniche fiammeggiano, le colate di lava fredda sembrano fiumi vetrificati di carbone liquido, rupi e macigni saettano, le petraie s’illuminano di fosforescenza fossile, i crateri bassi mostrano gli impasti incandescenti delle loro caldaie, quelli più alti dardeggiano, venti laghi vulcanici d’acqua morta sparpagliati pei valichi e le gole punteggiano di raggere sinistre l’anfiteatro. Fumano i campi di fango. Qua e là una vampa s’accende. Ed i turiboli degli abissi continuamente innalzano i loro incensi verso l’infinito.

Dov’è il Gontor, un pianoro desolato fa pensare ai deserti della Sirte, ma è un deserto nero, fosco, truce decorato da una potenza malefica per incutere spavento. Le grandi sabbie dell’Africa hanno un non so che di soffice bellezza, invece queste ceneri impastate dalle pioggie sono dure, contorte, bitorzolute. Le arene magnetiche folgorano come detriti di diamanti. Ogni tanto il vento ne accartoccia una tromba e la spolverizza nel vuoto.

Nella frenesia solare l’emiciclo dei vulcani assume l’infernale magnificenza della visione dantesca. Se in quest’istante un rombo squarciasse la giogaia, e gli scarlatti mantelli di Satana coprissero i fianchi delle montagne, lo spirito non se ne meraviglierebbe, tanto è sentita la presenza sovrana del fuoco, tanto irreale sembra questa rupe lucente sospesa sulle fornaci della terra.

Come paiono piccole e lontane le città degli uomini... le passioni degli uomini... i pontificati degli uomini, visti di quassù nel regno delle forze brute che con uno schianto possono tutto distruggere!

Come paiono grandi le stesse cose e passioni degli uomini, tutto il ciclopico travaglio delle genti umane che di fronte alle oscure ininaccie dell’universo sospese sul loro cammino procedono indomite, da Prometeo a Marconi, nella progressiva conquista dell’Ignoto!

Dal cratere del Gontor rigurgitano due sbuffi di vapore nero, più densi e gonfi degli altri, che impeciano i picchi.

Strani rumori animano il silenzio..., soffi di mantici, gemiti brevi e soffocati, fruscii di petrame smosso, brontolii, lontani di motori in movimento...

Nelle fucine profonde il fuoco lavora.

Share on Twitter Share on Facebook