Il "signor Kop"

BOSCO DEL TAO-BI’, 20 luglio.

Ci siamo accampati ieri sera in una radura ad un tiro di schioppo da un villaggetto kas: accampamento molto sommario: una tenda marinara gettata sul terreno, un’altra sospesa ai mantici delle nostre tre automobili.

Le macchine, disposte a triangolo coi fari accesi verso la foresta, hanno tenuto in rispetto durante la notte le bestie della boscaglia, ma hanno attirato tutte le zanzare ed i patataci dei dintorni. Verso le due, ridotti addirittura al parossismo dalle punzecchiature inesorabili dei microscopici visitatori, abbiamo spento i sei fari, ma... un fitto stropicciar di passi furtivi punteggiato di rabbiosi miagolii e di lunghi sibili inquietanti ci ha rapidamente persuasi a non scherzare con la foresta del Laos.

Certe selve dell’Africa che hanno cattiva nomina, indicate nelle carte con tanto di «hic sunt leones» ci riservarono nel 1923 un’accoglienza ospitalissima e le nottate si inanellavano una dietro l’altra senza un ruggito, tanto che bisognava lavorar di fantasia per animare di scodinzolamenti il respiro placido e solenne della foresta vergine. Anche l’anno dopo, nel malfamato Bengala, l’unica tigre che degnò mostrarci la sua pelliccia regale, ebbe la gentilezza d’aspettare il mattino, dopo colazione, e scelse un picco bene in vista a distanza rassicurante, in modo che i miei compagni poterono ammazzarla come in un tiro a bersaglio.

Le foreste del Laos non hanno invece cattiva fama. Nessuno sentendo dir «Laos» pensa a tigri, pantere, serpenti e coccodrilli. A duecento chilometri dalla capitale del Camboge ed a centocinquanta dalla capitale dell’Annam, nel cuore di quell’Indocina che evoca solamente tetti sbilenchi di pagode e sorrisetti lascivi di «conghai», ho avuto una fra le più emozionanti nottate del mio lungo vagabondaggio in deserti e foreste.

Tigri e pantere cacciate dall’avanzar trionfatore delle risaie si concentrano nelle macchie degli altipiani, in compagnia delle ultime torme d’elefanti selvatici destinati ormai a scomparire, di serpi d’ogni specie, di caimani, di grandi scimmie. Più la risaia guadagna terreno nel Laos, nel Camboge e nell’Annam, più si restringe il cerchio della libertà selvaggia e la macchia si popola di biscie, di pachidermi e di felini in battaglia. Le belve tentano di salire la montagna, ma il clima le respinge nelle valli. La fame rende le tigri audaci fino ad entrare nei villaggi e ad attaccare l’uomo.

Durante tutta la notte la foresta ha cantato intorno alla radura la sua formidabile canzone di morte e d’amore.

Si può essere coraggiosi o spensierati finché si vuole, il che all’atto pratico fa lo stesso, ma quando in piena campagna tropicale si sente il silenzio notturno animato da fruscii che non sono di vento, da rumori di foglie smosse, d’arbusti allargati con violenza rapida e cauta, quando si sa che chi fischietta non è un pastore innamorato, ma la terribile naja, che certi urli strozzati sono i rantoli delle scimmiette sorprese nel sonno dai pitoni, che una zuffa di bestie può lanciare dalla vostra parte una torma di elefanti selvaggi, si sente proprio il bisogno fisico e nervoso d’un muro di cinta!

In fondo un muretto od uno steccato valgono poco contro le tigri ed i serpenti, ma tengono i nervi a posto e limitano la tensione all’attimo breve del pericolo. Che cos’era stanotte la nostra protezione? Un niente: la luce dei fari che disegnavano un triangolo bianco intorno alla tenda aperta da tutti i lati all’insidia. Tre fasci d’un nulla luminoso! Bastavano a salvare la pelle, ma non a vìncere la paura. Le nostre armi erano inutili o quasi. Peggio che mai le automobili in mezzo a questi sassi, nel carcere della radura cintato dalla foresta! In caso che qualche animalaccio impazzito avesse osato violare con folle temerità la barriera di luce, solo le cornette delle automobili potevano costituire col loro chiasso stridulo ed insolito un’arma efficace di salvezza.

Pare vi siano delle tempre eccezionali che durante una nottata simile non risentirebbero maggiore emozione che se fossero in poltrona al cinematografo. Non discuto l’esistenza di tale razza d’eroi a prova di bomba, ma per me sono dei disgraziati. Un uomo che di notte, in piena macchia tropicale, sente gironzolare le tigri e sbadigliare le pantere senza che nulla gli solletichi la radice dei capelli, senza che nessun brividino freddo gli passeggi su e giù pel midollo della schiena, sarà un eroe, ma per me è un eroe fatto di legno come Pinocchio. È inutile che vada a caccia di tigri. È un lusso sprecato. Ammazzi tordi in maremma, fa lo stesso!

Io ho l’orgoglio d’aver paura delle tigri, paura e schifo dei serpenti, paura, schifo e qualche cosa di più dei coccodrilli e... mi diverto un mondo e mezzo a sentire il brivido della mia paura. Sarà forse effetto di maggiore o minore potenza immaginativa, ma quando stanotte sentivo zufolare la naja, io la vedevo con gli occhi dello spirito, seguivo il lento ed onduloso serpeggio delle sue spirali in mezzo alle foglie, la vedevo agganciata ad un ramo far l’altalena nel vuoto, scivolar giù dai tronchi come un rivo d’acqua gommosa, strisciare verso di noi con gli occhietti di rubino che penetrano la notte, con la lingua sottile fuori dalle labbruzze d’agata, attratta dall’odore fresco della nostra carne, sedotta dal desiderio invincibile del nostro sangue. E girava, girava, intorno all’anello ingannatore della luce. E dietro le serpi sentivo le tigri, immaginavo la immonda attesa delle iene... Ogni tanto lo scricchiolìo d’un ramo dava la sensazione d’un balzo ed il cuore aveva un tuffo...

Il sorger del sole ci ha sorpresi tutti butterati di punzecchiature e gonfi di sonno mal digerito, vere maschere di suppliziati. Intorno a noi la terribile foresta riprendeva il suo aspetto bonaccione del giorno. La macchia rada e gli alberelli bassi facevano pensare a lepri ed a conigli piuttosto che a tigri ed a cobra-capello. Mentre disfacevamo rapidamente il nostro accampamento automobilistico, abbiamo visto il villaggetto kas aprire le alte porte di bambù del suo steccato, ed un lungo corteo di uomini, di donne, di ragazzi, di cani e di maiali neri, dirigersi verso di noi.

Abbiamo avuto l’impressione d’un attacco in piena regola ed abbiamo messo in attività tutti i motori e le trombette per imporci agli assalitori col rombo della civiltà occidentale. Solo i maiali neri male impressionati hanno fatto macchina indietro. Il grosso del corteo, preceduto da un uomo quasi nudo, con un ombrello bianco, ha continuato ad avanzare.

Giunto ad un centinaio di metri dalla radura, l’uomo dall’ombrello lo ha fatto turbinare più volte vertiginosamente sul suo capo, mentre la folla saltellava in una irrefrenabile crisi di riverenze ed i cani ebbri di gioia improvvisa, latravano a perdifiato. Non c’era da sbagliarsi. Il villaggio si presentava da amico, cosa strana, perchè i Kas di questa zona, pur essendo meno selvatici dei Cedang dell’altipiano, abbandonano sistematicamente i villaggi all’avvicinarsi degli europei, nei quali non vedono, nella migliore delle ipotesi, che agenti delle imposte.

L’uomo dall’ombrello bianco ci ha rivolto un lungo discorso, chissà che squarcio di eloquenza elettorale, ma le nostre conoscenze di lingua kas essendo limitate al solo «buon giorno», non abbiamo potuto apprezzare i meriti dell’oratore. Alla fine egli ha ceduto la tribuna ad una bisavola di pergamena che parla il «Kas-bù», dialetto laoziano, nel quale il nostro interprete pretende di essere un professore.

Mentre i due confabulavano, la folla kas continuava a saltellare gridando in coro: — Kop! Kop!

«Kop» è la tigre. Poco dopo eravamo al corrente della situazione. Da quindici giorni il signor «Kop» bazzica nei dintorni del villaggio prelevando ora un porcello nero, ora un montone bianco. I Kas che temono di peggio, sapendo che gli uomini bianchi posseggono «l’amuleto della foresta» e la «folgore che uccide Kop» sono venuti a domandarci il favore di sbarazzarli dell’importuno.

Grazie al «signor Kop» le nostre macchine hanno fatto un ingresso solenne nel villaggio ed hanno trovato una specie di «garage» sotto le palafitte della capanna del Capo. E noi abbiamo avuto la fortuna di poter vedere da vicino questi Kas-bù che sono ancora poco noti. I Kas-bù non sono «puri sangue». La particella «bù» accusa la mescolanza di sangue thais di fonte mongola. Siccome abbiamo deciso di fermarci una settimana fra i Kas col bù, avrò tempo di parlarvi lungamente del villaggio. Per oggi abbiamo dovuto occuparci del «signor Kop», anche per giustificare agli occhi della tribù la loro insolita ospitalità.

La tigre è per le genti del Laos un animale quasi divino. Gli indigeni non lo nominano mai col solo appellativo di Kop, ma di «signor Kop» e più frequentemente evitano di chiamarlo per nome, perchè pare possegga un udito soprannaturale e risponda ad appelli lontanissimi. In genere lo definiscono «il re della montagna» o «il signore della foresta» o «il grande mandarino della notte», oppure semplicemente Nagai, che è sinonimo di «Sua Eccellenza il Monsignore»!

Se la tigre ruba i porcellini neri e qualche volta fa colazione con la carne gialla d’un Kas, è però anche l’implacabile giustiziera di tutte le altre bestiacce della foresta ed è temuta dai Ma-Quì, cioè dagli spiriti cattivi dell’aria. Perciò i Kas adorano nella tigre una manifestazione della divinità. La sua immagine è tracciata grossolanamente sulle pareti esterne delle capanne, sulle culle dei neonati, intorno ai rozzi altari della foresta. In origine il culto della tigre doveva essere comune a tutte le genti dell’Indocina. Infatti la figura della tigre è uno dei motivi ornamentali delle architetture cambogese, «kmèr» ed annamita. Ancora oggi nell’Annam i generali fortunati in guerra sono chiamati Ho-Tuòng, che significa letteralmente «generali-tigre». Antiche credenze attribuiscono al grande felino il merito d’aver inventato la strategia e d’averla insegnata agli uomini.

Il timore religioso che ispira la belva rende impari la lotta, per cui i Kas sogliono abbandonare un villaggio quando le tigri eleggono dimora nelle sue vicinanze. Se un povero diavolo finisce negli artigli del felino, tutti i membri della famiglia cambiano immediatamente di nome per far perdere alla tigre le loro tracce. Fra le innumerevoli leggende popolari, la più diffusa è quella della «trasformazione», secondo cui una belva che abbia sbranato cinquantacinque uomini, acquisterebbe il potere favoloso d’assumere a volontà la forma umana, di penetrare così indisturbata nei villaggi, d’assistere alle riunioni degli uomini e di sorprendere i loro segreti, dei quali si serve per aspettare al varco le sue vittime. Nelle assemblee dei villaggi, quando si tratta di indicare il luogo dove debbono recarsi i maschi per un taglio di bosco o per un altro motivo qualsiasi di caccia, pesca o razzìa, il nome della località è pronunziato a bassa voce di orecchio in orecchio, perchè «Kop» non senta!

Qualche volta però «Kop» sente lo stesso, anche perchè i metodi di caccia dei Kas sono d’efficacia piuttosto problematica. Essi consistono in certi fascetti d’erba fatata che le fattucchiere sparpagliano nei luoghi dai quali si vuol tenere lontana la belva, in formule incantatrici che sono pronunziate al tramonto con la fronte rivolta al sole morente, in piccoli doni lasciati nella foresta pel «signor Kop» accanto a pietre votive, in tre sassi rossi e tre sassi neri disposti curiosamente a croce nei luoghi battuti dal carnivoro...

Solo raramente, quando proprio «Kop» esagera, i Kas pigliano il coraggio a due mani e ricorrono alle cattive maniere, che consistono di solito nello scavare in foresta grosse buche profonde, mascherate da graticci di fogliame, in fondo alle quali è abbandonato un disgraziato porcello che coi suoi grugniti attira la tigre nella tagliuola. Sopra un albero accanto alla fossa, resta di guardia un guerriero, scelto fra i più intrepidi della tribù ed immunizzato contro le insidie della foresta da uno speciale amuleto. Compito del guerriero è d’assistere alla mala ventura della tigre e correre all’alba ad informarne il villaggio. Le più belle ragazze della tribù sono felici di deporre l’omaggio del loro amore ai piedi di colui che «ha assistito senza morire alle collere terribili di «Kop».

Si noti che in fondo i Kas non hanno paura della tigre come tigre, in quanto sono addirittura temerari nelle cacce alla pantera, ai cobra, ai coccodrilli, ma hanno un sacro terrore delle virtù soprannaturali che la tradizione attribuisce al «signore della montagna». In genere, quando vedono la belva, si buttano a terra con la fronte nella polvere ed aspettano che essa... si degni far colazione. Qualche volta capita che la tigre disgustata da tanta remissività disdegni la preda ed in tal caso il merito spetta agli amuleti.

Date queste disposizioni di spirito abbiamo preso senz’altro la direzione della battaglia per infliggere al «Kop» una punizione esemplare da lasciare nel villaggio una traccia storica del nostro passaggio. Tutt’intorno al paese abbiamo fatto scavare una trentina di fosse, vi abbiamo calato giù il porcellino d’ordinanza, ed abbiamo appostato nei paraggi sopra un albero il relativo guerriero.

Accanto alla porta del villaggio abbiamo fatto costruire una specie di pulpito, sul quale prenderemo posto stanotte con le nostre «folgori». Abbiamo inoltre deciso con grande spavento degli abitanti, che la porta del paese rimarrà aperta per solleticare la curiosità dei felini, ma abbiamo imbottigliato l’unica strada con le nostre tre automobili ed i rispettivi fari che, accesi di scatto al momento culminante, dovranno acciecare le belve ed offrirle bene in luce alle nostre carabine. Gli abitanti hanno ricevuto l’ordine di tapparsi nelle capanne e di non uscirne per qualsiasi motivo. Siamo arcisicuri d’essere obbediti. Le donne sono incaricate d’invocare la protezione dei Genii con le preghiere abituali.

All’ultimo momento la fattucchiera ci ha scongiurato per amore di tutti gli Iddii che le permettessimo di versare sulla soglia del paese un liquido miracoloso nel quale è stato tritato nientemeno che... un baffo di tigre. L’abbiamo contentata anche perchè con le... streghe è sempre meglio accomodarsi! Dal respirone di sollievo che hanno tirato i maggiorenti abbiamo compreso come il villaggio faccia più assegnamento sull’intruglio della megera che su tutto il nostro arsenale di folgori, di lampi e di tuoni.

Sul calar del sole le capanne hanno chiuso le loro porte. Ogni tonfo degli usci gravava il peso della nostra responsabilità... Quando potemmo dire... Finalmente soli!..., andammo a cena.

Ora che avete più o meno innanzi agli occhi non solo la scena ed i suoi personaggi, ma anche un po’ l’atmosfera psicologica, eccovi a grandi pennellate la cronaca della caccia.

Tramonto violento, ma veloce. Breve crepuscolo incalzante e, dopo, la notte fonda della zona torrida. Silenzio vasto e solenne. Il villaggio sembra sepolto nel sonno. Non un lume nè una luce. Solo nel cielo ardono a milioni i globi fiammeggianti del Tropico.

Dietro i monti di Cedanga s’alza la luna, livida ed un po’ beffarda. Il brivido immane della foresta è come l’ansito d’un oceano battuto dai soffi del largo.

Chissà come tremano gli intrepidi guerrieri di guardia alle fosse!

Il grugnito dei porcellini addormentati è il pianto della notte taciturna. Passano i quarti, le mezz’ore e le ore. Le tigri non hanno fretta. Il nostro pulpito di assi scricchiola ad ogni movimento ed il maggiore Smith sacramenta ad ogni cigolìo, quasi si trattasse d’uno schianto capace di rivoluzionare tutte le belve dell’universo.

La foresta arriva fino al villaggio e le prime foglie quasi toccano lo steccato di bambù. Ad un tratto qualche cosa si muove nel cupo ammasso del fogliame, qualche cosa o qualcuno che s’apre cautamente il varco allargando gli arbusti. Si sente il fruscio impercettibile delle foglie calpestate e dei rami smossi. Non c’è caso di sbagliarsi. Le belve si avvicinano.

Ci sentiamo straordinariamente nervosi. Le dita tormentano i cani delle carabine. Il rumore cessa, ricomincia più vicino, si ferma, riprincipia. La chioma d’un frangipane nasconde la nostra presenza. Una lunga pausa acuisce lo spasimo dell’attesa.

Una nuvolaccia di pece passa dinanzi al disco della luna. Sùbito la foresta si fa fosca e la notte diventa più cupa. Pare che un soffio misterioso abbia spento di colpo nell’aria mille e mille candele...

Cocincina occidentale – Pagoda.
Cocincina – Villaggi galleggianti sulle risaie.

E quasi che le tigri abbiano aspettato la complicità della luna per decidersi, i cespugli s’aprono dinanzi all’ingresso del villaggio. Tre forme indistinte attraversano rapide il brevissimo spazio vuoto.

— Luce! — ordina il maggiore.

Al comando secco e concitato i due meccanici che sono appostati accanto alle automobili aprono di scatto i fari. Sei raggi di sole violentano la notte. Le carabine già alla guancia stanno per lanciare la loro raffica di mitraglia...

— Fuo.. no, stop!

Un colpo solo parte di striscio.

Le... tigri, che secondo la leggenda kas hanno assunto la forma umana, fuggono velocemente a rimpiattarsi nella macchia; non tutte, che uno degli uomini-tigre colpito al piede resta inchiodato al terreno.

È un thais di razza mongola! Evidentemente il disgraziato è sorpreso quanto noi di quello che accade. I suoi occhietti obliqui si spalancano comicamente nello sforzo di capire. Perchè questa luce? E che cosa fanno questi uomini bianchi?

Fortunatamente il villaggio che ha la consegna di russare, allarmato dal colpo di fucile s’è rintanato più che mai nelle capanne. Non può accorgersi che questa volta il terribile «Kop», divoratore di uomini e di porcelli, è semplicemente un ladruncolo mongolo bene al corrente delle leggende kas...

Ed in fondo anche noi non abbiamo interesse a svalutare l’importanza della nostra presenza!

Share on Twitter Share on Facebook