La tragedia d’una razza

ALTIPIANO DI TAHOI, 2 agosto.

Il piccolo villaggio kas, di solito così tranquillo, è oggi in subbuglio per uno dei più grossi avvenimenti dell’annata: la partenza degli uomini per la caccia degli elefanti selvaggi. Appena i primi chiarori dell’alba hanno incominciato a sbiancare l’altipiano, le porte delle capanne che di solito s’attardano a sbadigliare al sole secondo i capricci del vento, sono state spalancate dalle femmine mattiniere, immobilizzate con un grosso sasso, ed è incominciato l’andirivieni su e giù per le scalette di bambù.

I ragazzi in festa si lasciano ruzzolare giù dalle palafitte dietro le donne che portano chiassosamente al centro del paese i bagagli dei guerrieri. Un «gong» primitivo rimbomba in permanenza. Sulla soglia degli usci i cacciatori, alti, nudi, scultorei, superbamente dorati dal sole nascente, lustrano con ostentazione le loro armi rudimentali, gli archi, le balestre mois, i coltellacci annamiti, le larghe daghe cambogesi; ammucchiano le foglie di betel nei corni di cervo che portano appesi al collo, arrotolano le rozze corde vegetali, controllano i cappi e i nodi scorsoi, assicurano alle funi i ramponi fatti ad ancora che avviticchiandosi ai tronchi ed agli arbusti freneranno la corsa dei pachidermi catturati impedendo che sfuggano al lasso inesorabile dei cacciatori.

Già nella piazzetta sono riuniti gli elefanti domestici, la più grande ricchezza del villaggio: i maschi carichi di cesti e di fagotti, le femmine invece senza basto e leggermente inebbriate di sugo di menta. Compito di queste ultime è d’attirare coi loro barriti d’amore i maschi selvaggi nei tranelli tesi dai cacciatori.

Dai truogoli situati sotto le palafitte di ogni capanna i maiali neri escono per il bighellonaggio quotidiano attraverso i viottoli del paese insieme con i cani magri e spelati ai quali contendono rabbiosamente i miserabili rifiuti delle stamberghe.

Donne quarantenni che sembrano bisavole centenarie, s’affannano a tritare nei mortai di pietra i chicchi di riso ed i semi di sesamo coi quali gli uomini confezioneranno nella foresta i loro pasti frugali.

Accanto agli elefanti tengono crocchio i vecchi della tribù che confabulano gravemente passandosi l’un l’altro la pipa di canapa e di betel. A guardarli vengono in mente i racconti di Emilio Salgari e di Ugo Mioni letti nell’infanzia, le assemblee degli indiani del Far West intorno al calumeto prima dell’attacco ai volti pallidi. Solo la presenza dei pachidermi nuoce alla verosimiglianza del quadro.

Grossi quarti di selvaggina s’arrosolano su allegri focherelli di spine, infilati come su uno spiedo nelle daghe dall’elsa pretenziosa. Ogni tanto un vecchio si alza a girare un cosciotto che minaccia d’abbrustolirsi troppo od a versare sugli arrosti una salsetta giallognola nella quale nuotano erbe mediche e peperoncini della foresta. Un buon odore di cucina paesana si spande pel villaggetto. I cani ed i maiali sorvegliano con famelica ingordigia i preparativi del banchetto.

La Cina millenaria e l’Indocina raffinata sono lontane assai. Nulla parla in quest’angolo del Laos di civiltà antiche, di arti minuziose, di filosofie trascendentali. Ogni cosa è semplice, primitiva, schiettamente barbarica. Ci si crederebbe in un isolotto del Pacifico, fuori delle rotte delle navi in mezzo ai cannibali della Micronesia. Siamo invece a cento chilometri appena dalle pagode meravigliose di Hué e dai letterati-filosofi dell’Annam!

Le capanne di bambù, in bilico sulle palafitte, rappresentano una delle prime forme d’abitazione umana: quattro pareti di paglia, un tetto obliquo, una scaletta rudimentale. Sulla residenza del Capo un covone di fieno vorrebbe essere una cupola. Nudi i ragazzi, senza neppure la tradizionale cordicella del centro Africa, quasi nude le donne con una pezzuola stinta intorno alle reni, corte di gambe, sviluppate di petto e di bacino, goffe nell’andare ed un po’ bestiali. I seni curiosamente triangolari delle ragazze fanno parere più cascanti le bombole delle donne maritate terminate da un capezzolo nero, allungato come un fischietto. Ben fatti gli uomini, alti d’inguine, sodi e muscolosi, senza nulla della gracilità un po’ effeminata dei gialli, sveltiti dall’esercizio continuo all’aria aperta, dal taglio degli alberi, dalla lotta con le fiere. I denti laccati di nero e limati danno ai volti una intonazione crudele. Il colore cupo delle gengive indurite dalla masticazione ricorda il rosso delle branchie dei pesci poche ore dopo la morte.

Scarsi peli incorniciano il mento dei più vecchi; rari i baffi e ritorti all’ingiù come nelle vecchie stampe di Cina; piatti i capelli, castani, lucidi, abbassati sulla fronte fino a toccare le sopracciglia, tagliati su la collottola, o lasciati crescere a treccia ed arrotolati all’annamita con un pettine di legno.

Le suppellettili delle case si riducono a qualche pentola, a poche stoviglie di coccio, ad un cassone di legno bianco che serve da tavolo e da armadio. Una stuoia è il letto, uno sgabello il cuscino. Solo due o tre capanne posseggono una lampada ad olio che è adoperata dall’intero villaggio nei casi di morte e nelle veglie di malattia. L’illuminazione è un lusso inutile per i Kas. La tribù chiude col calar del sole la sua giornata.

I Kas di questo villaggio hanno nelle loro vene una particella di sangue mongolo che basta a farli considerare come meticci, cioè come esseri infetti, dalle tribù pure dell’altipiano. Questa gente che noi consideriamo selvaggia, uno degli ultimi gradini dell’umanità, tiene gelosamente a non avere contatti con le genti civili. Il più lieve scarto di colore d’un neonato è sufficiente per bandire l’intera famiglia dalla tribù. Solo un leggero appiattimento del naso tradisce negli abitanti del villaggio un lontano innesto mongolo. In tutto il resto sono somigliantissimi anche fisicamente ai Kas puri, dei quali condividono le vaghe credenze religiose e le forme assolutamente primitive d’esistenza.

Ultimi rappresentanti delle antiche popolazioni del Laos, ridotte nel corso dei secoli sugli altipiani dalle invasioni annamite, cambogesi e siamesi, i Kas del Laos sono in fondo la medesima razza dei Mais dell’Annam, dei Penang del Camboge e degli indigeni delle isole del Pacifico. La tinta rosso-mattone della loro epidermide li distingue nettamente dalle altre popolazioni dell’Estremo Oriente. Nelle pianure del centro i Kas si sono fusi cogli invasori cinesi e indocinesi, creando quelle popolazioni laoziane conosciute sotto il nome di So, Sok, Soné e Seks. Nella zona montuosa invece sono rimasti puri o quasi puri. Vivono in agglomerazioni di tribù che prendono varii nomi dalle denominazioni delle foreste, per esempio Kas Bolovéni, Kas Niauéni, Kas Alàks, Kas Bràos, as Puénong, as Cedànghi. Il villaggetto dal quale scrivo è abitato da Kas Bà, meticci dei Kas Bràos. Ogni tribù parla un dialetto differente e le varie tribù non si capiscono fra loro. Credono la terra piatta, abitata da uomini bianchi, rossi e gialli. Non posseggono scrittura, contano su nodi delle funi, riconoscono al più vecchio della tribù il diritto di comando. Di temperamento bellicoso, amanti della guerra e della caccia, audacissimi nei corpo a corpo con le fiere, esclusa la tigre della quale hanno un sacro terrore, di natura religiosa, i Kas potrebbero dare del filo da torcere ai francesi se non fossero armati in modo primitivo di lancie, di sciabole e di archi quasi inoffensivi.

Il resto della popolazone del Laos è costituito da genti più evolute di razza mongola, i Thais, i quali praticano una vaga forma di buddismo, e da correnti d’immigrazione più recente venute dalla Cina, i Maos e gli Yaos, i quali costruiscono le loro case senza palafitte, coltivano e fumano l’oppio, esercitano i traffici e la piccola artigianeria. Maos ed Yaos possono essere considerati una specie di avanguardia dell’immancabile avanzata cinese verso le risaie della Cocincina e del Camboge.

Come i Pelli-Rosse dell’America i Kas sono fatalmente condannati a scomparire, distrutti dall’inesorabile civiltà moderna la quale non riconosce alle genti il diritto di attardarsi di troppi secoli. Finché padroni del Laos erano gli annamiti ed i siamesi, i poveri Kas se l’erano cavata riparando sugli altipiani dove l’asprezza del clima e la magrezza delle alte risaie non seducevano i gialli. Si è così potuto verificare il fenomeno interessantissimo di vere «oasi umane» le quali hanno continuato a vegetare in condizioni di vita tipicamente primitive durante secoli e secoli mentre intorno ad esse si avvicendavano senza neppure lambirle, le grandi civiltà raffinatissime dell’Estremo Oriente, la cinese, la «kmèr», la siamese, l’annamita. Nascevano e morivano immensi imperi, sorgevano e scomparivano sfarzose capitali, l’arte arrivava a produrre le meraviglie di Angkor e di Hué ed a raggiungere con i capolavori dei Song’le più alte vette della perfezione, il Buddismo ed il Confucianismo s’innalzavano a vertiginose altezze metafisiche, il Taoismo tentava perfino di signoreggiare il massimo mistero dell’universo, le forme esteriori della vita giungevano a peccare per eccesso di raffinatezza e le leggi a diventare quasi inutili per l’armonia degli organismi sociali, poeti e letterati lambiccavano lo stile e lo piegavano alle esigenze di una fantasia forse senza confronti! E... cento chilometri più lontano, agglomerazioni di centinaia di migliaia d’individui hanno continuato a vivere pressapoco nelle condizioni di Adamo e di Eva senza neppure accorgersi di quanto intorno accadeva, a vivere ignudi, a battere la pietra focaia, ad ignorare le più elementari conquiste dell’umanità, senza storia, senza scrittura, senza un rudimento d’organizzazione, nulla, nemmeno quella prima forma d’elevazione dello spirito che è una religione! Le credenze dei Kas si riducono ad un vago timore delle «forze» ed a pochi riti infantili per placarle!

Ciò nella vecchia Asia millenaria, culla di tutte le civiltà e di tutte le religioni, nell’Asia dei grandi imperi, delle audaci filosofie, dei monumenti formidabili, dell’inesausto tormento spirituale, dei templi fantastici, dei Saggi, dei Maestri, dei Legislatori, degli artisti incontentabili... Sembra quasi impossibile!

Quando i francesi si sono impadroniti dell’Indocina le cose hanno continuato a procedere come nel passato, salvo la conquista di qualche tribù meticcia. Le autorità militari dopo ripetuti tentativi, tanto cruenti quanto sterili di risultati pratici, si sono contentate di una sottomissione apparente, basata più che altro sull’inesistenza di contatti con le popolazioni indomite degli altipiani. I missionari non più fortunati dei soldati, si sono appagati di piantare la Croce sulle pendici del bastione selvaggio, di raccogliere i deformi abbandonati nella foresta, le donne fuggiasche, i meticci scacciati dalle tribù, i poveri diavoli messi al bando dai villaggi per un presagio sfavorevole. Ancora oggi un Cedang di Sidone può dire fieramente ad un Mois: — Nessun bianco è penetrato nelle terre che il Grande Padre ha affidato agli uomini rossi della Montagna.

Senonchè in questi ultimi tempi, dopo la cessione fatta dal Siam alla Francia dell’intero Laos, la finanza internazionale si è improvvisamente interessata degli altipiani laoziani per la ricchezza delle loro foreste e per le promesse del sottosuolo. È incominciata la conquista. Là dove hanno fallito l’ardimento delle truppe coloniali e la tenacia dei missionarii, stanno riuscendo le Compagnie internazionali di commercio le quali hanno dichiarato guerra ad oltranza ai Mois dell’Annam ed ai Kas del Laos, adoperando piccoli manipoli di avventurieri avidi di guadagno e senza scrupoli.

Gli uomini d’affari che acquistano per pochi soldi dal governo dell’Indocina le «concessioni» dell’alto Laos – in genere buoni ebrei olandesi naturalizzati francesi per l’occasione – hanno organizzato un piano strategico tanto semplice quanto inesorabile: distruggono la foresta! Messo fuori dalla foresta un Kas cessa per necessità di cose di essere un Kas, diventa un laoziano qualsiasi negli artigli della civiltà, obbligato per mangiare a fare il facchino, il servo o lo sterratore, ad abitare le case di pietra, a coprire la sua nudità, ad obbedire ai nuovi padroni, a perdere la sua personalità di selvaggio tetragono ed inafferrabile. Il salto in avanti che la civiltà fa fare istantaneamente ad un Kas lo uccide o lo imbecillisce, ma gli uomini di affari contano i tronchi d’ebano e di tele, non i capi di bestiame umano contenuti nella concessione.

Le «concessioni» sono scelte lungo i corsi d’acqua e procedono gradualmente verso l’interno. La foresta è rasa al suolo ed il suo legname prezioso è sufficiente a coprire le spese dell’impresa. Poi arrivano gli annamiti a creare l’alta risaia, protetti da dieci soldati e da una bandiera tricolore. Il governo della colonia cancella quella porzione di territorio dalla zona indicata nelle carte geografiche con la qualifica di plateaux sauvages e l’assegna al distretto più vicino. Immediatamente entrano in funzione le leggi ed i tribunali. I Kas o fuggono abbandonando i loro villaggi o sono catturati dalla civiltà. Le terre che da secoli sono loro proprietà diventano il possesso legittimo dei nuovi venuti. La schiavitù inesistente in teoria è in pratica la crudele realtà. Unico scampo per i disgraziati è la città dove le apparenze sono salve e dove les droits de l’homme permettono al povero Kas di lasciarsi morire di fame o di procurarsi da mangiare diventando servo.

Il ventesimo secolo affronta brutalmente questi uomini primitivi e li mette di fronte alle sue forme millenarie di organizzazione e di vita. I Kas debbono percorrere in poche settimane il cammino che i nostri antenati hanno fatto durante diecine di secoli, pena la morte o la pazzia; abituarsi alla legge, al vivere cittadino, ai regolamenti di polizia, ai contratti di lavoro, all’automobile, alla luce elettrica, ai telai meccanici, ai motori a scoppio, alle macchine agricole, ai forni ed alle pulegge dei cantieri. La civiltà acciuffa un Kas nella foresta vergine, lo scaraventa nell’inferno di Haifong o di Along e gli dice: — Sbrogliati o muori! Se rubi od ammazzi sarai giudicato secondo il codice di Napoleone. Se vuoi divertirti scegli fra il rugby od il cinematografo. Vestiti o ti metto in prigione. Lavora o ti ficco in carcere. Vuoi un Dio? Ecco Buddha, Cristo e Confucio... ma abbine uno! Crepa magari ma... diventa un uomo civile!

Il povero Kas in genere si rituffa nella foresta o muore sopraffatto dall’immensità del salto che gli fanno fare. Molte donne finiscono nei lupanari dei borghi, molti uomini intontiti dalla catastrofe che capita loro si riducono ad essere le povere bestie da soma d’uno sfruttatore qualsiasi e cercano nell’alcool, ingozzato con voluttà infantile il riposo di cui la loro miserabile anima selvaggia sente bisogno.

Il dramma terribile di tutta una razza passa inosservato in mezzo alla ciclopica battaglia delle valorizzazioni coloniali. Le statistiche indicano l’aumento degli ettari di risaia, non la diminuzione spaventosa degli abitanti indigeni. Nell’Annam meridionale, dove esiste un embrione di censimento, il numero dei Mois risulta diminuito del cinquanta per cento in dieci anni! Ma il destino dei Kas del Laos è ancora peggiore.

Garàì, Mong, Kas Radé, Kas Braos, sono unificati dinanzi alla legge ed alla pubblica opinione con l’indicazione eloquente di «selvaggi». Les sauvages des hauts plateaux! I pellirosse del Far West!

Quando saranno ridotti a poche migliaia sorgeranno anche per loro le... Società protettrici della razza autoctona, e forse una deputazione sarà ricevuta solennemente a Parigi dal Presidente della Repubblica nello storico castello di Rambouillet.

Intanto, la civiltà è in marcia.

Uomini, donne, ragazzi, cani e maiali hanno fatto onore durante tutta la giornata al banchetto pantagruelico della caccia. Gli elefanti sono pronti. Fra poco sorgerà la luna, protettrice dei cacciatori. Resta da compiere il sacrifizio propiziatorio. Poi il più vecchio della tribù darà il segnale di mettersi in cammino.

Il sole morente avvolge il villaggio nel suo grande fascio d’oro trasformando le capanne di bambù e le palafitte miserabili in una fantastica abbazia di quarzo sospesa su un colonname di metalli lucenti. La cupola di paglia dell’abitazione del Capo, investita in pieno dalle porpore solari, assume la paradossale parvenza d’un cono fatto di polvere d’oro e sembra che il vento soffiandovi su sollevi una ocra meravigliosa che si volatizza nell’aria ad incipriare l’atmosfera e le cose. Nella magia dell’ora la foresta vergine sfoggia tutta la sua maestosa bellezza. Il riflesso delle basse risaie si unisce a quello delle alte petraie per incorniciare questo bastione selvaggio in un castone di lucentezze. E fantasticamente d’oro sembrano i corpi nudi che fanno cerchio intorno agli elefanti, corpi di mattone cupo metallizzati dai baleni del tramonto.

Sono nudi e pezzenti i selvaggi ma sono liberi! Non subiscono neppure il dominio di Dio perchè la loro anima primitiva appena ne concepisce l’esistenza. Nella loro suprema ignoranza sono quasi felici. Nulla sanno del mondo e dei suoi desiderii. Altro non desiderano pel momento che un presagio favorevole per la caccia! Il faccione burattino della luna sorride alla loro puerilità.

Si fanno innanzi le vecchie senza figliolanza che conoscono gli incantamenti e che costituiscono nella tribù una specie di casta privilegiata. Urlano alla luna che s’alza pallida sulle creste dei monti, poi principiano la loro danza, frenesia barbarica che sembra una crisi epilettica. E gli elefanti con la proboscide contro terra osservano gravemente le contorsioni delle femmine. E tutto il villaggio, le donne, i vecchi, i ragazzi, colti da un improvviso attacco di pazzia, si danno ad inseguire nell’aria un nemico invisibile, a battere le porte, a tempestare di nerbate le capanne e gli alberi, a fracassare quanto capita loro sotto mano, gridando, muggendo, sozzi di sudore e di bava. Mentre i corpi vanno di qua e di là sballottati come sacchi da un misterioso convulso, le gambe e le braccia battagliano vertiginosamente contro gli spiriti del male per scacciarli dalla piazzetta nella quale deve aver luogo il presagio. Cani e maiali eccitati dalla furia dei padroni, s’azzuffano rabbiosamente fra loro, si rotolano nella polvere, si mordono a sangue. Alla fine gli elefanti stessi vinti dal clamore della pazza battaglia si rizzano goffamente sulle zampaccie posteriori e turbinando le proboscidi barriscono alla disperata.

L’intervento degli elefanti segna il momento decisivo della cerimonia. Il capo si affretta ad accendere una candela di sego giallo su un rozzo masso che è l’altare primitivo di questa gente. Accanto alla candela, vi è una ciotola di riso. Ogni cacciatore ne prende un pugnetto e lo lascia cadere chicco a chicco sulla fiamma. Più chicchi s’invischiano intorno al lucignolo più elefanti saranno catturati durante la battuta.

Esaurito il presagio il villaggio si calma. Gli elefanti sono allineati su una fila dinanzi all’altare ed il capo della tribù pronunzia davanti ad ogni bestione la formula di un contratto misterioso concluso dagli antenati col dio Ngua-Ngualil degli elefanti, in forza del quale Ngua-Ngualil permette ai Kas di catturare tutti gli elefanti di cui hanno bisogno, a condizione che non ne uccidano mai nessuno. Infatti i Kas preferiscono tornare a mani vuote dalla foresta piuttosto che ferire malamente un pachiderma. V’è forse nella leggenda un vago accenno all’alleanza conclusa dall’uomo primitivo col bonario gigante degli animali.

Ogni elefante ha inoltre diritto prima della caccia ad un secchio di sangue annacquato di pecora, dolcificato con miele vergine e con sugo di menta. I pachidermi aspirano con voluttà il beveraggio aromatico schioccando golosamente la linguaccia fra le risate generali. Lo spettacolo di tutte queste proboscidi che sgocciolano sangue farebbe immaginare ad un osservatore casuale chissà quale truce rito babilonico di mammuth divoratori di fanciulli... Non v’è invece nulla di feroce nelle cerimonie e nelle abitudini di questa povera gente. Sono dei grandi ragazzoni che giuocano dalla mattina alla sera e che la notte rabbrividiscono di paura quando il vento scuote con troppa violenza le capanne.

Finalmente i cacciatori prendono posto in groppa agli animali. Ormai il sole è sparito nella foresta incendiandola. La luna incomincia a colorare di madre-perla luminosa la sua smorta bianchezza. Il capo della tribù dà il segnale della partenza.

— Andate, e l’Ombra sia con voi!

— L’Ombra protegga i vecchi e le donne! — risponde ogni cacciatore, passando.

E la carovana selvaggia si mette in moto, come or son mille anni, mentre la folla miserabile delle donne e dei vecchi si prosterna, adorando negli uomini che partono pel mistero della foresta la maschia poesia del pericolo....

Cocincina – Il paradiso di Buddha.
Cocincina – Battelli annamiti sul Mekong.

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